Dal romanzo al film: ‘Il giardino dei Finzi-Contini’, la pellicola della discordia tra De Sica e Bassani

Giorgio (L. Capolicchio) e Malnate (F. Testi) sono tra i pochi frequentatori della casa dei Finzi Contini, aristocratica famiglia ebraica che vive in una lussuosa villa di Ferrara circondata da un vasto giardino. Alberto ama la bella Micol, la quale pur volendo bene Giorgio non esita a concedersi a Malnate. La dolce vita dei Finzi-Contini e le pene d’amore di Giorgio sono interrotte dalla seconda guerra mondiale e dalla politica di discriminazione razziale.

Il giardino dei Finzi-Contini, romanzo del 1962 dello scrittore bolognese Giorgio Bassani è stato non poco osteggiato alla sua uscita da diversi esponenti nella Neoavanguardia italiana che consideravano l’opera costruita attraverso una manovra palesemente ideologica che mira ad un trattamento preferenziale dell’io narrante, ovvero di Giorgio, il protagonista della storia. Una storia di amore (tra Micòl e Giorgio) e di salvazione (quella di Giorgio, la cui buona e cattiva coscienza è incarnata dallo sguardo decadente rivolto al passato dei ricchi Finzi-Contini e da Malnate, amico della famiglia, con le sue scelte politiche e di vita).

Ma se Bassani ha potuto consolarsi con il successo del suo romanzo, contando su una buona parte di estimatori, ben poco ha potuto di fronte alla sceneggiatura del film diretto nel 1970 da Vittorio De Sica, sceneggiatura, stesa da Pirro e Bonicelli, che ha suscitato un fortissimo dissenso nello scrittore, il quale ha chiesto ed ottenuto che venisse tolto il suo nome dai titoli di coda della pellicola. I motivi di tale conflitto sono presto detti: diversamente dal romanzo, il film non utilizza la tecnica dell’Io narrante e si chiude con l’episodio della deportazione mentre Bassani aveva fatto fuggire Giorgio in tempo all’estero, per poter raccontare e rievocare i fatti e la storia della sua giovinezza e del suo amore non corrisposto, a distanza di 14 anni.

È lo stesso Bassani ad esprimere il resoconto della travagliata vicenda della trasposizione filmica del suo romanzo nel 1970 sull’<<Espresso>> con il titolo eloquente de Il giardino tradito: il progetto di rispettare i due differenti piani temporali, il passato (attraverso dei flashes in bianco e in nero) e il presente non era stato tenuto in considerazione, secondo Bassani, da Ugo Pirro. La sceneggiatura di Pirro, in effetti, è instradata in fatti su un solo piano temporale, quello del passato e ha l’effetto di ridurre l’importanza e il significato del ruolo del protagonista; secondo lo scrittore infatti l’attore Capolicchio compie il suo dovere <<ma il film, incerto sempre se rappresentare la storia d’amore tra lui e Micòl, o se dare un quadro documentario dell’Italia mussoliniana alla vigilia dello scoppio della seconda guerra mondiale, o se descrivere le persecuzioni antisemitiche attuate dal fascismo, ne fa un personaggio sbiadito, minore, di nessun rilievo morale>>. E nel romanzo Bassani usa anche mezzi “sleali” per elevare moralmente Giorgio, facendo terra bruciata intorno agli altri personaggi e rendendo funzionale al processo di salvazione dell’io narrante persino il problema ebraico.

Bassani protesta anche contro la rappresentazione del padre di Giorgio proposta sul grande schermo, il quale viene fatto partire per i campi di sterminio nazisti dopo aver detto alla bella Micòl che Giorgio si era salvato. Le incongruenze e le approssimazioni del film sono evidenti, come una certa freddezza che pervade l’illustrativo e smorzato film. Ma il lavoro di De Sica, al quale non può essere fatta una colpa (come del resto nemmeno a Bassani se non si è riconosciuto nella trasposizione cinematografica) se ha voluto realizzare un’ opera autonoma, ha anche dei meriti, uno su tutti quello di aver proposto uno spettacolo nuovo, per nulla volgare o kitsch come è stato ingiustamente definito, attraversato da una luce crepuscolare che nasce proprio dai sentimenti di speranza (e di inganno) di Giorgio e Micòl. In fondo i protagonisti del film subiscono un estraniamento che si avverte nelle pagine del romanzo, i personaggi di Bassani sono dei fantasmi di un passato perduto, (e in quanto ebrei, avvertono ancora di più lo sradicamento, la perdita di identità), la loro quotidianità fatta di piccole cose si scontra con la grandezza della Storia.

Il regista ha cercato di bilanciare l’ambiguità e la nostalgia dei personaggi con la storia d’amore, con gli eventi storici che trasformano tutto in tragedia, e con le ragioni commerciali. Ne è emerso un film più che decadente, neoromantico, dipinto ad acquerello dove l’ineluttabilità del destino opprime la vita dei personaggi, incapaci di vivere la realtà; De Sica dà maggiore spazio alla splendida protagonista, l’unica che capisce davvero cosa avverrà di li a poco, la cui relazione con Malnate risulta poco credibile. Nonostante i suddetti difetti che però non bastano a decretarne la stroncatura, Il giardino dei Finzi-Contini si è aggiudicato l’Oscar per il miglior film straniero nel 1971 e altri numerosi premi e nominations.

 

Il giardino dei Finzi-Contini-scheda film
Anno: 1970
Regia: Vittorio De Sica
Cast: Lino Capolicchio (Giorgio), Dominique Sanda (Micòl Finzi-Contini), Helmut Berger (Alberto Finzi-Contini), Fabio Testi (Giampaolo Malnate), Romolo Valli (padre di Giorgio).
Sceneggiatura: Vittorio Bonicelli, Ugo Pirro.
Fotografia: Ennio Guarnieri
Musiche: Manuel De Sica
Produzione: Gianni Hecht LucariI, Arthur Cohn per DOCUMENTO FILM ROMA, CCC FILMKUNST (BERLINO)
Distribuzione: TITANUS- MONDADORI VIDEO, SAN PAOLO AUDIOVISIVI (IL GRANDE CINEMA), DE AGOSTINI
Paese: Italia
Durata: 93 Min

Tommaso Landolfi: surrealista atipico

Assegnare a Tommaso Landolfi (Pico , 9 agosto 1908 – Ronciglione , 8 luglio 1979) una precisa collocazione, nel campo delle espressioni letterarie del novecento, è una impresa difficile.
Sicuramente le sue opere di maggior successo sono ascrivibili al genere del surrealismo, che nella metà del novecento, si andava ad affermare. Tuttavia Landolfi ha rappresentato in maniera nitida ed originale anche i tempi di allora: ad esempio, in “Racconto di autunno”, scritto nel 1947, si tratta di temi quali la vanità delle azioni umane, il tutto trattato però con una leggerezza narrativa che rende sin dal suo esordio Landolfi una delle personalità più particolari del novencento italiano.

Ha detto di lui Italo Calvino: “Il rapporto di Landolfi con la letteratura come con l’esistenza è sempre duplice: è il gesto di chi impegna tutto se stesso in ciò che fa e nello stesso tempo il gesto di chi butta via”.
Landolfi ha condotto una vita lontana dai salotti e dai circoli intellettuali, ma nonostante questo suo schivo carattere, ha avuto apprezzamenti da parte di Giorgio Bassani e Eugenio Montale.

Collabora con varie riviste letterarie (<<Letteratura>>,<< Il Mondo>>, <<Campo di Marte>>), esordisce come narratore nel 1937 con la raccolta di racconti intitolata “Dialogo dei massimi sistemi”: sette racconti (il primo, Maria Giuseppa, risale al 1929) che esplicitavano la natura surreale e inafferrabile della narrativa landolfiana. L’originalità di tale scrittura è confermata dai volumi successivi: i racconti raccolti nel “Mar della blatte e altre storie” (1939), il romanzo “La pietra lunare” (1939), la nuova raccolta di racconti “La spada” (1942). Nel 1946 usce il romanzo “Le due zitelle”, cui seguono “Racconto d’autunno” (1947) e “Cancroregina” (1950). In quest’ultima opera un viaggiatore solitario attende la fine all’interno di un’astronave costruita da un folle, ma continua nel frattempo, con ostinazione, a osservare lo spettacolo della vita umana pur da quelle siderali lontananze.
Il demone del gioco, assieme ad altri motivi autobiografici, sono al centro delle opere diaristiche La bière du pécheur (1953), “Rien va (1963) e Des mois (1967). Nel1975 vince il premio Strega con A caso.

È stato inoltre collaboratore fisso del settimanale <<Oggi>> di Arrigo Benedetti (1939-1941). Più tarde sono invece le collaborazioni con <<Il Mondo>> di Pannunzio e <<Il Corriere della Sera>>.

la pietra lunare

Landolfi ha mostrato nel corso della sua attività, un vero interesse per le possibilità della lingua, seppure non sia uno scrittore d’avanguardia. Nel racconto “La passeggiata”, che alla persona dotata di un vocabolario medio pare un racconto astruso e incomprensibile, lo scrittore lascia  sfilare una serie di vocaboli desueti, o gergali, ma tutti presenti sul dizionario.

Viceversa Landolfi ama anche inventare e affronta problemi di linguistica, come nel caso della celebre poesia in lingua inventata che comincia così:

Aga magera difura natun gua mesciun

Sanit guggernis soe wali trussan garigur

Gunga bandura kuttavol jeris-ni gillara….

La poesia sopra menzionata si trova all’interno del racconto umoristico “Dialogo dei massimi sistemi” (1937), incentrato sul problema linguistico e paradossale di una lingua comprensibile solo al parlante, e al valore intrinseco, se esiste, di una poesia scritta nella medesima lingua. La poesia, quasi fosse una formula magica, nel 1994 viene scelta per dare il titolo al Dizionario delle lingue immaginarie” di Paolo Albani e Berlinghiero Buonarroti.

La personalità solitaria di  Tommaso Landolfi lo ha portato spesso a lunghi periodi di solitudine, soprattutto in seguito ai suoi attacchi di cuore, in cui lo scrittore non vedeva nessuno. Proprio durante uno di questi periodi che Landolfi viene colpito da un enfisema polmonare, senza che ci sia nessuno protno a soccorrerlo.

Vi è un certo gusto in Landolfi per il macabro, per il lugubre, per il mistero che avvolge la quotidianità nelle nostre vite pervade ada allucinazioni e incubi; in questo senso lo scrittore si pone sulle scia di Kakfa e Dostoevskij, in quanto attento indagatore delle tematiche esistenziali ma non raggiunge le note tragiche dei suddetti autori. Landolfi è troppo languido, sfiduciato e malinconico per essere straziato e straziante e triste, ma è disperato e la sua disperazione commuove ed incuriosisce il lettore.

Riportiamo un passo tratto da “Il mar delle blatte e altri racconti” ( il monologo di uno dei due lupi mannari):

<<L’amico ed io non possiamo patire la luna: al suo lume escono i morti sfigurati dalle tombe, […] l’aria si colma di ombre verdognole e talvolta s’affumica d’un giallo sinistro, tutto c’è da temere, ogni erbetta, ogni fronda, ogni animale, una notte di luna. E quel che è peggio ci costringe a rotolarci mugolando e latrando nei posti umidi, nei braghi dietro ai pagliai; guai allora se un nostro simile ci si parasse davanti!>>

 

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