Walt Whitman, poeta iconico e vigoroso, antesignano della beat generation, reso celebre dal poema panteistico ‘Foglie d’erba’

Walt Whitman è un poeta iconico, tipicamente americano del XIX secolo, e probabilmente il primo scrittore americano moderno.
Ma per chi sono le poesie? Per i poeti? lettori? Quale scopo servono le poesie? Per dare sfogo all’anima? Per dipingere o scolpire con le parole? Per alterare la coscienza? Per aumentare il tono culturale?

Whitman nasce a Long Island, New York, 1819 e si spegne a Camden, New Jersey, 1892). Nato da una famiglia di origine mista, olandese e americana, e di condizione modesta (il padre era carpentiere), a undici anni lascia gli studi per entrare, apprendista tipografo, in una stamperia. Nel 1838, a diciannove anni, cambia mestiere e si mette ad insegnare. Ma anche questa è un’esperienza di breve durata: passato al giornalismo, nel 1841, poco più che ventenne, Whitman è già direttore del «Daily Eagle» di Brooklyn, divenuto amico di pittori e cantanti d’opera e pubblicato i suoi primi versi. Nel 1848, per divergenze di opinioni politiche, abbandona il giornalismo e si volse alla professione paterna. Ma sono ormai gli anni di quei taccuini di note che diventeranno in breve tempo i dodici canti del suo grande libro, Foglie d’erba, che da questo momento non cesserà di accrescere con prodigiosa continuità sino alla morte.

La prima edizione di Foglie d’erba (Leaves of grass) esce, composta a mano in tipografia dall’autore stesso, nel 1855. L’avvenimento avrebbe dovuto sconvolgere il mondo letterario americano, perché segnava l’apparizione di un «nuovo bardo» e l’inizio di una nuova era nella poesia americana; ma proprio per la sua novità l’opera non viene capita. I critici la ignorano. Soltanto R.W. Emerson, il pensatore trascendentalista, scrive una lettera entusiasta a Whitman, pur rimproverandolo poi di averla resa pubblica. Eppure da lì a poco, come ebbe a dire Thoreau, «il suo squillo di tromba echeggerà attraverso quell’immenso accampamento che è l’America».

Nel 1862, dopo una visita al fratello George, ferito nella guerra civile, Whitman, mosso da un impulso in cui si intrecciavano il suo senso di umanità e la sublimazione delle sue inclinazioni omosessuali, scopre in sé la vocazione dell’infermiere, o meglio del grande amico dei sofferenti, e nei tre ultimi anni di guerra si prodiga con straordinaria energia negli ospedali da campo, ricavando dalla singolare esperienza nuova materia per il suo canto. Foglie d’erba, un meraviglioso viaggio filosofico nell’universo,  ha inizialmente dieci edizioni, continuamente aumentate durante la vita del poeta: la seconda già nel 1856; la terza, comprendente Calamus e Figli di Adamo, nel 1860; la quarta, che includeva i versi sulla guerra civile, Rulli di tamburo, e l’elegia per la morte di Lincoln, nel 1867; l’ultima, detta «del letto di morte», nel 1892. Nonostante il consolidarsi della sua reputazione anche oltre oceano, nel 1865 Whitman è costretto a lasciare il suo impiego al ministero dell’interno per lo scandalo suscitato dal linguaggio e dalle metafore sessuali di alcune sue poesie. Continua tuttavia a lavorare in impieghi governativi a Washington fino al 1873 quando, colpito da una lieve paralisi, deve rassegnarsi a una vita più ritirata, ma pur sempre lucidissima, continuando a scrivere, soprattutto in prosa.

Si pensa erroneamente che Whitman, uomo di grande curiosità, privo di qualsiasi preparazione storica e filologica, non abbia compreso molto di quegli antichi poeti di cui si è interessato, come Shakespeare, Dante, Omero, Ossian, Eschilo, Sofocle (anche la Bibbia) se non i passi di più facile comprensione e soprattutto quelli solenni che gli richiamavano la sua America. Peccato che egli non approfondisse, amava più che altro prendere semplicemente degli spunti, accogliendoli per il loro valore estetico e musicale. Uomo contemplativo e rude, autodidatta, ha sempre ritenuto nobile ogni cosa, la malattia come la salute, la sconfitta come il trionfo e grazie ai suoi versi ogni cosa, anche quella più insignificante diventa solenne, abbracciando l’intera umanità e sognando ‘autentica democrazia, “nella quale ogni individuo sia una legge e tutti insieme una serie di leggi che permettano il governo dell’universale nella condizione della più ampia libertà immaginabile”. 

Lanciando il verso libero in quanto spazio, e che si allunga, caratterizzato da ripetizioni e da anafore, e questo non tanto per amore di novità, ma per puro impulso in quanto è il mezzo espressivo più immediato per essere compreso, Whitman è stato preso come modello da autori europei come D’Annunzio (anche per quanto riguarda l’aspetto panteistico), Marinetti, Ungaretti e Breton.

Nel 1882 escono i suoi ricordi di guerra con il titolo Giorni scelti (Specimen days). La statura di Whitman, poeta dell’io (celebre è il suo Canto di me stesso, Song of myself) e della collettività, del presente e della democrazia, va al di là dell’intrinseco valore della sua opera poetica per sfociare nel simbolico. Autore di una sola, anche se vastissima, raccolta di poesia, ha avuto un ruolo innovativo non tanto per l’audacia dei temi − l’esplodere dell’eros, la vita e la morte viste da vicino − quanto per il modo in cui essi vengono trattati. Come la poesia della contemporanea Emily Dickinson, anche se con tecniche formali e linguistiche totalmente differenti, la poesia di Whitman si radica profondamente in quel pianeta americano da cui ogni singola «foglia d’erba» trae energia vitale.

Nella loro straordinaria intensità i versi di Whitman riescono, grazie a una precisione elencatoria che non si fa mai pura cronaca né compiaciuta descrittività, a raggiungere un profondo misticismo. Sia quando cantano un amore paganamente puro, sia quando si soffermano attoniti di fronte allo spettacolo della morte, sia quando tracciano figure di operai e di cocchieri in una notte d’inverno (come in Calamus), o celebrano il progresso nella vigorosa immagine della ferrovia, essi trascendono il proprio oggetto per immergerlo in un campo d’energia ritmica e psichica ben più vasto. Ed è questa la lezione che Whitman trasmetterà ai suoi eredi più recenti, i poeti della «beat generation», e in particolare ad Allen Ginsberg. Tra le sue opere narrative pubblicate in Italia Franklin Evans, l’ubriaco (2017) e Vita e avventure di Jack Engle (2017).

Nell’ultima sezione di “Song of Myself”, Whitman scrive:

Mi lascio in pace per crescere dall’erba che amo,
Se mi vuoi di nuovo, cercami sotto le suole dei tuoi stivali. 

Il poema riguarda il Sé, ma sembra anche che riguardi l’intero universo, inclusi erba, alberi, stelle, spazio, tempo, animali, paesaggi e altre persone. Che cosa significa per “sé”? Questo Sé include davvero il mondo intero? È unico, diverso dagli altri Sé?  In realtà Foglie d’erba, questo palpito di vita, questo vortice sensuale e carnale, inneggia alla memoria storica del Paese e grida la gioia dei sentimenti, l’urgenza naturalistica, ma anche il dolore della guerra. Il riconoscimento delle diversità e l’onestà delle emozioni sono la pietra angolare della poetica panteistica di Whitman. Con lui nasce il Sogno Americano.

Non a caso Whitman ha insistito sull’esperienza corporea, i tipi più intimi dell’esperienza corporea, sii parte della sua poesia.
Tutta l’esperienza è fisica. Uno trae profitto dal pensare a ciò che potremmo chiamare il corpo del mondo. Le caratteristiche fisiche dei continenti, la proiezione di edifici attraverso lo spazio, il movimento del tempo, del vento, della pioggia.
Whitman evoca per noi un mondo, o permette noi per vedere un mondo in cui i corpi sono sempre in contatto.

È fatta per la mia bocca, in eterno, ne sono
innamorato,
Andrò sul pendio presso il bosco, sarò senza maschera
e nudo,
Mi struggo dalla voglia di sentirne il contatto.
Il fumo del mio fiato,
Echi, gorgoglii, diffusi bisbigli, radice d’amore,
filamento di seta, inforcatura e viticcio,
Il mio inspirare ed espirare, il pulsare del cuore, il
transitare dell’aria e del sangue attraverso
i polmoni,
Il sentore delle foglie verdi e delle foglie secche, della
spiaggia e degli scogli neri, del fieno nel fienile,
Il suono delle parole eruttate della mia voce
abbandonata ai vortici del vento,
Pochi rapidi baci, pochi abbracci, un tendere a cerchio
di braccia,

Il gioco delle ombre e dei riflessi all’oscillare dei rami
flessuosi,
Il godimento da soli o tra la folla nelle strade, o lungo
i campi o sui fianchi d’una collina,
La sensazione di salute, il vibrare del pieno
mezzogiorno, il canto di me che mi alzo dal letto
e vado incontro al sole.
Hai creduto che mille acri fossero molti? che tutta la
terra fosse molto?
Ti sei esercitato così a lungo per imparare a leggere?
Tanto orgoglio hai sentito perché afferravi il senso dei poemi?  

Fermati con me oggi e questa notte, e ti impadronirai
dell’origine di tutti i poemi,
Ti impadronirai dei beni della terra e del sole (ci sono
ancora milioni di soli),
Non prenderai più le cose di seconda o terza mano, né
guarderai con gli occhi dei morti, ne ti nutrirai di
fantasmi libreschi,
E neppure vedrai attraverso i miei occhi o prenderai
le cose da me,
Ascolterai da ogni parte e le filtrerai da te stesso.

 

Fonte: https://www.ibs.it/foglie-d-erba-testo-inglese-libro-walt-whitman/e/9788854168107?inventoryId=53900701

Lawrence Ferlinghetti: l’ultimo sopravvissuto della Beat Generation

Mezzo secolo ci separa da fatti del ’68 e l’eco della loro epica è forse ben fioca per le giovani generazioni. Parrebbe infatti che i nati nel 2000 non riescano ad immaginare un mondo, una civiltà, differente da quella ereditata. Stupirebbe veramente una loro rivolta generazionale. Forse il dirlo è indice di paternalismo, affine a quello dei critici del ‘68, proprio di quell’epica che a parer loro è stata incubatrice di ogni pressappochismo, di ogni disordine e superficialità. Se i conservatori di destra guardano al mondo delle vecchie zie longanesiane o ad astratte aristocrazie tradizionaliste, esiste un conservatorismo di sinistra, come a smentire definitivamente uno dei significati della dicotomia politica. A cinquant’anni di distanza, dunque, è lecito voler conservare, tramandare qualcosa dello spirito che animò il ‘68? Ed è ovvio che in quello spirito dobbiamo metterci Marcuse e i Beatles in cielo con Lucy e diamanti, il Che e l’Esistenzialismo. Una voglia di migliorare il mondo, di godersi la vita, anche di meditarci su, permessa alla prima generazione non troppo coinvolta in guerre e con più denaro in tasca, libri in scaffale e tempo libero rispetto ai genitori. Sarà comunque fruttuoso interrogare i padri più o meno legittimi di quella rivolta giovanile, studiare le mosse di chi aprì la strada poi percorsa dai cortei e da erranti solitari. Fra questi forse meno noto ma assai influente vi è Lawrence Ferlinghetti, classe 1919, l’ultimo sopravvissuto della prima generazione beat, anche se lui stesso non si definisce tale, essendo ben più esteso il suo orizzonte.

Non tanto come poeta o romanziere Felinghetti fu seminale per i sessantottini statunitensi e poi, per conseguenza coloniale, europei, ma soprattutto come editore. Il marchio City Lights, dalla libreria omonima di San Francisco, ha pubblicato Howl di Allen Ginsberg nel 1956 condannato per oscenità, poi Gregory Corso, Kerouac e Burroghs e fuori dal giro beat Bukowski, Bataille, Pasolini, Breton, Artaud, Chomsky. Letture, insomma, che hanno contribuito a nascita e sviluppo della controcultura Usa. Il tutto parrebbe bene ordito se non si ha un’immagine di Felinghetti reale. Si tratta di un uomo, di un artista, di un osservatore più spregiudicato ed entusiasta e meno calcolatore di quanto potrebbero pensare i suoi avversari, o almeno così appare in Scrivendo sulla strada, un “diario di viaggio e di letteratura” tradotto da Giada Diano per Il Saggiatore. Il sottotitolo non rende piena dignità all’opera, che non è solo un diario di viaggio nello stile di Goethe e di D. H. Lawrence. È un’autobiografia in frammenti, scritta proprio on the road, talvolta tornando negli stessi posti dopo anni: dal 1944 che lo vede soldato ad Omaha Beach al 2010 in Belize dove novantunenne ancora scrive poesie accompagnato dal ritmo del mare.

Nel maggio del ‘68 è guarda caso a Parigi e copia i graffiti surrealisti che parlano dai muri. Vede la speranza in “una libertà totale dalle catene dello status quo”, ma saggio e serafico come un Buddha non si entusiasma troppo, conscio del potere repressivo dello “Stato solido”. L’estate prima, quella del ‘67, the Summer of Love, non lo trova in California ma fra le steppe della Siberia. Amico di Evtušenko e di altri dissidenti, viaggia per la Russia e ben prima di buona parte della sinistra europea capisce che da quelle parti c’è poco di buono. Anche durante il suo viaggio a Cuba nel 1960, con tanto di stretta di mano a Fidel, pare meno entusiasta di quanto ci si aspetterebbe. Da buon anarchico, Ferlinghetti sa che la rivoluzione è trasformazione continua, roba personale che si realizza nel rapporto col paesaggio intorno. Non è mai stasi, è movimento, lo stesso movimento che lo porta fra le povertà e le ancestralità del Messico, in Oceania con Ginsberg e col figlio neanche adolescente, nelle immersioni negli Usa profondi, nella provincia che è il vero centro di ciò che Henry Miller chiamava “l’incubo ad aria condizionata”.

Ferlinghetti vede brutture ovunque ma non è un idealista in cerca del modello perfetto, sa far tesoro di paesaggio e di persone intorno. Vede anche il bello ovunque. E alla fine si commuove più per le suggestioni letterarie, nel ripercorrere le orme dei suoi idoli, che per le uniformi dei Sandinisti. Si commuove veramente mentre Ezra Pound legge al festival di Spoleto del 1965 o a Lisbona sedendosi nel caffè preferito di Pessoa e sentendosi “uno dei suoi eteronimi”.

Di origini italiane e studi francesi, amante della spiritualità liberale e della natura, oltreché della socialdemocrazia scandinava, Ferlinghetti è il più europeo dei beat o il più statunitense dei poeti europei. Rappresenta una felice unione di contrari, compresa quella fra imprenditore e poeta. È però anche oltre la destra e la sinistra, il conservatorismo e l’innovazione acritica e in un certo senso oltre l’ideale e il reale, in una sana sintesi. Testimone della cenere di Nagasaki, della percezione della fine del mondo nella notte del deserto messicano e della resistenza della borghesia “uguale in tutto il mondo”, ci dona anche una capacità di vedere altro, di pensare altro, altri mondi, altri paesaggi e poesie da scrivere. Se quella capacità è stata un poco coltivata nel ‘68, andrebbe sì trasmessa ai giovani, ai nati nel 2000. Risulterà indispensabile per i viaggi nel tempo e nello spazio del futuro.

 

Fonte: L’intellettuale dissidente-letteratura

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