Giovanni Papini ha impresso il proprio nome nella Storia. Con le sue teorie strampalate, i suoi cambi di bandiera repentini e improvvisi ha stupito la cultura del Novecento italiano comparendo nel registro dei più grandi polemisti di tutti i tempi. Battagliero e feroce, si ritrovò ritto sulle barricate del secolo a infiammare il mondo. Ignorato oggi in patria, il suo nome è noto all’estero: uomini come Jorge Luis Borges, Mircea Eliade, o Henry Miller lo hanno letto, amato e ricordato. Perché non dovremmo farlo anche noi? Almeno ricordarlo…Lettore onnivoro e scrittore frammentario dallo stile dissacrante, e dall’animo irrequieto e trasformista, noto per le sue numerose stroncature, l’arrogante Papini è considerato il capo del primo Sturm und Drang italiano. A lui e Prezzolini si devono l’importazione in Italia di intellettuali come il sindacalista rivoluzionario Sorel, e i filosofi Bergson e James. Benedetto Croce fu invece il suo nemico più temibile. Inveì contro i liberali, i socialisti e i preti. Si mosse là dove vi era fervore.
Un estremista nato. Si autodefinì “l’uomo che non accetta il mondo”. Il suo pensiero è ricollegabile alla corrente reazionaria, conservatrice e antidemocratica del primo Novecento Italiano. Con le sue riviste ha influenzato filosofi della portata di Julius Evola. Sempre fiero del suo viso dai tratti demoniaci, Papini è uno di quegl’uomini a metà tra il diavolo e l’acqua santa. Da feroce iconoclasta divenne un fervente cattolico, senza mai smettere di essere un mangiatore di preti. Amò Dante e Machiavelli, Michelangelo e, poi, Sant’Agostino. L’autore di Chiudiamo le scuole rifiutò più volte le cattedre offertegli come accademico di Italia, fino a quando finì per accettare, nel 1937, la direzione dell’Istituto di Studi sul Rinascimento. Non aderì né alla RSI né alla Resistenza. Fece l’apota, come il suo amico Prezzolini. Nel 1938 firmò, tra gli altri, il “Manifesto della Razza”. Quando rimane fedele a se stesso, trincerato sulle sue posizioni, sorprende. Quando aderisce a una qualsivoglia “chiesa”, delude. Eccezione fatta per la Storia di Cristo, grande opera letteraria dall’immediato successo, sia in Italia che all’estero.
Sulla testimonianza dei Vangeli canonici, e, talora, di quelli apocrifi, narra dalla nascita all’ascensione la vita del Redentore per invocarne la grazia e la giustizia verso l’umanità corrotta: perché tutte le generazioni rifiutano e crocifiggono il Cristo, ma nessuna come questa è caduta tanto in basso. La Storia di Cristo è il libro magno della conversione di Papini; il bestemmiatore ha portato la sua violenza al servizio della fede; l’«uomo finito» ha fallito nella sua pretesa alla divinità, si è dichiarato vinto e disfatto; rinasce come apostolo della fede e la difende con tutti i suoi mezzi oratori. Dal punto di vista storico la Storia di Cristo rappresenta l’ultimo tentativo di difesa tradizionale contro l’anarchia morale contemporanea. È una difesa non ragionata, ma impetuosa e travolgente, una multiforme adesione al verbo di Cristo senza nessuno scrupolo di conformismo cattolico come nota giustamente Raffaele de Grada nella prefazione Bompiani.
Storia di Cristo di Papini: struttura e contenuti
Per comodità più che per spirito di classificazione, si potrebbe iniziare il percorso dell’opera di Papini da alcune Vite di Gesù, forse tra le più note, scritte nell’ultimo secolo.
La vita di Gesù, presentata per brevi capitoli, inizia con una lunga presentazione, nella quale Papini spiega i motivi del suo scritto e i suoi intendimenti nel proporre un argomento così contro-corrente.
Ne riportiamo alcuni brani. “… Cristo, invece è sempre vivo in noi. C’è ancora che l’ama e chi l’odia. C’è una passione per la passione di Cristo e una per la sua distruzione… Nessun tempo fu, come questo, tanto diviso da Cristo e così bisognoso di Cristo. Ma per ritrovarlo non bastano i vecchi libri… Le vite di Gesù destinate ai devoti esalano quasi tutte un non so che di mucido e stantio che respinge, fin dalle prime pagine, il lettore avvezzo a più delicati e sostanziali pasti…”
Dopo tali premesse l’autore presenta cosa l’uomo di oggi desidera incontrare: “… un libro vivo, che renda più vivo Cristo, il sempre vivente, con amorosa vivezza, agli occhi dei vivi. Che lo faccia sentir presente, d’una eterna presenza, ai presenti. Che lo raffiguri in tutta la sua vivente e presente grandezza – perenne epperciò anche attuale – a quelli che l’hanno vilipeso e rifiutato, a coloro che non lo amano perché non hanno mai veduto la sua vera faccia…” A questo punto Papini può “giustificare” la sua opera di laico già miscredente per credenti e miscredenti, un’opera quindi accreditata dalla vicenda passata del suo stesso autore: “… un libro siffatto l’autore del presente non pretende d’averlo fatto lui, benché confessi di averci pensato spesso: ma per lo meno ha tentato, per quanto arrivavano le sue capacità, di accostarsi a quell’idea… pur tenendomi fedele alle parole delle Rivelazione e ai dogmi della Chiesa Cattolica s’è studiato, talvolta, di ripresentare quei dogmi e quelle parole in modi diversi dai soliti, con uno stile violento d’opposizioni e di scorci, ravvivato da termini crudi e risentiti, per vedere se l’anime d’oggi, avvezze ai pimenti dell’errore, potessero svegliarsi ai colpi della verità…” L’autore stesso, quindi, motiva l’uso di un linguaggio violento, quasi ad invettiva, proprio per risvegliare alla Verità la coscienza addormentata dei lettori moderni.
Non ci soffermiamo sui capitoli relativi all’infanzia e alla vita di Gesù, ne proponiamo invece alcuni tratti dal secondo tomo sulla passione, morte resurrezione del Cristo. Tutti gli autori, e Papini compreso, si interrogano in particolar modo su Guida Iscariota (Ishkarioth), sul mistero del suo tradimento, soprattutto sulle motivazioni di tale azione ignobile.
Ma chi è in realtà Giuda, che personalità si nasconde nelle parole lapidarie della Scrittura?
Papini presenta un ampio ventaglio di ipotesi, ma non ne abbraccia alcuna: “… Il mistero di Giuda è legato a doppio nodo al mistero della Redenzione e rimarrà per noi miseri un mistero”; ma poi aggiunge “… se Gesù non fosse stato venduto sarebbe mancato qualcosa alla perfetta ignominia dell’espiazione…”, quindi Giuda non solo è traditore, ma è colui che ha venduto, barattato a basso prezzo un uomo, l’Uomo; Giuda fu un venditore di sangue.
Dopo aver descritto in più capitoli l’ultima cena, l’autore si addentra nel vivo del racconto evangelico con l’agonia di Gesù nell’orto degli ulivi. Solo Papini presenta questo momento come una seconda tentazione del Cristo, dopo quelle che egli subì nel deserto prima della sua vita pubblica “… ora, in questo nuovo deserto, in questa tenebra dove Gesù è solo, spaventosamente solo… Satana torna ad insidiare il suo nemico… L’altra volta gli prometteva le grandezze dei regni….ora ricorre al contrario: spera nella sua debolezza…”.
Papini accenna solo a questo profondo tormento del Cristo, poi si ritrae, quasi impaurito da tanto suo ardire “… il racconto di questa notte è il mistero di Gesù. Il mistero di Giuda è il solo mistero umano dell’Evangelo, la Preghiera del Getsemani è il più imperscrutabile mistero divino della storia di Cristo.” Ora il Cristo in questa lotta con le Tenebre gronda sangue, “suda per tutta la persona… il sangue che ha promesso agli uomini comincia a versarlo sull’erba del Monte degli Ulivi.” La lotta che Gesù affronta è il diretto confronto tra arbitrio ed obbedienza, cioè tra arbitrio e vera libertà: “la volontà abdica nell’ubbidienza che sola assicura la libertà universale. Non è più un uomo ma l’Uomo; l’Uomo tutt’uno con Dio, una cosa sola con Dio: voglio quello che vuoi.”Inquietante la descrizione che viene fatta di Anna (Hanan) e di Caifa (Cajafa, soprannome che ha diverse assonanze con Cefa, fa notare Papini): uomini senza scrupoli, più attenti agli intrighi di potere che alla religione dei Padri, più interessati ai risvolti politici della predicazione di questo sedicente messia che alle sue parole.
Con Giuseppe Cajafa, Pietra, appare anche Simone Cefa, Pietra nel momento culminante del suo tradimento e del successivo, desolato pentimento al canto del gallo, raccontato dallo scrittore con toni lirici e struggenti: “… quel canto ilare e baldanzoso fu per Simone come il grido che sveglia di colpo l’assopito da un incubo; Come il ricordo improvviso di un discorso udito in un’altra vita, come il ritorno alla casa della puerizia, all’orto mattiniero, disteso fra il lago e le campagne, come una voce da tanto tempo dimenticata che illumina una vita come un lampo la notte. Allora si poté vedere, nell’incertezza dell’albore, un uomo che andava via come un ubriaco, col capo nascosto nel mantello, e le spalle scosse dai singhiozzi d’un pianto disperato”. Sono numerosi i capitoli che Papini dedica alle torture inflitte a Gesù, ben otto, quasi volesse raccontare in tempo reale, attimo per attimo, la sofferenza fisica e spirituale del Cristo. I toni sono realistici, forti, impietosi sia nel tratteggiare giudei, romani che lo stesso Gesù sotto il peso dei tormenti.
Il consiglio ebreo che giudica il Signore è un canile di spettri; i giudei sono vecchi, massicci, nasuti, arcigni, cipigliosi, chiusi nei manti bianchi, le teste coperte da un panno, le barbe carezzate e reverenziali, gli occhi pugnaci. Il Cristo in questo consesso, “sempre colla fune annodata ai polsi spinto in mezzo a codesto canile”, pareva il condannato ad bestias negli anfiteatri romani; Egli tace e i suoi silenzi sono gravi di una soprannaturale eloquenza che ha il potere di invelenire i suoi giudici. Tutto ciò fino alla domanda diretta di Caifa, alla quale Gesù non può non rispondere perché per quella suprema testimonianza è venuto.
I gaglioffi del Tempio prendono in consegna Colui che con le sue stesse parole si è condannato: “l’uomo bestia, quando è certa l’impunità, non conosce più bel sollazzo di questo: sfogarsi contro l’inerme, con maggior gusto quando l’inerme è innocente…”, poche parole che bastano a farci comprendere le bestialità cui fu oggetto l’Innocente per eccellenza.
Un altro personaggio di questo dramma è Ponzio Pilato, il procuratore romano: se da principio il giudizio che Papini da su di lui pare abbastanza attenuato, poi però non gli risparmia le sue incapacità, i suoi tentennamenti, o meglio, l’essersi mosso per ragion di Stato e non per amore di Verità: “Pilato, a forza di stratagemmi, di rinvii, d’indolenti interrogazioni, di mezzi termini e mezze misure, di titubanze, di risoluzioni maldestre e ringoiate, di mosse mal eseguite, si trovava ora precipitato lentamente dove non sarebbe voluto cadere…”. Unica nota luminosa e positiva Claudia Procula, la moglie del procuratore, che la Chiesa orientale venera come santa, poiché si è mossa a favore di Gesù.
Terribile il capitoletto Un re incoronato, per la crudezza di descrizione, per la violenza trattenuta a stento dalle parole nel suggerire le flagellazione. Il triste corteo con il condannato a morte procede alla volta del Calvario “… in cima alla callotta del Teschio le Tre Croci, alte, scure, colle traverse aperte, come giganti pronti all’abbraccio, campeggiano sul gran cielo amoroso di primavera. Non gettano ombre ma sono orlate dalle riverberazioni scintillanti del sole. È tanta la bellezza del mondo, in quel giorno, in quell’ora, che non sembra possibile pensare ai tormenti; non si potrebbe, quell’antenne di legno, fiorirle con fiori di campo e sospendere, dall’una all’altra, festoni di foglie nuove, mascherate i patiboli con muraglie di verdura e sedere all’ombra, fratelli riconciliati e benevoli, per tutta la siesta?...”. Stupiscono questi squarci lirici che frammezzano la narrazione dell’orrore, dell’odio degli uomini verso il Cristo, eppure Papini sceglie di procedere così: allenta la tensione di un narrare serrato con la calma e la tranquillità di questi paesaggi interiori.
Con quattro chiodi, impietosamente, Cristo è conficcato alla croce tra il clamore dei suoi avversari e il silenzioso compianto delle donne, della madre e di Giovanni. Accanto a lui soffre Dismas: “… in un impeto di fede, come se invocasse la comunanza di quel sangue che grondava nello stesso momento dalle sue mani di criminale e da quelle mani d’incolpevole, proruppe in queste parole: Gesù, ricordati di me quando verrai nel tuo Regno!”
“Il respiro di Gesù si faceva sempre più rantolante… Il cielo, ch’era stato limpido tutta la mattina, quasi improvvisamente si oscurò… Cristo è morto. È morto sulla croce come gli uomini hanno voluto, come il Figlio ha scelto e il Padre accettò. L’agonia è finita e i Giudei son contentati. Ha espiato fin all’ultimo ed è morto. Ora comincia la nostra espiazione – e non è ancora finita.“.
I capitoli conclusivi rivivono, con commozione intensa in cui balena la medesima esperienza trasfigurante dell’autore neo-convertito, gli episodi che dalla resurrezione si dipanano fino all’ascensione di Cristo al Padre. Veramente degna di nota è la preghiera finale, nella quale si condensa tutta la fede ardente di Papini: “Abbiamo bisogno di te, di te solo, e di nessun altro. Tu solamente, che ci ami, puoi sentire per tutti noi che soffriamo, la pietà che ciascuno di noi sente per se stesso… Ma noi, gli ultimi, ti aspettiamo. Ti aspetteremo ogni giorno, a dispetto della nostra indegnità e d’ogni impossibile. E tutto l’amore che potremo torchiare dai nostri cuori devastati sarà per te, Crocifisso, che fosti tormentato per amor nostro e ora ci tormenti con tutta la potenza del tuo implacabile amore.”
Fonte: http://universalautori.blogspot.it/2012/08/letteratura-papini-g-storia-di-cristo.html
L’intellettuale dissidente