La violenza morale e il rapporto verità-menzogna in Marcel Proust nelle considerazioni di Bataille e Simone Weil

È un Proust meno noto quello che emerge dal saggio La letteratura e il male di Bataille. Il tema della riflessione sembra essere l’urgenza della voce della moralità che si articola nell’approfondimento del rapporto non scontato fra verità e menzogna; in quest’angolazione è possibile fare un raffronto fra il pensiero di Bataille e le osservazioni di Simone Weil sulla moralità in letteratura. Nella lettera ai “Cahiers du Sud” sulla responsabilità della letteratura la scrittrice lamenta, oltre alla «facilità dei costumi letterari» e alla tolleranza della «bassezza», «la carenza del sentimento dei valori» negli scrittori del secolo. La psicologia che è alla base della letteratura contemporanea «consiste nel descrivere gli stati d’animo disponendoli sullo stesso piano senza discriminazioni di valore, come se il bene e il male fossero loro estranei, come se lo sforzo vero, il bene, potesse essere mai assente dal pensiero di un uomo». La letteratura, in altri termini, si muove su «stati d’animo non orientati». L’opera di Proust non sfugge secondo la Weil a questo orizzonte: «Il bene vi appare solo nei rari momenti in cui per effetto del ricordo o della bellezza, si riesce a presentire l’eternità attraverso il tempo». Dalla lettura di Bataille emerge invece l’immagine di un Proust che, con una passione che si spinge fino alle soglie della violenza, persegue verità e giustizia e quindi il Bene. I passi batailliani che sottolineano l’impegno morale del Jean Santeuil e il suo commento ad alcuni passi esemplari della Recherche hanno una singolare affinità di tono con alcuni passaggi della lettera di Simone Weil, ma anche dello scritto La personne et le sacré, pubblicato in Francia nel 1950. Afferma Bataille: «Il solo fatto di essere uomo comporta l’amore della verità e della giustizia. Questa passione è distribuita in modo ineguale fra le persone, ma essa indica in realtà la misura in cui ognuna di esse è umana, in cui ad ognuna di esse spetta la dignità di uomo» (LM, IX, 259; 119). Leggiamo in Simone Weil: «C’è nell’intimo di ogni essere umano, dalla prima infanzia sino alla tomba e nonostante tutta l’esperienza dei crimini commessi, sofferti e osservati, qualcosa che si aspetta invincibilmente che gli si faccia del bene e non del male. È questo prima di tutto che è sacro in ogni essere umano». Per il romanziere francese, come per Bataille e Simone Weil che del resto riconosce allo scrittore verità e bellezza, la verità e la giustizia umana che affonda le radici negli strati più profondi del cuore (o dell’anima secondo Simone Weil che possiede il senso del soprannaturale) sono altro dalla sfera del diritto, a cominciare dal diritto naturale. L’uomo non ha scolpito nel cuore il senso del diritto, ha invece il senso della giustizia e del bene che non sono stadi intermedi e relativi, ma assoluti.

Il Jean Santeuil e l’amore appassionato per la verità di Proust

Troviamo in Bataille un passo del Jean Santeuil: «Si odono sempre con una emozione gioiosa e virile proferire parole audaci e singolari da parte di uomini di scienza che vengono a dire la verità per una questione di onore professionale: una verità che li preoccupa soltanto perché è la verità e che devono prediligere nella professione senza timore di scontentare chi la vede in tutt’altro modo, in quanto è coordinata ad un insieme di considerazioni di cui essi non si preoccupano punto» (LM, IX, 259; 119). Jean Santeuil risale a Platone per esprimere l’amore appassionato per la verità: «È questo – afferma – che […] ci commuove nel Fedone quando, seguendo il ragionamento di Socrate, abbiamo all’improvviso la straordinaria sensazione di ascoltare un ragionamento la cui straordinaria purezza non è stata alterata da alcuna passione personale come se la verità fosse superiore ad ogni cosa: perché in realtà non ci accorgiamo che la conclusione, che Socrate ricaverà da questo ragionamento è quella di dover morire» (LM, IX, 259260; 119-120). Jean è il Proust trentenne abitato da una grande passione per la politica. Il Proust della Recherche non è indifferente alla giustizia ma i suoi sentimenti «avevano ormai perduto questa semplicità aggressiva» (LM, IX, 260;120). Se nel Jean Santeuil Proust trova accenti lirici per esprimere la sua identificazione con «la voce della giustizia palpitante e pronta a sciogliersi in canto», la scrittura successiva non registra più tale ispirazione. Anzi, secondo Bataille, senza il Jean Santeuil non sapremmo che la giovinezza di Proust fu contrassegnata da sentimenti socialisti. L’indifferenza della maturità aveva essenzialmente motivi di carattere psicologico ma anche di classe: Proust apparteneva al ceto borghese di cui le agitazioni operaie tendevano ad abolire i privilegi, ma soprattutto, agli occhi di Bataille «la sua lucidità influì vivamente sulla sua ansia di generosità rivoluzionaria» (LM, IX, 260; 121). Un movimento di esitazione di fronte all’azione socialista non mancava del resto nemmeno nell’opera giovanile. Bataille ci invita a leggere un passo esemplare a questo proposito: «Soltanto quando riflette Jean si stupisce che (Jaurès) tolleri nei suoi giornali, o scagli nelle sue interruzioni, attacchi tanto violenti e forse calunniosi, quasi crudeli contro certi membri della maggioranza» (LM, IX, 261; 121). Lo stesso Proust si dà la spiegazione con quella che Bataille definisce «una ingenua goffaggine». Queste le conclusioni del giovane Jean: «La vita e soprattutto la politica sono una lotta, e poiché i malvagi sono armati in ogni modo possibile, è dovere anche dei giusti esserlo, almeno per non lasciar perire la giustizia […] Se i grandi rivoluzionari avessero troppo badato al modo, la giustizia non avrebbe mai conseguito la vittoria»

Gli stati d’animo tortuosi di Proust

L’intento di Bataille è comunque quello di dimostrare che «Proust ebbe fino alla morte la passione per la verità» (LM, IX, 263; 124), nonostante frequenti siano i momenti della sua vita in cui il principio viene trasgredito. In altre parole, i suoi stati d’animo furono tortuosi, i suoi comportamenti spesso discutibili o riprovevoli, ma egli ebbe scrupoli e rimorsi. Solo che Bataille sembra non rendersi conto come la sua critica oscilli dal piano psicologico al piano di più generali categorie antropologiche quando afferma, ripetendo per altro concetti già espressi, che non esiste legge senza trasgressione e che nella dialettica di entrambe risiede la loro umanità. Un passo soprattutto rivela questo atteggiamento: «Noi ironizziamo sulla contraddizione tra la guerra e l’universale interdetto che condanna l’omicidio, ma la guerra è universale tanto quanto l’interdetto […] Accade lo stesso della menzogna e dell’ingiustizia. È vero che in certi luoghi furono rigorosamente osservate delle interdizioni, ma il timoroso che non osa mai infrangere la legge, che rivolge altrove lo sguardo, è ovunque disprezzato. Nel concetto di virilità vi è sempre l’immagine dell’uomo che, pur entro i propri limiti, con piena consapevolezza e senza pensarci troppo, sa mettersi al di sopra delle leggi» (LM, IX, 263; 124). In realtà, la guerra e l’interdizione dell’omicidio sono ben altro rispetto alla fantasmagoria amorosa, che affonda in stati dell’interiorità per i quali è inadeguato ricorrere a categorie così ampie che investono la totalità dell’essere. Lo stesso Bataille si richiama al personaggio di Jaurès per il quale era in gioco non il possesso di un amore passeggero, ma lo scontro inevitabile fra giustizia assoluta e verità da un lato e la prassi politica dall’altro lato. «Se – scrive Bataille – Jaurès avesse ceduto alla giustizia, non avrebbe soltanto nuociuto ai suoi partigiani: questi lo avrebbero anche considerato incapace. Un aspetto oscuro della virilità costringe a non rispondere mai, a rifiutare una spiegazione. Noi dobbiamo essere leali, scrupolosi, disinteressati; ma al di là di questi scrupoli, di questa lealtà e di questo disinteresse dobbiamo essere sovrani. La necessità di infrangere una volta l’interdetto, fosse pure sacrale, è ben lontana dal ridurre a nulla il suo principio».

Nel Jean Santeuil, in ultima analisi, la passione per verità e giustizia emergono attraverso lo schieramento del giovane Proust dalla parte dei socialisti. E anche se questo sentimento non sfocerà mai, come Bataille sottolinea, in una piena adesione politica tuttavia egli mantiene fino alla fine «la sua ansia di generosità rivoluzionaria» (LM, IX, 260; 121), cui si adatta perfettamente il nome di rivolta senza fine e che accompagna o forse è alla base del registro altamente trasgressivo della Recherche.

Il cinismo presente nella Recherche e le critiche di Simone Weil alla letteratura di Proust in quanto letteratura psicologica

Nella Recherche, come Bataille sostiene, «gli episodi di cinismo si moltiplicano», episodi vissuti cinicamente mentre accadono, ma condannati nel racconto. In questo senso la memoria proustiana è veramente capace di mutare il passato nel trasformare il senso dei fatti, ai quali la riflessione che inevitabilmente si accompagna alla memoria aggiunge dolcezza e nostalgia, assoluzione o condanna. Bataille riprende i concetti già precedentemente espressi sul rapporto fra il rigore del principio e la possibilità della trasgressione, per ribadire che la morale autentica è quella che continuamente mette in gioco se stessa e quindi «il vero odio della menzogna ammette, non senza il superamento dell’orrore, che si corra il rischio di una data menzogna» (LM, IX, 264;125). L’insegnamento tradizionale che si pone al riparo dalla trasgressione «gira le spalle allo spirito di rigore» (LM, IX, 264; 125). Siamo nell’ambito dell’ipermorale alla quale fa da pendant l’eccesso. In particolare «Proust, facendoci conoscere la sua esperienza della vita erotica, ci ha offerto un aspetto intelligibile di un tale avvincente gioco di opposizioni» (LM, IX, 264; 126). I passi proustiani più significativi a questo proposito sono individuati da Bataille nell’episodio della profanazione da parte della figlia di Vinteuil della fotografia del padre ormai morto. Seguendo quella che considera una identificazione ormai stabilita, Bataille afferma: «la figlia di Vinteuil personifica Marcel, e Vinteuil è la madre di Marcel» (LM, IX, 265; 126). È in questa chiave che Bataille rilegge il brano proustiano che suona così: «Non c’è forse persona, per quanto grande sia la sua virtù, che non possa essere indotta dalla complessità delle circostanze a vivere un giorno di familiarità col vizio che ella condanna nel modo più aperto – senza che ella del resto lo riconosca completamente nel travestimento di fatti particolari che questo assume per entrare in contatto con lei e farla soffrire: parole bizzarre, atteggiamenti inesplicabili, una certa sera in un certo essere che tuttavia ella ha tante ragioni di amare. Ma per (una donna) come (la madre di Marcel), doveva esserci molta più sofferenza che per (un’)altra nel rassegnarsi a una di quelle situazioni che a torto si pensano come esclusivamente tipiche del mondo bohémien: esse si producono ogni qual volta un vizio, che si sviluppa per natura in un bambino, ha bisogno di riservarsi il posto e la sicurezza necessari… Ma dal fatto che la (madre di Marcel) conosceva forse la condotta (di suo figlio), non consegue che il suo culto per (lui) ne risultasse diminuito. I fatti non penetrano nel mondo in cui vivono i nostri miti: non li hanno fatti nascere, non li distruggono…» (LM, IX, 266; 127-128). Quest’ultima frase costituisce il momento di contrapposizione fra l’atteggiamento della madre (di una madre) e quello del figlio colpevole. I fatti non toccano le fedi profonde che vivono al di là delle azioni malvagie dell’essere amato visto, al di sopra di esse, con gli occhi dell’anima. Diverso l’atteggiamento del sadico della specie di Marcel in cui il Male diventa un’arte nel contrasto consapevole fra l’inclinazione naturale alla virtù, in altri termini a quella che non costa nessuna fatica, e la consapevolezza che esiste un altro ambito nel quale ci si vuole cimentare. Il piacere che si gode nell’esercizio dell’intelligenza sa di allontanarsi dalla sfera del bene ma non trova in esso alcun godimento. Nella pagina proustiana letta da Bataille, al sadico si oppone non colui che gode normalmente, ma l’asceta. Proust non conosce vie di mezzo: o la virtù senza piacere sensuale o la rinuncia totale. Un atteggiamento simile naturalmente nasconde da un lato la convinzione che non il piacere sensuale in genere, ma il proprio piacere in particolare sia fuori regola, cioè fuori dal bene, e dall’altro lato che solo fuori dalle regole, fuori dal bene esista il vero piacere.

La trasgressione di Proust secondo Bataille

Il piacere proustiano è indubbiamente un piacere trasgressivo, ma forse agli occhi di Proust la colpa maggiore è di non saper scindere il piacere dal male. Proust è contemporaneamente la figlia di Vinteuil ma è anche Vinteuil: egli vede non da una sola angolazione, ma a tutto campo. Vinteuil convive col vizio senza volerlo vedere, ma capisce anche il punto di vista altrui. Leggiamo infatti nella Recherche: «Quando Vinteuil pensava alla figlia e a se stesso dal punto di vista degli altri e della buona reputazione, quando cercava di situarsi insieme con lei al posto che occupavano nella considerazione generale […] si vedeva insieme con la figlia nell’estrema abiezione». Non può sfuggire che qui il bene è perfettamente inserito all’interno dell’idea borghese di moralità che coincide con la rispettabilità. I miti non crollano di fronte ai fatti, così come nessuna ragionevole considerazione sul bene può mutare le individuali inclinazioni al piacere; è possibile rinunciare asceticamente ad esso, non però trovare per esso il modo di tutti; e non a caso Proust usa il termine inumano; la lucidità della ragione si schiera dalla parte della moralità comune e ne vede le ragioni. Il sadico non è uno spregiudicato qualunque: non gli sfuggono tutte le sottili implicazioni del male che compie e ha la sventura di poter godere solo nel male. Secondo Bataille nessuno più del sadico conosce il Bene. Quella che Bataille definisce «la scena più forte della Recherche» è la scena che ha anche una inusitata e originalissima connotazione estetico-esistenziale: «È più facile – scrive Proust – vedere sotto la luce delle scale dei teatri del boulevard che sotto la luce della lampada di una vera casa di campagna, una ragazza che fa sputare un’amica sul ritratto del padre il quale è vissuto solo per lei; e forse soltanto il sadismo è capace di dare un fondamento nella vita all’estetica del melodramma. Nella realtà al di fuori dei casi di sadismo, una ragazza potrebbe avere degli atteggiamenti altrettanto crudeli verso la memoria e il desiderio del proprio padre morto, ma non li riassumerebbe espressamente in un atto di un simbolismo così rudimentale e ingenuo; quel che la sua condotta avrebbe di criminale sarebbe più voluto agli occhi degli altri e di lei stessa, e farebbe il male senza confessarselo». Proust definisce sadico l’atteggiamento di Mademoiselle de Vinteuil, Bataille parla di cinismo a proposito del Marcel della Recherche. La stessa conclusione di Proust, nel passo citato, subisce uno scarto. Il sadismo ha bisogno di rappresentare il reale in un simulacro e l’opera di Sade ne è la dimostrazione. Lo stesso Proust afferma: «Forse non avrebbe pensato che il male fosse uno stato tanto raro, tanto straordinario e conturbante, dove fosse tanto riposante emigrare, se fosse stata in grado di discernere in sé e in tutti gli uomini quell’indifferenza ai dolori che si provocano ad altri e che sotto qualsiasi nome è la forma terribile e permanente della crudeltà».

Qui Proust costruisce e demolisce un’estetica. Anch’egli appartiene, alla fine, alla tradizione dei moralisti, ma nella lettura di Bataille appare un essere profondamente morale nel suo schierarsi dalla parte della giustizia e della verità indipendentemente dalle sue azioni. Ha ragione Simone Weil nel definirlo scrittore di stati d’animo, non ha ragione quando lo vede «non orientato». Egli chiama col suo nome il vizio cui, non senza lacerazione, indulge, e nel brano citato assume su di sé non solo il punto di vista ma anche la sofferenza altrui. Scrive Simone Weil: «Non vi sono limiti ai nostri voleri se non la necessità della materia e l’esistenza degli altri esseri umani intorno a noi. Ogni estensione immaginaria di questi limiti è voluttuosa e così vi è voluttà in tutto ciò che fa dimenticare la realtà degli ostacoli. Ecco perché gli sconvolgimenti, quali la guerra e la guerra civile, che svuotano le esistenze umane della loro realtà, facendole simili a burattini, sono talmente inebrianti. È anche per questo che la schiavitù è così piacevole per i padroni» .

La lettura proustiana di Bataille suggerisce inoltre un ultimo raffronto con Simone Weil che nel testo già citato scrive: «Nulla più del Bene è bello, meraviglioso, perpetuamente nuovo, perpetuamente sorprendente, carico di una dolce e continua ebbrezza. Nulla più del male è desertico, triste, monotono, fastidioso. Tali sono il male e il bene autentici. Il bene e il male fittizi sono il contrario. Il bene fittizio è fastidioso e piatto. Il male fittizio è vario interessante, attraente, profondo, pieno di seduzioni». Il Bene in sé è piatto in quanto armonia e quiete, laddove l’arte è gioco di tensioni. La stessa Weil afferma ancora: «Se nella tela di un quadro raffiguro un uomo che sale in aria, ciò non ha nessun interesse: la cosa ha interesse solo in quanto esiste. L’irrealtà toglie ogni valore al bene». Naturalmente siamo con Simone Weil nella sfera dei valori morali che vengono distinti nettamente dalla valenza estetica, della quale la filosofa avverte il fascino ma che è pronta a sacrificare alla morale; quest’ultima sembra assumere nella sua riflessione un carattere incompatibile con la letteratura dalla quale «l’immoralità sembra inseparabile». E tuttavia ammette: «è certamente a torto che si rimprovera agli scrittori di essere immorali, a meno che non gli si rimproveri anche di essere scrittori, come si aveva il coraggio di fare nel XVII secolo. Quelli che aprono a un’alta moralità non sono affatto meno immorali degli altri, ma solo scrittori peggiori; in loro come negli altri qualunque cosa possano fare, loro malgrado, il bene è noioso e il male più o meno avvincente».

Simone Weil critica Proust in quanto esponente di una letteratura essenzialmente psicologica, e la psicologia porrebbe male e bene sullo stesso piano nella descrizione degli stati d’animo. Bataille dimostra che Proust sottopone a tensione critica gli stessi stati d’animo che appartengono all’uomo, allo sforzo di essere tale, e «il solo fatto di essere uomo comporta l’amore della verità e della giustizia» (LM, IX, 259; 119). Questa passione non è però distribuita allo stesso modo fra le persone, «essa indica, in realtà, la misura in cui ognuna di esse è umana, in cui ad ognuna di esse spetta la dignità di uomo» (LM, IX, 258; 119). Se verità e giustizia tendono al Bene, la letteratura non può essere che il territorio per eccellenza del male; i due piani, complementari in Bataille, sembrano nettamente separarsi nella Weil la quale tuttavia cerca una soluzione negli scrittori di genio: essi hanno «il potere di destarci alla verità», perché «sono fuori dalla finzione e ce ne portano fuori. Ci danno sotto forma di finzione qualcosa di equivalente allo spessore stesso della realtà, quello spessore che la vita ci presenta ogni giorno, ma che non sappiamo cogliere perché stiamo bene nella menzogna» La finzione del genio mette in luce la verità nascosta della menzogna e quindi perde il suo carattere di finzione, rispondendo alla verità ideale. Se per la Weil Proust appartiene alla schiera di coloro che, descrivendo stati d’animo, finiscono per porre sullo stesso piano Male e Bene, per Bataille la trasgressività letteraria ribadisce il principio del Bene.

 

Bibliografia: Georges Bataille e l’estetica del male, di Maria Barbara Ponti

John Grisham: “Il momento di uccidere”

“Il momento di uccidere” (del 1989) è l’opera prima dell’autore statunitense, John Grisham, ambientato nello stato del Mississippi nella Ford County intorno agli anni ottanta e che costituisce un classico esempio di legal thriller, ovvero un giallo giudiziario dove particolare importanza rivestono avvocati e giudizi, avendo a che fare con crimini e quindi processi.

“E se qualcuno violentasse vostra figlia? Cosa fareste? Quale sarebbe la vostra giustizia?”  Questa è  la domanda che avvolge tutto il romanzo. Pagine e pagine, parole forti e ancora attuali, lo saranno sempre. Una bambina indifesa, sogni raccolti in un volto tumefatto, in un’ innocenza strappata, portata via, rubata senza alcuna colpa.

Grisham, nel suo romanzo d’esordio, ci porta tra razzismo, desiderio di vendetta, una rabbia che brucia l’anima, che non lascia scampo, che non lascia possibilità di decidere. Perché la strada da percorrere  è una, non potrebbe essere altrimenti. Un padre che sceglie da se la propria giustizia, un padre, Carl Lee Hailey, che non può restare in silenzio, nell’attesa di quella giustizia che, forse, non si compirà mai.

E allora? Ancora quella domanda. “E se due neri violentassero vostra figlia? Cosa fareste?” Una domanda che, ancora oggi, non avrà mai una risposta giusta o sbagliata.

Una domanda che lascia nella mente una paura che ruba sonni tranquilli, il desiderio di proteggere un volto innocente. E se fossimo stati Carl Lee, e se fosse stata nostra figlia?

Il dibattito sulla pena di morte, il pregiudizio razziale, il sottile e spinoso confine tra giustizia e vendetta, “la giustizia fai da te” il ruolo dei mass media, l’importanza dell’opinione pubblica:  ono tutte tematiche care a Grisham e che svilupperà anche nei suoi successivi best seller: “Il socio”, “Il rapporto Pelican”, ” L’appello”, “La giuria”. Lo scrittore è uno spettatore neutrale, ed effettua un’attenta riflessione su tutti gli aspetti che riguardano una delle pagine più scottanti e contraddittorie dell’ America del sud attraverso  scontri verbali tra gli avvocati ed evoluzione dei caratteri e degli atteggiamenti dei personaggi. Ne risulta un libro avvincente e coinvolgente, in cui il lettore si immedesima, l’autore dà grande prova di conoscere la materia (sebbene la maggior parte delle pagine del romanzo siano occupate dai pensieri e dalle emozioni  dei personaggi) essendo laureato in legge ed avendo praticato la professione di avvocato penalista per nove anni. La soluzione del giallo è nelle sue ultime pagine (come ogni romanzo di Grisham del resto). Intrigante e brutale, tra tutti spicca anche la personalità brillante ed ambiziosa dell’avvocato della difesa.

La giustizia privata può riparare il fallimento delle giustizia legale?La questione è sempre più attuale e problematica quando si mettono di fronte l’austerità, il diritto, la razionalità e la freddezza della legge e il sentimento, l’emotività  delle persone coinvolte che purtroppo molto spesso vedono i colpevoli delle vittime restare impuniti.

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