‘Storia di Cristo’, la conversione di Giovanni Papini: una difesa tradizionale contro l’anarchia morale contemporanea

Giovanni Papini ha impresso il proprio nome nella Storia. Con le sue teorie strampalate, i suoi cambi di bandiera repentini e improvvisi ha stupito la cultura del Novecento italiano comparendo nel registro dei più grandi polemisti di tutti i tempi. Battagliero e feroce, si ritrovò ritto sulle barricate del secolo a infiammare il mondo. Ignorato oggi in patria, il suo nome è noto all’estero: uomini come Jorge Luis Borges, Mircea Eliade, o Henry Miller lo hanno letto, amato e ricordato. Perché non dovremmo farlo anche noi? Almeno ricordarlo…Lettore onnivoro e scrittore frammentario dallo stile dissacrante, e dall’animo irrequieto e trasformista, noto per le sue numerose stroncature, l’arrogante Papini è considerato il capo del primo Sturm und Drang italiano. A lui e Prezzolini si devono l’importazione in Italia di intellettuali come il sindacalista rivoluzionario Sorel, e i filosofi Bergson e James. Benedetto Croce fu invece il suo nemico più temibile. Inveì contro i liberali, i socialisti e i preti. Si mosse là dove vi era fervore.

Un estremista nato. Si autodefinì “l’uomo che non accetta il mondo”. Il suo pensiero è ricollegabile alla corrente reazionaria, conservatrice e antidemocratica del primo Novecento Italiano. Con le sue riviste ha influenzato filosofi della portata di Julius Evola. Sempre fiero del suo viso dai tratti demoniaci, Papini è uno di quegl’uomini a metà tra il diavolo e l’acqua santa. Da feroce iconoclasta divenne un fervente cattolico, senza mai smettere di essere un mangiatore di preti. Amò Dante e Machiavelli, Michelangelo e, poi, Sant’Agostino. L’autore di Chiudiamo le scuole rifiutò più volte le cattedre offertegli come accademico di Italia, fino a quando finì per accettare, nel 1937, la direzione dell’Istituto di Studi sul Rinascimento. Non aderì né alla RSI né alla Resistenza. Fece l’apota, come il suo amico Prezzolini. Nel 1938 firmò, tra gli altri, il “Manifesto della Razza”. Quando rimane fedele a se stesso, trincerato sulle sue posizioni, sorprende. Quando aderisce a una qualsivoglia “chiesa”, delude. Eccezione fatta per la Storia di Cristo, grande opera letteraria dall’immediato successo, sia in Italia che all’estero.

Sulla testimonianza dei Vangeli canonici, e, talora, di quelli apocrifi, narra dalla nascita all’ascensione la vita del Redentore per invocarne la grazia e la giustizia verso l’umanità corrotta: perché tutte le generazioni rifiutano e crocifiggono il Cristo, ma nessuna come questa è caduta tanto in basso. La Storia di Cristo è il libro magno della conversione di Papini; il bestemmiatore ha portato la sua violenza al servizio della fede; l’«uomo finito» ha fallito nella sua pretesa alla divinità, si è dichiarato vinto e disfatto; rinasce come apostolo della fede e la difende con tutti i suoi mezzi oratori. Dal punto di vista storico la Storia di Cristo rappresenta l’ultimo tentativo di difesa tradizionale contro l’anarchia morale contemporanea. È una difesa non ragionata, ma impetuosa e travolgente, una multiforme adesione al verbo di Cristo senza nessuno scrupolo di conformismo cattolico come nota giustamente Raffaele de Grada nella prefazione Bompiani.

Storia di Cristo di Papini: struttura e contenuti

Per comodità più che per spirito di classificazione, si potrebbe iniziare il percorso dell’opera di Papini da alcune Vite di Gesù, forse tra le più note, scritte nell’ultimo secolo.
La vita di Gesù, presentata per brevi capitoli, inizia con una lunga presentazione, nella quale Papini spiega i motivi del suo scritto e i suoi intendimenti nel proporre un argomento così contro-corrente.
Ne riportiamo alcuni brani. “… Cristo, invece è sempre vivo in noi. C’è ancora che l’ama e chi l’odia. C’è una passione per la passione di Cristo e una per la sua distruzione… Nessun tempo fu, come questo, tanto diviso da Cristo e così bisognoso di Cristo. Ma per ritrovarlo non bastano i vecchi libri… Le vite di Gesù destinate ai devoti esalano quasi tutte un non so che di mucido e stantio che respinge, fin dalle prime pagine, il lettore avvezzo a più delicati e sostanziali pasti…”

Dopo tali premesse l’autore presenta cosa l’uomo di oggi desidera incontrare: “… un libro vivo, che renda più vivo Cristo, il sempre vivente, con amorosa vivezza, agli occhi dei vivi. Che lo faccia sentir presente, d’una eterna presenza, ai presenti. Che lo raffiguri in tutta la sua vivente e presente grandezza – perenne epperciò anche attuale – a quelli che l’hanno vilipeso e rifiutato, a coloro che non lo amano perché non hanno mai veduto la sua vera faccia…” A questo punto Papini può “giustificare” la sua opera di laico già miscredente per credenti e miscredenti, un’opera quindi accreditata dalla vicenda passata del suo stesso autore: “… un libro siffatto l’autore del presente non pretende d’averlo fatto lui, benché confessi di averci pensato spesso: ma per lo meno ha tentato, per quanto arrivavano le sue capacità, di accostarsi a quell’idea… pur tenendomi fedele alle parole delle Rivelazione e ai dogmi della Chiesa Cattolica s’è studiato, talvolta, di ripresentare quei dogmi e quelle parole in modi diversi dai soliti, con uno stile violento d’opposizioni e di scorci, ravvivato da termini crudi e risentiti, per vedere se l’anime d’oggi, avvezze ai pimenti dell’errore, potessero svegliarsi ai colpi della verità…” L’autore stesso, quindi, motiva l’uso di un linguaggio violento, quasi ad invettiva, proprio per risvegliare alla Verità la coscienza addormentata dei lettori moderni.

Non ci soffermiamo sui capitoli relativi all’infanzia e alla vita di Gesù, ne proponiamo invece alcuni tratti dal secondo tomo sulla passione, morte resurrezione del Cristo. Tutti gli autori, e Papini compreso, si interrogano in particolar modo su Guida Iscariota (Ishkarioth), sul mistero del suo tradimento, soprattutto sulle motivazioni di tale azione ignobile.
Ma chi è in realtà Giuda, che personalità si nasconde nelle parole lapidarie della Scrittura?
Papini presenta un ampio ventaglio di ipotesi, ma non ne abbraccia alcuna: “… Il mistero di Giuda è legato a doppio nodo al mistero della Redenzione e rimarrà per noi miseri un mistero”; ma poi aggiunge “… se Gesù non fosse stato venduto sarebbe mancato qualcosa alla perfetta ignominia dell’espiazione…”, quindi Giuda non solo è traditore, ma è colui che ha venduto, barattato a basso prezzo un uomo, l’Uomo; Giuda fu un venditore di sangue.

Dopo aver descritto in più capitoli l’ultima cena, l’autore si addentra nel vivo del racconto evangelico con l’agonia di Gesù nell’orto degli ulivi. Solo Papini presenta questo momento come una seconda tentazione del Cristo, dopo quelle che egli subì nel deserto prima della sua vita pubblica “… ora, in questo nuovo deserto, in questa tenebra dove Gesù è solo, spaventosamente solo… Satana torna ad insidiare il suo nemico… L’altra volta gli prometteva le grandezze dei regni….ora ricorre al contrario: spera nella sua debolezza…”.

Papini accenna solo a questo profondo tormento del Cristo, poi si ritrae, quasi impaurito da tanto suo ardire “… il racconto di questa notte è il mistero di Gesù. Il mistero di Giuda è il solo mistero umano dell’Evangelo, la Preghiera del Getsemani è il più imperscrutabile mistero divino della storia di Cristo.” Ora il Cristo in questa lotta con le Tenebre gronda sangue, “suda per tutta la persona… il sangue che ha promesso agli uomini comincia a versarlo sull’erba del Monte degli Ulivi.” La lotta che Gesù affronta è il diretto confronto tra arbitrio ed obbedienza, cioè tra arbitrio e vera libertà: “la volontà abdica nell’ubbidienza che sola assicura la libertà universale. Non è più un uomo ma l’Uomo; l’Uomo tutt’uno con Dio, una cosa sola con Dio: voglio quello che vuoi.”Inquietante la descrizione che viene fatta di Anna (Hanan) e di Caifa (Cajafa, soprannome che ha diverse assonanze con Cefa, fa notare Papini): uomini senza scrupoli, più attenti agli intrighi di potere che alla religione dei Padri, più interessati ai risvolti politici della predicazione di questo sedicente messia che alle sue parole.
Con Giuseppe Cajafa, Pietra, appare anche Simone Cefa, Pietra nel momento culminante del suo tradimento e del successivo, desolato pentimento al canto del gallo, raccontato dallo scrittore con toni lirici e struggenti: “… quel canto ilare e baldanzoso fu per Simone come il grido che sveglia di colpo l’assopito da un incubo; Come il ricordo improvviso di un discorso udito in un’altra vita, come il ritorno alla casa della puerizia, all’orto mattiniero, disteso fra il lago e le campagne, come una voce da tanto tempo dimenticata che illumina una vita come un lampo la notte. Allora si poté vedere, nell’incertezza dell’albore, un uomo che andava via come un ubriaco, col capo nascosto nel mantello, e le spalle scosse dai singhiozzi d’un pianto disperato”. Sono numerosi i capitoli che Papini dedica alle torture inflitte a Gesù, ben otto, quasi volesse raccontare in tempo reale, attimo per attimo, la sofferenza fisica e spirituale del Cristo. I toni sono realistici, forti, impietosi sia nel tratteggiare giudei, romani che lo stesso Gesù sotto il peso dei tormenti.

Il consiglio ebreo che giudica il Signore è un canile di spettri; i giudei sono vecchi, massicci, nasuti, arcigni, cipigliosi, chiusi nei manti bianchi, le teste coperte da un panno, le barbe carezzate e reverenziali, gli occhi pugnaci. Il Cristo in questo consesso, “sempre colla fune annodata ai polsi spinto in mezzo a codesto canile”, pareva il condannato ad bestias negli anfiteatri romani; Egli tace e i suoi silenzi sono gravi di una soprannaturale eloquenza che ha il potere di invelenire i suoi giudici. Tutto ciò fino alla domanda diretta di Caifa, alla quale Gesù non può non rispondere perché per quella suprema testimonianza è venuto.

I gaglioffi del Tempio prendono in consegna Colui che con le sue stesse parole si è condannato: “l’uomo bestia, quando è certa l’impunità, non conosce più bel sollazzo di questo: sfogarsi contro l’inerme, con maggior gusto quando l’inerme è innocente…”, poche parole che bastano a farci comprendere le bestialità cui fu oggetto l’Innocente per eccellenza.
Un altro personaggio di questo dramma è Ponzio Pilato, il procuratore romano: se da principio il giudizio che Papini da su di lui pare abbastanza attenuato, poi però non gli risparmia le sue incapacità, i suoi tentennamenti, o meglio, l’essersi mosso per ragion di Stato e non per amore di Verità: “Pilato, a forza di stratagemmi, di rinvii, d’indolenti interrogazioni, di mezzi termini e mezze misure, di titubanze, di risoluzioni maldestre e ringoiate, di mosse mal eseguite, si trovava ora precipitato lentamente dove non sarebbe voluto cadere…”. Unica nota luminosa e positiva Claudia Procula, la moglie del procuratore, che la Chiesa orientale venera come santa, poiché si è mossa a favore di Gesù.

Terribile il capitoletto Un re incoronato, per la crudezza di descrizione, per la violenza trattenuta a stento dalle parole nel suggerire le flagellazione. Il triste corteo con il condannato a morte procede alla volta del Calvario “… in cima alla callotta del Teschio le Tre Croci, alte, scure, colle traverse aperte, come giganti pronti all’abbraccio, campeggiano sul gran cielo amoroso di primavera. Non gettano ombre ma sono orlate dalle riverberazioni scintillanti del sole. È tanta la bellezza del mondo, in quel giorno, in quell’ora, che non sembra possibile pensare ai tormenti; non si potrebbe, quell’antenne di legno, fiorirle con fiori di campo e sospendere, dall’una all’altra, festoni di foglie nuove, mascherate i patiboli con muraglie di verdura e sedere all’ombra, fratelli riconciliati e benevoli, per tutta la siesta?...”. Stupiscono questi squarci lirici che frammezzano la narrazione dell’orrore, dell’odio degli uomini verso il Cristo, eppure Papini sceglie di procedere così: allenta la tensione di un narrare serrato con la calma e la tranquillità di questi paesaggi interiori.

Con quattro chiodi, impietosamente, Cristo è conficcato alla croce tra il clamore dei suoi avversari e il silenzioso compianto delle donne, della madre e di Giovanni. Accanto a lui soffre Dismas: “… in un impeto di fede, come se invocasse la comunanza di quel sangue che grondava nello stesso momento dalle sue mani di criminale e da quelle mani d’incolpevole, proruppe in queste parole: Gesù, ricordati di me quando verrai nel tuo Regno!”
“Il respiro di Gesù si faceva sempre più rantolante… Il cielo, ch’era stato limpido tutta la mattina, quasi improvvisamente si oscurò… Cristo è morto. È morto sulla croce come gli uomini hanno voluto, come il Figlio ha scelto e il Padre accettò. L’agonia è finita e i Giudei son contentati. Ha espiato fin all’ultimo ed è morto. Ora comincia la nostra espiazione – e non è ancora finita.“.

I capitoli conclusivi rivivono, con commozione intensa in cui balena la medesima esperienza trasfigurante dell’autore neo-convertito, gli episodi che dalla resurrezione si dipanano fino all’ascensione di Cristo al Padre. Veramente degna di nota è la preghiera finale, nella quale si condensa tutta la fede ardente di Papini: “Abbiamo bisogno di te, di te solo, e di nessun altro. Tu solamente, che ci ami, puoi sentire per tutti noi che soffriamo, la pietà che ciascuno di noi sente per se stesso… Ma noi, gli ultimi, ti aspettiamo. Ti aspetteremo ogni giorno, a dispetto della nostra indegnità e d’ogni impossibile. E tutto l’amore che potremo torchiare dai nostri cuori devastati sarà per te, Crocifisso, che fosti tormentato per amor nostro e ora ci tormenti con tutta la potenza del tuo implacabile amore.”

 

 

Fonte: http://universalautori.blogspot.it/2012/08/letteratura-papini-g-storia-di-cristo.html

L’intellettuale dissidente

Giovanni Papini: l’intellettuale “teppista”

Giovanni Papini nasce a Firenze nel 1881 in un’Italia che viene definita “l’Italia delle due guerre”, e muore nella sua città d’origine nel 1956. In questo preciso momento storico l’intellettuale sente il bisogno di trasformare radicalmente la cultura e la letteratura. La città fulcro di questa necessità è Firenze dove la giovane generazione degli intellettuali vuole diffondere le proprie idee e i propri programmi attraverso la fondazione di riviste. La più importante tra le prime riviste fiorentine è il «Leonardo» nata nel gennaio del 1903 sotto la direzione di Giovanni Papini e di Giuseppe Prezzolini, e uscita fino all’agosto del 1907.

Il <<Leonardo>> ha un taglio nettamente filosofico, e propone un programma di svecchiamento culturale. I due direttori sono influenzati dall’estetismo dannunziano e dall’irrazionalismo decadente di un’altra rivista «Il Marzocco». Quando nel 1907 il «Leonardo» cessa le pubblicazioni a causa delle diverse vedute dei direttori, Papini si indirizza verso le teorie spiritualistiche ed esoteriche mentre Prezzolini cerca un collegamento tra la ricerca filosofia e l’impegno intellettuale fondando nel 1908 un’altra rivista «La Voce», che dirige fino al 1914 con l’aiuto occasionale di Papini. Nel 1911 Papini si stacca definitivamente dalla rivista collaborando con Giovanni Amendola alla fondazione de  «L’anima», che si basa su un’autonoma ricerca di tipo spiritualistico e religioso. Tuttavia questa collaborazione non dura a lungo e  Papini fonda nel 1913, con Ardengo Soffici, la rivista «Lacerba», che diviene l’organo del futurismo guidato da Aldo Palazzeschi.

Giovanni Papini e la figura dell’intellettuale

Il processo di industrializzazione determinò una crisi dei ruoli umanistici tradizionali. L’atteggiamento degli intellettuali risultò differente e determinò lo sviluppo di diversi movimenti letterari: i crepuscolari che tendevano a negare i ruoli tradizionali rifiutando la figura del poeta-vate, i futuristi che dichiaravano esaurito il ruolo umanistico degli intellettuali, il valore dell’uomo di cultura stava  nell’anticipazione del futuro. I vociani, che promuovevano una figura dell’intellettuale omologa all’industria e integrata nello sviluppo della modernizzazione. Un’altra è stata la via inaugurata da Giovanni Papini che, nonostante la formazione umanistica, viene influenzato da d’Annunzio e dalle avanguardie. Questo ha determinato una mescolanza di argomenti ed ideali. Sulla linea dannunziana e umanista Giovanni Papini propone un ruolo dell’ intellettuale-ideologo e di poeta-vate che sia protagonista, ma nel contempo, a causa dell’impotenza ad assolvere tale ruolo, sfoga la propria frustrazione in atteggiamenti iconoclasti e provocatori. Egli ha sviluppato dunque un tipo di intellettuale chiamato “teppista”, un intellettuale piccolo borghese che si compiaceva di scandalizzare ma che mirava al riconoscimento sociale e al potere. La sua figura dell’intellettuale viene sintetizzata nel Discorso di Roma del 1913 pronunciato in un teatro durante una manifestazione futurista:

“Qualcuno, che s’immagina di conoscermi, si meraviglierà, forse, di vedermi qui, in mezzo ai futuristi, pronto e disposto a urlare coi lupi e a ridere coi pazzi (benissimo). Ma io, che mi conosco assai meglio di chiunque altra persona, non sono affatto sorpreso di trovarmi in così cattiva compagnia (bravo!). Da quando, dieci anni fa, sono scappato da quelle case di perdizione che son le scuole (primi urli) per buttar fuori quel che avevo accumulato in un lungo incubamento di solitudine ho avuto sempre il vizio di star dalla parte dei matti contro i savi; con quelli che mettono il campo a rumore contro quelli che voglion stabilire il pericoloso ordine e la mortale calma; con quelli che hanno fatto ai cazzotti contro quelli che stanno alla finestra a vedere ( gridi svariati). Mi hanno chiamato ciarlatano, mi hanno chiamato teppista, mi hanno chiamato becero ( bene!). Ed io ho ricevuto con inconfessabile gioia queste ingiurie che diventano lodi magnifiche nelle bocche di chi le pronunzia. Io sono un teppista, è arcivero (verissimo!). M’è sempre piaciuto rompere le finestre e i coglioni altrui (vocìo enorme) e vi sono in Italia dei crani illustri, che mostrano ancora le bozze livide delle mie sassate (proteste, alcune signore si alzano). Non c’è, nel nostro caro paese di parvenus, abbastanza teppismo intellettuale. Siamo nelle mani dei borghesi, dei burocratici, degli accademici, dei posapiano, dei piacciconi (gridìo confuso). Non basta aprire le finestre – bisogna sfondar le porte. Le riviste non bastano ci voglion le pedate (approvazioni ironiche). Per questo mio stato d’animo, per questa mia nativa ed invincibile inclinazione al becerismo spirituale, io, per quanto non futurista (risate, insulti), non ho potuto fare a meno di accettare l’invito di Marinetti e di venir qui a far la parte di buffone schiamazzatore dinanzi a tante serie persone (è vero!). Ho già scritto e stampato tutto il male e tutto il bene che penso del futurismo e non voglio ripetermi. Ma resta il fatto importante e fondamentale che in questo momento, in Italia, non v’è altro moto d’avanguardia vivo e coraggioso al di fuori di questo; non v’è altra compagnia possibile e sopportabile per un’anima di distruttore, per un’anima seccata dell’eterno ieri e innamorata del divino domani – resta il fatto gravissimo, signori miei, che tra questi canzonati futuristi vi sono uomini di vero ingegno che valgono assai più dei graziosi scimpanzé che ridon loro sul viso (urli bestiali). Queste ragioni mi son bastate e mi bastano per sfidare l’obbrobrio che può cadere sul mio capo scarmigliato per questo mio gesto di simpatia, e, se volete, di solidarietà (tumulto in platea)”.

Da: Giovanni Papini, “Lacerba”, anno I, n. 5, 1°marzo 1913.

Il pragmatismo magico di Papini

Giovanni Papini ha aderito al pragmatismo con l’obiettivo di trovare una soluzione organica ai vari ragionamenti filosofici e per configurare una filosofia in grado di sostenere le proprie scelte esistenziali. In altri termini, a una vita intesa come missione doveva corrispondere una filosofia del fare. Una filosofia della prassi dunque, che conduce all’analisi della volontà come funzione determinante dell’azione e della credenza, credenza che è regola d’azione quando ci si trova nelle situazioni di dubbio, ponendo nel risultato dell’azione la sua verificazione. Tale questione è affrontata da Papini nel saggio La volontà di credere.

Dalla combinazione di diversi elementi quali il sogno della divinità e della magia, l’ambizione di possedere la realtà e di trasformarla, il pragmatismo diventa magico, perché con la pratica, seconodo Giovanni Papini, si sfugge a tutti gli inganni e a tutti i tradimenti del razionalismo e dell’espressione e con lo spirito si creano nuovi mondi. Urge secondo lui trasformare la realtà, sradicando il rapporto soggetto-oggetto che caratterizzato tutta la filosofia, per fare sì che si possa modificare il mondo solo attraverso il “miracolo”, reso possibile solo  dall’«Uomo-Dio» che è cristiano, magico e mistico.

Secondo Giovanni Papini, infatti, l’esigenza della divinità è innata nell’uomo, in quanto egli è insoddisfatto e desidera sempre di più. L’uomo può uscire da questa condizione di angoscia solo attraverso due vie: la rinuncia o il possesso. Ma il metodo della rinuncia è storicamente fallito, e il desiderio di onnipotenza può aprire nuovi orizzonti. Ottenuta l’onnipotenza, l’«Uomo-Dio» non avrà più desideri e di conseguenza sofferenze, ma inizierà a disprezzare le cose per la loro abbondanza e per la loro facilità con cui si ottengono. Morto il desiderio, morta anche l’azione.

Tra le opere più importanti di Papini si ricordano: Il crepuscolo dei filosofi, Un uomo finito, Polemiche religiose, Storia di Cristo, Gog, Santi e poeti, il diavolo, Sant’Agostino oltre alle numerose opere di politica, filosofia, poesia.

 

Giuseppe Prezzolini, voce scettica del ‘900

«L’Italia va avanti perché ci sono i fessi. I fessi lavorano, pagano, crepano. Chi fa la figura di mandare avanti l’Italia sono i furbi, che non fanno nulla, spendono e se la godono». (Da Codice della vita italiana, capitolo I, “Dei furbi e dei fessi”). Risulta quanto mai attuale questa frase dello scrittore e giornalista Giuseppe Prezzolini (Perugia, 27 gennaio 1882 – Lugano, 14 luglio 1982), amico di Giovanni Papini con il quale fonda nel 1903 a Firenze la rivista culturale <<Leonardo>>, e che pubblica fino al 1908. Prezzolini collabora con <<Il Regno>>, nel 1904 scrive la Prefazione-Manifesto della nuova rivista <<Hermes>> di Enrico Corradini. In questo periodo pubblica i suoi le sue prime opere e conosce Benedetto Croce, il quale influenza il pensiero di Giuseppe Prezzolini. Nel 1905 si sposa con Dolores Faconti e si trasferisce a Perugia. Successivamente trascorre dei periodi a Parigi, dove entra in contatto con alcuni grandi personalità della cultura francese del tempo, fra i quali Georges Sorel ed Henri Bergson. Tornato in Italia, nel 1908 fonda <<La Voce>>, rivista che spazierà su temi legati alla letteratura, politica e società.

Autodidatta, conservatore disincantato, Giuseppe Prezzolini è stato uno degli uomini di cultura più importanti del Novecento; colpisce per la semplicità e schiettezza come dimostra appunto il Codice della vita italiana, libro scritto nel 1921, all’indomani della Prima Guerra Mondiale, in un’Italia vincitrice ma  insoddisfatta, sconfortata e autocompiaciuta. Come in fondo è anche oggi, un’Italia dove, come aveva affermato lo scrittore perugino, non esiste la giustizia distributiva, i cui cittadini si dividono in fessi e in furbi.
Altri tre libri significativi di Prezzolini che parlano di Italia, politica e società, sono usciti contemporaneamente: L’italiano inutile, Machiavelli anticristo e America con  gli stivali. Il primo e il terzo sono una raccolta di articoli, il secondo deriva da un corso tenuto alla Columbia University. A tal proposito, Prezzolini stesso si esprime in questi termini nell’avvertenza al lettore italiano:

“Dovevo incominciare con l’alfabeto della politica e della filosofia, soprattutto in materia di machiavellismo, che è estraneo allo spirito e alla tradizione della scuola americana, ed in una scuola che è ottima per i bambini, ma che tende a mantener gli adulti in un clima mentale di infantilità”.

Di certo Giuseppe Prezzolini non ha insinuato un giudizio positivo riguardante il livello medio della cultura dei ceti dirigenti americani, ma lo scrittore ha fatto bene a lasciare una certa elementarità alle cose da trattare: giova al libro questo modo non comune di esporre e di giudicare, in maniera netta. Machiavelli è giudicato dallo scrittore con cinismo e amarezza, dal quale trae profitto, nonostante gli americani di oggi. America in pantofole è l’altro libro che Prezzolini ha dedicato all’America di Roosevelt e Truman, un’America “alle prese con la Russia, con il mondo, con se stessa”. La sua tesi è che “gli Stati Uniti sono in lotta contro la Russia e non già contro il comunismo”. Il machiavellismo americano quindi consisterebbe nel mostrare che combatte perchè “la lotta politica si fa molto spesso per mezzo di nebbie che confondono le menti, e quindi si possono condurre per mano dove non vorrebbero andare se ci vedessero chiaro”. Prezzolini è abituato a vedere le cose nella loro essenzialità e crudezza pur essendo complicate, non c’è dubbio che si tratti di un machiavellismo elementare.

Egli presenta le situazioni come favole, ma fornisce anche molti elementi informativi soprattutto sugli italiani emigrati in America e i loro rapporti con la società, senza lasciarsi andare a filosofeggiamenti e moralismi.

In riferimento all’Italiano inutile, il capitolo più “prezzoliniano”, si nota il suo autobiografismo: ricordi legati alla fondazione de <<La Voce>>, l’idealismo crociano di un tempo, che poi ha ceduto il posto ad uno scetticismo pessimista, la polemica con Salvemini.

Prezzolini ha pubblicato anche un libretto sui maccheroni, Maccheroni e C, rifacimento dell’opuscolo Spaghetti-Dinner, scritto in inglese, per far propaganda in America ai nostri maccheroni ma col ricavarne  una sorta di storia della nascita, vita e miracoli degli spaghetti e un profilo del costume italiano attraverso i tempi.

Il proverbiale scetticismo del brioso Prezzolini in realtà ha motivazioni serie, come documenta la sua attività di polemista oltre che di scrittore, nelle pagine che riguardano il fascismo, da cui lo scrittore imparò che non vale la pena cambiare, e dalla seconda guerra mondiale dedusse “disperazione e scetticismo totale”. Non va inoltre dimenticato che in quei drammatici anni, lo scrittore perugino è stato una guida, senza darsi troppe arie, di molti giovani che, scoppiata la guerra, andarono al fronte con la certezza di assolvere ad un dovere morale, facendo diverse constatazioni sul popolo italiano, spesso deludenti ma non del tutto negative.

Bibliografia: G. Titta Rosa, Vita letteraria del Novecento, V. III.

Camillo Sbarbaro, una vita ad occhi chiusi

Camillo Sbarbaro (Santa Margherita Ligure, 12 gennaio 1888 – Savona, 31 ottobre 1967), nato in provincia di Genova, si trasferisce nel 1904 con la famiglia a Savona dove consegue il diploma di licenza. Nel 1910 trova lavoro in un’industria siderurgica. Il suo esordio poetico avviene un anno dopo con il volumetto di poesie dal titolo “Resine”, che sarà rifiutato dall’autore stesso.

Nel 1914 pubblica “Pianissimo” la sua raccolta più significativa. Nello stesso anno si trasferisce a Firenze dove conosce Papini, Campana e altri artisti che facevano parte della rivista “La voce”: proprio grazie a loro collaborerà con la rivista. Quando scoppia la grande guerra, Sbarbaro lascia l’impiego e si arruola come volontario nella Croce Rossa Italiana e nel febbraio del 1917 viene richiamato alle armi. A luglio parte per il fronte. Scrive in questo periodo le prose di “Trucioli” che verranno pubblicate nel 1920 a Firenze da Vallecchi. Lasciato il lavoro nell’industria siderurgica, si guadagna da vivere con le ripetizioni di greco e di latino, appassionandosi sempre di più alla botanica e dedicandosi alla raccolta e allo studio dei licheni, sua vera passione.

Camillo Sbarbaro ha condotto una vita appartata, sostentata dopo l’abbandono dell’industria con ripetizioni di latino e greco. Muore nel 1967. La sua poesia rientra nell’espressionismo più per i temi che per lo stile: le scelte formali sono lontane dalla tensione violenta degli espressionisti contemporanei. Il lessico è banale e quotidiano, e lo stile prosastico con l’influenza della metrica tradizionale. Anche se la materia è autobiografica Sbarbaro riesce a scrivere poesie che trattano con distacco la sua stessa vita, dovuta evidentemente da una scarsa vitalità. Il protagonista degli episodi narrati si presenta come un fantoccio o un sonnambulo che vive la vita alienante in condizione di oggetto e non di soggetto. Al poeta non resta altro che guardarsi dall’esterno diventando spettatore di sé: è questo il tema dello sdoppiamento che caratterizza tanto la poetica di Camillo Sbarbaro.

La freddezza della poesia di Sbarbaro è sicuramente un’auto repressione dovuta al contrasto del desiderio di una vita autentica e la sua impossibile realizzazione. Così come il protagonista è arido così il paesaggio in cui vive, la città è un deserto in cui è impossibile interagire con le persone e gli oggetti della civiltà moderna.

Negli anni 20 del ‘900 conosce Eugenio Montale che gli dedicherà un saggio nella raccolta “Auto da fè”: fu tale l’elogio che indusse Montale alla confessione di aver scelto il titolo della sua raccolta “Ossi di seppia”, proprio in onore di Sbarbaro e della sua poetica dello scarto. La poesia ormai è un residuo, è stata messa ai margini e ormai non può rispondere all’agonia del mondo. È questo il motivo che indusse i poeti al forte soggettivismo autobiografico. Camillo Sbarbaro diventa così un paradigma per Montale, poiché con la sua poetica rivive e fa rivivere la condizione di crisi del poeta nel 900.

I temi centrali della poetica sbarbariana sono quindi il doppio, lo scarto e la chiaroveggenza, intesa come la consapevolezza di un poeta sincero e onesto che ha imparato a conoscere sé, nel tentativo di risvegliare il distratto viandante che non si volta. È evidentemente una denuncia sociale nella quale egli non nega uno spiraglio di salvezza per l’uomo, ma neppure l’afferma.

Le due raccolte più importanti di Sbarbaro sono “Trucioli” e “Pianissimo”:

Pianissimo” è un canto cupo di sconforto per la condizione del poeta e dell’uomo in generale. è una poesia della disperazione e della sofferenza tutta personale. I motivi ricorrenti in questa raccolta sono dunque: lo sconforto universale e la condizione di sofferenza individuale. La critica che muoverà Montale alla raccolta, volta a riconoscerne il limite, è l’impossibilità e l’inadeguatezza di Sbarbaro di coniugare questi due aspetti: egli non riesce a farsi carico di una voce universale, tema tanto caro a Montale.

“Trucioli” sono pagine di diario, fogli volanti, in cui il tema centrale è lo scarto, visibile dal nome stesso della raccolta. Sbarbaro cammina “con un terrore da ubriaco” tra la gente che non comprende, in un luogo che non sente familiare. Egli galleggia come il sughero sull’acqua. Il poeta riesce a descrivere la condizione di sofferenza personale, soffermandosi anche sulla Natura che però è vista come mondo crudele. Per questo motivo è possibile rinvenire Leopardi e i poeti francesi del 900 per il tema della solitudine.

Dalla raccolta “Pianissimo” proponiamo “Taci, anima stanca di godere”:

Taci, anima stanca di godere

e di soffrire (all’uno e all’altro vai

rassegnata).

Nessuna voce tua odo se ascolto:

non di rimpianto per la miserabile

giovinezza, non d’ira o di speranza,

e neppure di tedio.

Giaci come

il corpo, ammutolita, tutta piena

d’una rassegnazione disperata.

 

Non ci stupiremmo,

non è vero, mia anima, se il cuore

si fermasse, sospeso se ci fosse

il fiato…

Invece camminiamo,

camminiamo io e te come sonnambuli.

E gli alberi son alberi, le case

sono case, le donne

che passano son donne, e tutto è quello

che è, soltanto quel che è.

 

La vicenda di gioia e di dolore

non ci tocca. Perduto ha la voce

la sirena del mondo, e il mondo è un grande

deserto.

Nel deserto

io guardo con asciutti occhi me stesso.

 

È evidente in questa poesia la principale aspirazione anti-dannunziana che ha come obiettivo la sliricizzazione del verso. Già i crepuscolari e Gozzano aprono la via per questa strada, ma Camillo Sbarbaro è il poeta che forse ha raggiunto i risultati più mirabili. Come afferma Mengaldo, Sbarbaro è “il primo vero esempio in Italia di poesia che torcesse radicalmente il collo all’ eloquenza tradizionale”. La lingua è assai vicina a quella del parlato quotidiano, con assenza di fenomeni polisemici e un uso parco di metafore. Queste scelte stilistiche sono il simbolo di un pacato colloquio con se stesso, che rappresentano la pietrificazione e inaridimento interiore, che fanno di Sbarbaro l’esempio calzante della crisi della coscienza moderna.

 

Mario Praz, l’anglista raffinato

(Roma, 6 settembre 1896 – Roma, 23 marzo 1982)

 

La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica

Figura di spicco tra gli studiosi delle letteratura inglese, Mario Praz  è stato anche traduttore, giornalista e critico d’arte.Elegante e raffinato Mario Praz non è considerato una figura di rilievo nella compagine culturale italiana, mentre, come spesso accade, in Inghilterra e negli Stati Uniti è stato ampliamente apprezzato.

Complice la figura estetica, alquanto particolare e a tratti inquietante, e la trattazione da parte del critico degli aspetti demoniaci della letteratura, Mario Praz si è portato dietro per tutta la vita la triste fama di “jettatore”, molti addirittura lo indicavano con gli appellativi di “Maligno” e “L’ innominabile”. In verità l’anglista non faceva nulla per smentire questa fama, anzi sosteneva che era molto producente per i suoi studi.

Nato in una  famiglia di origine svizzera,  il padre di Mario era un impiegato di banca mentre la madre era una contessa  discendente dalla famiglia dei Conti di Marsciano. Trascorre i primi anni in Svizzera, nel 1900 si trasferisce a Firenze dove frequenta il ginnasio-liceo “Galileo Galilei” e  successivamente facoltà di Giurisprudenza presso l’Università di Bologna, per poi trasferirsi, nel 1915 a Roma dove si laurea nel 1918 .Ma la vera passione di Praz è la letteratura ed infatti si laurea anche  in Lettere presso l’Istituto di Studi Superiori dell’Università di Firenze con una tesi su “La lingua di Gabriele D’Annunzio”. Lo stesso anno, grazie al British Institute, entra in contatto con l’ambiente artistico degli aristocratici inglesi di Firenze, e comincia ad interessarsi al saggio critico.Traduce poesie inglesi ottocentesche per Giovanni Papini e collabora con la rivista <<Cultura>>. Nel 1923 si trasferisce a Londra ed entra in contatto grazie all’amica scrittrice Vernon Lee con l’ambiente culturale dell’epoca, diviene lettore di italiano presso l’Università di Liverpool, in questo periodo escono anche le opere ” I poeti inglesi dell’Ottocento”,  “Studi sul concettismo”, “Storia della letteratura inglese”,”Secentismo e Marinismo in Inghilterra” e soprattutto “La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica”, saggio  di critica tematica che sarà molto apprezzato in Gran Bretagna e negli Stati Uniti ma, tanto per cambiare, non in Italia dove impera la cultura crociana.

la casa – museo romana di Praz

Ed infatti la critica negativa di Croce non si fa attendere; l’amore, la morte, il concetto di bellezza, la ricorrenza dei personaggi satanici, il gusto per l’esotismo, la figura della donna fatale, il sadismo non sono certamente aspetti di particolare rilevanza secondo il critico abruzzese. Sono tematiche troppo appariscenti e gotiche quelle analizzate da Praz che tralascia la globalità; troppo superficiale quindi per Croce il suo  studio critico.

Ma l’analisi degli aspetti più perversi, bizzarri ed esagerati di un romanzo è da considerarsi davvero un approccio privo di metodo e non degna di rientrare nei validissimi studi letterari? In realtà Mario Praz ha dato un prezioso contributo per lo studio critico del decadentismo che nasce proprio dal romanticismo più esacerbato anche attraverso arguti parallelismi con l’arte ( come dimostra il saggio “Milton e Poussin”e “La filosofia dell’arredamento. I mutamenti del gusto dell’arte decorativa interna attraverso i secoli”).

Più in linea con il suo tempo risulta “La casa della vita”, storia della casa-museo dell’anglista, una vera e propria attrazione nella Roma moderna, nella quale si intrecciano artificio e verità, incanto e segreto.

Mario Praz

Curioso e sardonico, il comparatista e collezionista di antiquariato Mario Praz  ha creato la prima scuola di anglistica in Italia ed insegnato lingua e letteratura inglese presso La Sapienza di Roma; per chi volesse approfondire la conoscenza di questa figura letteraria anomala, consigliamo la lettura del volume che fa parte dei “Meridiani classici”, “Praz, bellezza e bizzarria”del 2002. Un critico del Novecento che ha rivolto la sua attenzione all’Ottocento romantico e alla letteratura degli emblemi, restituendo dignità al periodo neoclassico, condannato da molti critici, con il saggio “Gusto neoclassico” nel quale il critico romano evidenzia i pregi e le sfumature di quel periodo.

Mario Praz, uno studioso fuori dal coro che induce a chiederci: perché un critico del Novecento non si è occupato della crisi del personaggio-uomo, delle sue angoscie e turbe esistenziali prediligendo la letteratura dei secoli precedenti, in particolare quello romantico? La risposta è semplice: pura passione  anglosassone e desiderio intellettuale di presentare ed esaminare aspetti e tematiche particolari mai trattate o trattate superficialmente prima. Tuttavia il tema del “diavolo” è molto presente e caratterizza profondamente anche il Novecento come ha sostenuto  Thomas Mann.

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