Giovanni Gentile, filosofo della prassi e intellettuale scomodo

Il nostro tempo mette a tacere diversi autori scomodi, considerandoli inattuali, verso i quali nutriamo dei pregiudizi ideologici, ma il cui pensiero stimola il nostro intelletto e si rivela fonte di spunti interessanti. Perché non si studia o si studia poco e male uno dei più grandi intellettuali del Novecento, quale è stato Giovanni Gentile (Castelvetrano, 29 maggio 1875 – Firenze, 15 aprile 1944)? Perché il filosofo grazie al quale si spiega tutta la filosofia italiana del secolo scorso, a partire da Antonio Gramsci è stato condannato all’oblio? Uno dei motivi di questa damnatio memoriae è da ricondurre alla costituizione di mode anche in filosofia (gli autori che vanno di moda sono quelli che giustificano sempre il tempo in cui viviamo, con i loro misfatti ed iniquità), oltre che, ovviamente, all’appartenenza di Gentile al regime fascista.

Perché Giovanni Gentile è stato un pensatore importante? Prima di tutto a lui si deve la revisione del pensiero marxista (come già è avvenuto in Francia grazie a Sorel), criticandone il materialismo storico e dialettico, e fornendoci una lettura in chiave idealistica, mostrandoci un Marx non stereotipato, più vicino alle filosofie di Hegel piuttosto che a quelle del positivismo di Comte. L’opera di Gentile su Marx, La filosofia della prassi (1899) è il più grande testo su Marx mai apparso in Italia e segna un grande dibattito: se in Italia, per tutta la prima metà del Novecento, Marx viene letto come filosofo della prassi, lo si deve alla geniale interpretazione di Gentile. Lo stesso Marx di Gramsci è un “Marx attualista”, gentiliano. La revisione di Gentile inoltre, identifica in Marx un “idealista metafisico”.

Gentile identifica nel concetto di prassi il segreto metafisico di Marx, ovvero l’assunto per cui la realtà è sempre risultato storico di un fare: è Gegenstand e non Objekt, come recita la prima delle tesi su Feuerbach (tradotte da Gentile per la prima volta in italiano). La realtà quindi non è materia data a prescindere dal soggetto, ma esito di un porre, produzione, esito pratico dell’agire sociale: si ha il soggetto se si guarda all’azione nel suo sviluppo, e si ha l’oggetto se si guarda l’azione nel suo risultato. L’oggetto è il soggetto stesso che si è oggettivato. Marx chiama la propria filosofia della praxis “materialismo” perché la materia è la metafora che significa azione rivoluzionaria. Confrontandosi con il prassismo di Marx, Gentile ha dunque posto le basi per il codice attualistico e per la riforma della dialettica hegeliana.

Nato a Castelvetrano (Trapani) nel 1875, Giovanni Gentile si è formato presso l’università di Pisa, ha rivolto la sua attenzione soprattutto verso Kant, Rosmini, Gioberti, Hegel. Negli ultimi anni del secolo Gentile approfondisce, da un lato, Spaventa e, dall’altro, Marx, che esamina nel testo La filosofia di Marx (1899). Attraverso la nozione marxiana di prassi liberamente rivisitata e mediante la lettura di Vico e degli idealisti tedeschi, Gentile delinea la sua concezione della soggettività trascendentale intesa come “attività creatrice” che collega soggetto e oggetto in un fare che si manifesta nella storia. In questi anni Gentile stringe una forte amicizia con Benedetto Croce che durerà fino a quando la differenza tra lo storicismo crociano e l’attualismo gentiliano si farà troppo marcata. Nel 1903 Gentile delinea la propria posizione filosofica che prende il nome di attualismo e ch’egli svilupperà in una serie di saggi teorici fino al 1922; nel frattempo si dedica anche alla ricerca storico-filosofica con gli studi: Le origini della filosofia contemporanea in Italia (1903-1914), Dal Genovesi al Galluppi (1903), Il pensiero italiano del Rinascimento (1920), Studi vichiani (1915), Gino Capponi e la cultura italiana del secolo decimonono (1922). Nello stesso periodo il filosofo affronta anche le questioni della pedagogia: Sommario di pedagogia come scienza filosofica, La riforma dell’educazione; Educazione e scuola laica; Preliminari allo studio del fanciullo; e successivamente quelli estetici in Filosofia dell’arte.

Nel 1911 esce L’atto del pensare come atto puro, nel 1913 La riforma della dialettica hegeliana, nel 1916 Teoria generale dello Spirito come atto puro e dal ’17 al ’22, il Sommario di logica come teoria del conoscere. Nel dopoguerra Gentile tratta i problemi politici in Guerra e fede (1919) e diviene uno dei principali esponenti in campo intellettuale; viene infatti nominato ministro della Pubblica Istruzione ed elabora, nel 1923, un’importante e discussa riforma della scuola. Negli anni successivi si occupa quasi esclusivamente di organizzazione della cultura, è direttore dell’Enciclopedia Italiana e presidente della Accademia d’Italia. Dopo la crisi del 25 luglio 1943 si apre ad un ripensamento dal punto di vista sociale della sua filosofia che prende forma nell’opera Genesi e struttura della società (1946). Muore a Firenze nel 1944, barbaramente ucciso dai partigiani antifascisti.

Gentile ha appreso da Marx il considerare l’uomo come faber fortunae suae ed è proprio ne La filosofia di Marx che, discutendo il pensiero marxiano, Gentile sostiene che la storia è l’esito mai definitivo del fare umano.

La pedagogia per Giovanni Gentile si identifica con la filosofia. Di particolare importanza e attualità sono le tesi sul rapporto tra maestro e scolaro, caratterizzato da un dualismo che deve risolversi in unità attraverso la comune partecipazione alla vita dello spirito che, attraverso la cultura, va dall’educatore verso l’educando e lo riassorbe nell’universalità dell’atto spirituale. Nella vita della scuola il maestro occupa il posto centrale e in lui si esprime il modello formativo spirituale e culturale che deve essere d’esempio all’alunno.
La scuola (costosa, ma probabilmente tra le migliori che l’Italia abbia mai avuto) che emerge dalla dottrina pedagogica gentiliana è molto legata alla tradizione umanistico- letteraria ed è caratterizzata da un ordinamento gerarchico e centralistico. Una scuola aristocratica dunque, pensata per i migliori, e rigidamente suddivisa a livello secondario in un ramo classico-umanistico per le classi dirigenti e in uno professionale per il popolo ed introducendo l’insegnamento religioso a livello primario. Bisogna sottolineare che Giovanni Gentile non giunse nella scuola italiana come riformatore al Ministero per meriti fascisti: quando Mussolini ottenne l’incarico di governo dal re volle subito dimostrare che il fascismo era disponibile ad accettare la collaborazione di tutti gli uomini di valore. Di Gentile, Mussolini non sapeva neppure il nome. Glielo propose per la pubblica istruzione il sindacalista Lanzillo, e il futuro dittatore si trovò davanti un Gentile intransigente che pose due condizioni al fine di accettare la proposta: che fossero ristabilite le pubbliche libertà e introdotto l’esame di Stato nelle scuole secondarie. Mussolini ovviamente promise.

Nonostante l’oblio a cui è stato sottoposto soprattutto dall’establishment culturale politicizzato italiano (soprattutto nelle scuole e nelle università), la caratura culturale, morale e civile di Giovanni Gentile rimane inalterata e viva (come dimostrano i numerosi studi a lui dedicati come quelli di Sasso, Romano, Mecacci e tanti altri), anzi cresce col passare degli anni ed anche tanti dei suoi critici di ieri e cominciano finalmente a rivedere le loro posizioni e a riconoscere il valore di un grandee dignitoso pensatore che non è mai andato come tanti altri, alla ricerca di alibi per evitare le conseguenze della propria scelta politica quando la situazione si faceva pericolosa, uno scomodo intellettuale che ha saputo riformare Hegel attraverso l’illuminante rilettura di Fichte tramite Marx: in questo modo l’identità hegeliana di pensiero ed essere diventa identità garantita dall’atto in atto del pensiero pensante. Come ha affermato Masullo, Gentile si confronta con tutti ma non fa mai i conti con Fichte: perché, in fondo, era per molti versi il suo alter ego, ossia l’autore che più gli assomigliava.

Benedetto Croce, “il papa laico”

ìIl papa laico”; è stato definito con queste parole il critico ed intellettuale Benedetto Croce (Pescasseroli, 25 febbraio 1866 – Napoli, 20 novembre 1952), grande protagonista e patrimonio della cultura italiana, da Antonio Gramsci, per il suo pensiero sul marxismo, sulle varie sfumature del liberalismo (termine oggi stra-abusato che se fosse ancora vivo, Croce arrossirebbe per la vergogna) sul rapporto con la cultura a lui contemporanea e con il Cristianesimo, fino alla polemica con il decadentismo.

Un classico del pensiero italiano dunque, un punto di riferimento per molti decenni, la cui opera potrebbe essere paragonata ad un romanzo cosmico che trova nel continuo svolgersi della vita, sempre del materiale interessante per formare nuovi episodi; “Croce si realizza liricamente in episodi tipici e plastici di vita morale”, si è espresso in questi termini che più di ogni altro giudizio sul critico abruzzese, appaiono calzanti, il critico Debenedetti sul collega Croce, occupandosi della sua opera filosofica, storica e letteraria e giungendo alla conclusione che Croce è arrivato letterariamente ad un risultato, dopo essere partito alla conquista della filosofia.

Nel formare il proprio pensiero, Croce ha reso ben visibili e regolari i moti lirici e figurativi, senza però mai mostrarci la rappresentazione del suo caos. Nato in una famiglia di ricchi proprietari terrieri, ancora legati ai Borboni, Croce frequenta le scuole secondarie in un collegio di religiosi. Nel 1883 villeggia a Casamicciola (Ischia), durante un terremoto perde entrambi i genitori e la sorella Maria. Viene allora accolto a Roma dallo zio, il senatore Silvio Spaventa dal quale i Croce si erano allontanati perché lo consideravano un apostata.

Grazie a suo zio, Benedetto incontra importanti uomini politici ed intellettuali, tra i quali Antonio Labriola ma non ha mai finito gli studi universitari, per sua scelta, non volendo conseguire titoli accademici, ma continuando comunque a studiare: il grande critico non era laureato.

Nel 1886, Croce lascia la società romana, e torna a Napoli, dove compra la casa nella quale aveva vissuto il filosofo Giambattista Vico; negli anni successivi viaggia in Spagna, Germania, Francia ed Inghilterra, ed accresce l’interesse per la storia, grazie alle letture di Francesco De Sanctis che insieme a Carducci rappresentano i suoi punti di riferimento. Nel 1895 Labriola fa conoscere a Croce le idee del marxismo, alle quali inizialmente il filosofo napoletano si interessa, studiando  libri di economia, riviste e giornali italiani e tedeschi d’ispirazione socialista, e si dirige così verso la politica e verso lo studio di Hegel, su consiglio dell’amico Giovanni Gentile, con il quale fonda, nel 1903, la rivista “La Critica”, il cui prestigio culturale ha reso impossibile al fascismo la soppressione. Nel 1910 Croce è nominato senatore per censo e diventa ministro della Pubblica Istruzione nel 1920-21, durante il governo Giolitti: elabora una riforma scolastica, che non ha voluto mai  attuare per la propria non adesione al fascismo, ma la riforma è stata comunque ripresa e realizzata dal Gentile nel 1923. Nel 1914 sposa Adela Rossi, con la quale ha quattro figlie.

Dopo aver rotto con Gentile, in risposta al suo “Manifesto degli intellettuali fascisti”, Croce fonda il “Manifesto degli intellettuali anti-fascisti”, definendo la scrittura del Manifesto del suo ex amico “un imparaticcio scolaresco, nel quale in ogni punto si notano confusioni dottrinali e mal filati raziocini; come dove si prende in iscambio l’atomismo di certe costruzioni della scienza politica del secolo decimottavo col liberalismo democratico del secolo decimonono”. Dopo la firma dei Patti Lateranensi, il critico mostra la sua contrarietà anche al Concordato tra Stato e Chiesa, e Mussolini dal canto suo, definisce Croce “un imboscato della storia”.

Avverso al comunismo, Croce si commuove quando legge le lettere di Gramsci, delle quali celebre il valore letterario; sulla questione meridionale non attribuisce all’unità nazionale appena raggiunta, l’arretratezza del sud, ma l’ ascrive al retaggio del Regno di Napoli. Secondo Croce infatti (pensiero discutibile), “la dissoluzione del Regno di Napoli, è stato “l’unico mezzo per conseguire una più larga e alacre vita nazionale, e per dare migliore avviamento agli stessi problemi che travagliavano l’Italia del mezzogiorno”.

La filosofia di Benedetto Croce tende a diventare “filosofia dei fatti particolari”, una “storia pensata”, restituendo poeticamente la realtà che prima aveva rinchiuso in se stessa affinché ne fosse liberato l’universale; Croce quindi ci offre, attraverso episodi, la visione lirica di un mondo spiegato. Per questo, tenendo presente che la sua filosofia risolva il mondo nelle attività formali dello spirito, si è tratti a ricercare qualche carattere comune in tutti quegli episodi che si soffermano su casi tipici, facendo emergere opinioni consuete. Ed ecco che si impone alla nostra attenzione “il sentimento della vita morale” per il quale l’opera si tramuta in dovere da riconoscere e il mondo diventa espressione di una legge alla quale non si può resistere. A tal proposito, negli scritti di Croce, si avverte una sorta di malinconia cosmica, scaturita dalle illusioni, dagli amori e dalle speranze che il grande filosofo e mentore politico cela con un motto scherzoso. Rinunciando ad una facile socievolezza, Croce non ricorre ad orazioni e a parole dure, ma si avvale di un parlare agevole, evocativo, caldo, organico, diventando spesso appassionato, senza fare troppa “accademia”, fino a rivelare uno slancio di simpatia personale.

Il filosofo napoletano considera l’opera d’arte senza parametri morali, né edonistici, né didattici, ma solo in termini di intuizione, che va al di là del bene e del male; non è un caso infatti che Croce amasse Ludovico Ariosto e non avesse grande considerazione per Pascoli, D’Annunzio, Pirandello, e per i poeti maledetti. Elaborando la teoria del concetto puro, che vive nel giudizio, Croce “rimprovera” ad Hegel di aver visto la realtà solo come prodotti di opposti che si sintetizzano, mentre egli precisa che esistono anche i distinti, e crea una sua nuova dialettica che prevede la sintesi di opposti  e il nesso di distinti.

Al filosofo si viene rivelando una visione della realtà che si ordina e circolarmente trapassa in forme diverse e ritornanti, in una maniera che può apparire totalmente pacifica, la quale sottolinea il momento della lotta e del contrasto tra gli elementi che danno struttura alla realtà, mostrando invece che il momento negativo in una forma distinta non è altro che la positività di un altro distinto che al primo si rimpiazza: In tal modo si compie una teoria della storiografia.

I distinti nella filosofia crociana sono quattro, e sono generati dalle due attività fondamentali dello Spirito (conoscitiva e pratica) a seconda che si dirigano verso il particolare o l’universale; detti distinti sono la fantasia, l’intelletto, l’attività economica e l’attività morale, e non si sintetizzano, mentre si sintetizzano, al loro interno, rispettivamente il bello ed il brutto (estetica), il vero ed il falso (logica), l’utile ed il dannoso (economia), il bene ed il male (morale).

La storia è sempre contemporanea, nel senso che essa è legata al presente, nella persona e nell’ambiente dello storico, mentre la storiografia non è cronaca di avvenimenti, ma ricostruzione e giudizio dei fatti, sintesi di intuizione e concetto ed è  sempre “etico-politica”, ovvero storia della vita morale e civile dell’uomo.

Tra le numerose ed illuminanti opere di Benedetto Croce, ricordiamo: l’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale (1902); la Logica come scienza del concetto puro (1909); la Filosofia della pratica, economica ed etica (1909); la Teoria e storia della storiografia (1917); il Breviario di estetica (1912); il volume La poesia (1936); La storia come pensiero e come azione, 1938; Il carattere della filosofia moderna, 1941; Filosofia e storiografia, 1949, Saggio su Hegel, 1912, e gli studi su Materialismo storico ed economia marxista (1900).

Ma come si può leggere oggi Croce? È un intellettuale ormai dimenticato? In realtà più che dal pensiero marxista, come alcuni pensano, il filosofo partenopeo è stato travolto dalla cultura europea e americana che per molto tempo è stata tenuta lontana dal nostro discorso filosofico e che poi ha pervaso con traduzioni, studi critici e tesi di laurea.

Certamente poi l’aspetto della dimenticanza vale per ogni pensatore, proprio perché appartiene al suo tempo, e il suo tempo è stato il Novecento, secolo durante il quale l’uomo ha sperimentato sull’uomo e operando una grande differenza tra liberismo e liberalismo. Tuttavia l’idea di Croce secondo cui la libertà è un qualcosa di non acquisito definitivamente, ma che deve essere di volta in volta riscoperto nel contesto storico, è un’idea quanto mai attuale. La nostra epoca non è l’unica e definitiva, e Croce ci insegna che bisogna lavorare nella discontinuità della storia, per costruire il futuro.

Benedetto Croce va riscoperto, va ristudiato;  è imprescindibile.

Il giovane favoloso, G. Leopardi in concorso a Venezia 2014

Mario Martone

Giudizi contrastanti intorno al nuovo film di Mario Martone, Il giovane favoloso, ovvero Giacomo Leopardi provengono dalla laguna veneziana; Il film infatti, in concorso per l’ambito Leone d’Oro, ha diviso la critica: alcuni la considerano un’opera- compendio che non scongiura totalmente il rischio di diventare un didascalico biopic per scolaresche, altri un lavoro che rimuove i luoghi comuni che da sempre accompagnano il grande poeta e filosofo marchigiano, interpretato da uno straordinario Elio Germano.

Cosa sappiamo effettivamente di Giacomo Leopardi, pessimismo a parte? Lo conosciamo davvero? In realtà l’autore de Lo Zibaldone, di A Silvia, de Il canto notturno di un pastore errante, di Alla luna, de L’infinito, de La ginestra e via discorrendo, è stato collocato dalla cultura postmoderna fuori del suo tempo, e il risultato è un approccio scolastico e banale alla figura di uno dei più grandi poeti dell’Ottocento.

Mario Martone racconta il “suo” Leopardi proprio dalla giovinezza a Recanati, seguendo il giovane nella ricerca costantemente osteggiata dal padre Monaldo e dalla madre, una bigotta e anaffettiva, la quale presterà il suo volto a quella Natura ostile e maligna cui il poeta si è rivolto per tutta la vita con profondo rancore e dolore per essere stato un figlio abbandonato e mai compreso.

Attraverso un salto temporale, ritroviamo Leopardi a Firenze, dove conosce l’amata Fanny e l’amico Antonio Ranieri, entrambi fondamentali all’interno del percorso emotivo del poeta. Leopardi si confronta con la società intellettuale della sua epoca dell’epoca, che invece di cogliere la capacità visionaria di Leopardi  fuori dagli schemi, ne intuiscono invece la pericolosità dal punto di vista politico, in quanto non allineato con il pensiero (ottimista) dominante che mitizza la storia e il progesso, respingendo qualsiasi utopia.

Leopardi era un uomo libero e scomodo, alcuni critici lo hanno considerato nemmeno un filosofo, come il vecchio filone della cultura laicista italiana, presieduta da De Sanctis a  da Croce, ritenendo la filosofia di Leopardi scarsamente significativa. In effetti tale filosofia  può sembrare che esprima null’altro altro che un superficiale pessimismo che nasce dalla presa di coscienza della propria infelicità che poi si estende a tutta la realtà, al quale fa da contralatare una poesia profonda. Eterogenesi dei fini: Leopardi che odia la vita, ce la fa amare attraverso la poesia. Come avrà reso questo controsenso il regista napoletano?

Bisogna attendere il decennio tra le due guerre per avere una rivalutazione del pensiero di Leopardi; Giovanni Gentile infatti legge il poeta con interessi filosofici, nell’intento di rivalutare le Operette morali, e arriva ad affermare che Leopardi è autentico e grande filosofo. Un filosofo che non si è preoccupato di indagare su problemi metafisici e gnoseologici; Leopardi non procede per astrazioni nelle sue riflessioni, ma comunica in maniera immediata come dimostra lo Zibaldone, e ci è più comprensibile.

L’atto conclusivo del film di Martone si svolge a Napoli, dove Leopardi dà vita a La ginestra, summa del pensiero esistenziale del poeta disperato.
Martone racconta quindi un Leopardi vulnerabile, dalla salute cagionevole e l’animo fragile, ma seppur rattrappito nel corpo, egli dimostra fino alla fine una grande lucidità intellettuale ed ironia; e proprio questa ironia si configura come un aspetto “nuovo” nel presentare la figura di Leopardi, nella cui parole e lingua, secondo Martone, si ritrovano le orgini dell’Italia di oggi.

Mario Martone vuole mostrare come Leopardi sia un personaggio attualissimo e moderno, attraverso un’opera filologica, facendoci avvicinare al lato umano e affettivo di un giovane il cui straordinario intelletto che confidava nella forza della ragione, era confinato in un corpo deforme e in un mondo troppo piccoli per contenerlo.

Il film sembra essere un omaggio non solo a questo importante protagonista della nostra cultura ma alla cultura e alla bellezza stesse, troppo spesso malatrattate ed ignorate. Ma Martone sarà stato anche in grado di coinvolgere lo spettatore riflettendo su una delle tematiche più affascinanti e sempre attuali del pensiero leopardiano che riguarda tutti noi, ovvero la teoria dell’amor proprio, secondo la quale l’uomo è un essere che ama necessariamente se stesso e mira alla propria conservazione e alla propria felicità. L’altruismo per Leopardi è un controsenso: quando si fa  del bene ad un altro è perché si prova piacere, quindi lo si fa sempre a se stessi.

L’altruismo quindi è davvero una sublimazione dell’amor proprio? Può coincidere con l’egoismo? Quest’ultimo è un atteggiamento di chi è debole o forte, è mosso dal raziocinio, dal calcolo o dall’istinto?

Il rischio principale de Il giovane favoloso è quello di perdersi in parole pedanti e noiose didascalie, piuttosto che in immagini suggestive che ci trasmettano il senso della convinzione leopardiana che l’immaginazione è la fonte primaria della felicità e la l’illusioni sono il vero, la realtà; assunto che è l’essenza del cinema stesso, del resto.

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