Riscattare la sovranità per tornare alla Politica: una riflessione sui nostri Padri Costituenti

Lo stigma del pensiero dominante verso la sovranità è radicato nel neoliberismo, che ha generato un impoverimento materiale e identitario. Eppure, nonostante la censura, il sovranismo è oggi il sintomo del bisogno di una politica che si occupi del popolo, disorientato da una società sempre più instabile.

Forse per inveterata ignoranza, forse per ottuse convinzioni, forse – ancora – per quella piaggeria tutta nostrana di compiacere il pensiero dominante per nascondersi nella palude superba della maggioranza, quando parliamo di sovranità spesso affiorano alla mente accostamenti cabalistici a fenomeni considerati tra i più nefasti e negletti della storia: sovranità diventa così sinonimo di nazionalismo, di fanatismo, di sciovinismo, di fascismo e finanche di nazismo.

Sovranità e Costituzione italiana

E così, chi oggi è sorpreso “in odore di sovranità” non ce la fa proprio a restare incolume dinanzi all’etichetta solerte di maleducato o troglodita che da più parti si è pronti ad affibbiargli addosso. Dovrà imparare a conviverci, compatito e schernito come chi cercasse di telefonare in cabine a gettoni. La cosa è piuttosto curiosa se si pensa che non le Leggi fascistissime, non le Leggi di Norimberga hanno insistito su un uso specifico di questo termine, ma – tra gli altri – il primo articolo della nostra Costituzione, dove espressamente ci si riferisce alla “sovranità” stabilendo che essa appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.

A meno di non ritenere i nostri Padri Costituenti dei fascisti incalliti mascherati da democratici – il che fa piuttosto sorridere, parlando di uomini che avevano ben chiaro cosa fosse, e dove portasse, l’esiziale ideologia nazionalista; che avevano conosciuto il carcere, l’esilio o il confino; che stavano tentando di ricostruire una nazione dilaniata dalle macerie e dalla retorica bellica e che in alcuni casi, come per il PCI, facevano un vanto il loro essere “partito della nazione” – ecco, a meno che non vogliamo ostinarci a credere l’incredibile, occorre ammettere che la sovranità nazionale sa ritagliarsi degli spazi autonomi e originari rispetto alla (solo) possibile, e in ogni caso conseguente, degenerazione nazionalista che va a deformarne e snaturarne il senso.

Non serve essere degli storici per accorgersi che lo stigma verso la sovranità, più o meno condiviso, è cosa tutto sommato recente: è da una ventina di anni circa che è iniziata la sua condanna come male da estirpare per giungere a una vita finalmente felice e spensierata (soprattutto spensierata, da intendere qui come “senza la fatica di pensare”). Un Aldo Moro, un Giulio Andreotti, un Bettino Craxi e anche un Enrico Berlinguer non avrebbero fatto alcuna fatica a riconoscere in questo principio le basi della nostra democrazia.

Basti pensare al caso emblematico di Sigonella che vide protagonista l’allora presidente Craxi, quando proprio in nome dell’interesse nazionale, e della sovranità che di esso è garante, si è difesa la dignità e la libertà di un popolo nella sua integrità. D’altronde, l’alternativa alla sovranità è l’anarchia, che da sempre equivale alla legge del più forte: non esattamente una prospettiva rassicurante.

Sovranità e Europa

Se, allora, il fenomeno è incompreso dal punto di vista storico e recente dal punto di vista cronologico, vale la pena chiedersi perché sia accaduto. Per quale motivo, cioè, negli ultimi anni la condanna della sovranità è divenuta così unanime e condivisa? La retorica della costruzione della casa comune europea – dove vengono limitate le sovranità particolari a vantaggio di un’unione politica (ancora tutta da fare, per la verità) – è un accenno di risposta. Accenno che, come tale, è insufficiente a fornire una risposta esaustiva, anche perché in questo caso non è condannata la sovranità in quanto tale, che invece verrebbe solo traslata da un perimetro nazionale a uno sovranazionale.

E allora, perché questa riprovazione della sovranità così repentina e condivisa?
La risposta chiama in causa il Potere, per dirla col grande Pasolini, e per coglierla nella sua articolazione sono forse utili le pagine dell’ultimo lavoro del politologo Carlo Galli, intitolato per l’appunto “Sovranità”.

È stata la forma economica dominante, cioè il neoliberismo, ad aver dato un colpo ferocissimo al concetto e alla pratica della sovranità. L’economia neoliberista – che trionfalmente si è affermata con la globalizzazione, dapprima in Gran Bretagna con la signora Thatcher e poi negli Stati Uniti con Reagan – tende infatti a proporsi come autonoma, capace di darsi legittimità da sé e quindi come essa stessa sovrana.

Si tratta di una sovranità che non richiede l’unità politica ma l’unità del mercato, nel quale agisce una pluralità di soggetti in grado di calcolare razionalmente il proprio utile. Anche nelle sue varianti non estremistiche, il neoliberismo considera lo Stato come un soggetto non sovrano, dotato del potere di “regolare” il mercato ma non di esprimere e decidere in ultima istanza le sorti di un gruppo storico e geografico di uomini e donne: ciò perché questa decisione in realtà è già avvenuta, ed è appunto la decisione del mercato, il quale contesta e travolge la capacità della sovranità di porgli argini e confini, di delimitare un dentro e un fuori, di costituire l’asse attorno a cui ruota la politica. Non a caso l’economia, oggi più che mai, esige piena libertà di movimento, di uomini, merci e capitali, e pretende che questa libertà dell’utilità sia l’ultima parola della vita associata, il nec plus ultra dell’umanità.

Globalizzazione

Contro questa nuova mondiale sovranità, priva di forma e di limiti, quella vecchia e locale non sembra avere scampo, se non altro perché la nuova viene presentata al singolo non come compressione dei suoi diritti ma come occasione per esaltare le sue capacità e i suoi desideri. L’obiettivo del neoliberismo è sostituire il privato al pubblico: la globalizzazione – ha scritto Zygmunt Bauman“ha globalizzato il vero potere scavalcando la politica”.

In quest’ottica molto complessa occorre allora gettare nuova luce anche sull’invocazione della sovranità a cui si assiste oggi in Europa e negli Stati Uniti. Al netto delle considerazioni semplicistiche e al contempo veementi con cui spesso si è soliti liquidare i cosiddetti “sovranismi” e “populismi” – la solerzia della lotta contro di essi dovrebbe far riflettere, se non altro perché condotta in modo unitario da forze che prima si dichiaravano avversarie – questi fenomeni andrebbero letti con più umile accuratezza e meno sbrigativa saccenza.

Lungi dall’essere soltanto il segnale di becere forme di ignoranza (ingrediente che esiste, evidentemente, ovunque) essi rappresentano piuttosto il tentativo di recuperare la distinzione tra esterno e interno, fra pubblico e privato, nello sforzo di perseguire una nuova protezione riducendo l’insicurezza generata dalle potenze che si abbattono sulle società occidentali. Tali potenze generano impoverimento materiale e identitario, facendo precipitare in uno stato di paura permanente, quando non in una vera e propria angoscia, soprattutto alla luce della velocità con la quale innescano certi vorticosi meccanismi.

Si tratta di potenze economiche, i mercati, che i loro magnificatori definiscono inesorabili e onnipotenti (“con i mercati non si tratta”, è il moderno ritornello in voga), senza capire che è proprio tale pretesa ciò che genera la lotta di larghe fasce popolari contro i mercati stessi. La richiesta di sovranità politica è, dunque, la ribellione all’idea che ci si debba sottomettere a un’autorità trascendente, è il sintomo di una sofferenza psicologica ed economica causata da una società instabile, in continuo movimento; è il ritorno alla funzione protettiva, che è poi la prima prestazione della sovranità.

Come si può vedere, la ricerca della sovranità è una forte istanza politica e quindi è errato associarla al qualunquismo o all’antipolitica. Essa è piuttosto una volontà di ritorno della politica e delle sue tutele, soprattutto a fronte di un’economia che si è fatta onnipotente e minacciosa. Né si può sostenere che la sovranità sia ontologicamente solo “di destra”: è vero che attualmente la richiesta di sovranità viene intercettata soprattutto dalla destra, ma ciò accade sostanzialmente per responsabilità storiche della sinistra, la quale non ha intravisto la natura a-sociale del liberismo che ha invece a suo tempo assecondato.

La soluzione? È una domanda a dir poco complessa. Quello che è certo è che il sovranismo aiuta ad indicare chiaramente il problema ma non intercetta immediatamente le soluzioni. Almeno coscientemente. Non le intercetta ma, nelle sue forme meno becere e più nobili, le evoca in chi vuole leggerle. E lo fa esprimendo proprio un ritorno alla Politica nel senso vero e proprio del termine. Il sovranismo è la richiesta di una politica che non sia soltanto il calcolo del Pil o dei decimali di sforamento del rapporto con l’Unione Europea, di una politica che sia finalmente un agire e non un lasciarsi agire, che sia un movimento e non un impaludamento.

È forse allora tutta qui, la soluzione: tornare a una politica che sia un servizio agli uomini e alle donne, e non ai meri mercati. Una politica che – in una cooperazione internazionale sostanziale e condivisa – si serva della sovranità come elemento per sostenere la difesa e la rinascita dal basso dei corpi intermedi, vera ricchezza della società europea (e italiana in particolare) che ha permesso la ricostruzione di un tessuto sociale e connettivo dei nostri popoli più volte uscito devastato dai drammatici avvenimenti della storia contemporanea. Quei corpi intermedi, come affermò La Pira in sede Costituente, “nei quali la persona si integra e si espande”. Cioè si realizza e si compie.

Fuori da questa rinnovata centralità della persona c’è il nulla, dentro cui tutto si perde. Eccolo allora in agguato il bivio di sempre: o la persona o il nulla. Tertium non datur. A ognuno la scelta.

 

Francesco Carillo

Fenomenologia della tradizione e il mondo moderno e tecnico

Sono nato in un’epoca in cui si sentiva spesso parlare di un lemma ormai dimenticato: tradizione. Oddio, anche ai miei tempi (non troppo remoti) si assisteva alla disputa inconcludente fra tradizionalisti e progressisti, solo che a carte scoperte, gli stessi avanguardisti del moderno avevano dei punti fermi, dei loro riferimenti tradizionali. Eppure tradizione la trovo una parola bellissima, che non ha nulla da spartire col bigottismo morale, il bacchettonismo culturale, ciò che è retrivo, nemico della civiltà e del progresso. Essa si fa risalire al sostantivo latino traditio, derivato dal verbo traděre, ovvero dare, passare qualcosa a qualcuno, consegnare, affidare e anche trasmettere o tramandare.

Consegnare, affidare, trasmettere, tramandare, parole che non dovrebbero farci diffidare. Parole che abbiamo avuto in consegna, affidate, tramandate insieme al concetto profondo che in esse è racchiuso, affinché lo custodissimo. Già, custodire, altro concetto che non sappiamo più dove abiti, ingarbugliati come siamo dentro i meandri di una modernità frenetica, senza classe né talento e troppo presi ad apprendere ipnoticamente una neolingua globalista a vocazione anglofona (). Prigionieri di un totalitarismo eufemisticamente chiamato liberalismo, che attraverso le leggi di mercato e la logica consumistica… procede allo sterminio delle anime e delle culture.

La tradizione non è il passato… [essa] ha a che vedere col passato né più né meno di quanto ha a che vedere col presente e col futuro. Si situa al di là del tempo. Non si riferisce affatto a ciò che è antico… bensì a ciò che è permanente, a ciò che sta dentro.
(A. De Benoist, Le idee a posto)

Cosicché vorrei evitare equivoci maldestri e far sì che il discorso non si assimilasse, banalmente, alla più classica querelle des anciens et des modernes, il pensiero tradizionale contro quello della globalizzazione, della razionalità, dell’utilitarismo e della modernità fondata su specialismi tecnologici. Il giorno della Fine non ti servirà l’inglese cantava Battiato. Quindi sposterò l’asse su un certo tipo di cultura, che Marcello Veneziani ci notifica, ovvero quel complesso arcipelago di idee ed umori cui facciamo riferimento nel nostro procedere nei rapporti intellettuali, sociali e umani. La cultura non è pertanto uno scaffale di libri, asettico per quanto potenzialmente devastante di conoscenza, ma è attraverso quello scaffale che individuiamo il nostro tratto identitario, che segna e determina in seguito il complesso arcipelago di idee e umori cui facciamo riferimento nel quotidiano.

In senso tradizionale – ce lo suggerisce Michele Federico Sciacca – la cultura è primieramente paideia, ovvero educazione e tradizione nel senso più pieno delle sue accezioni: La tradizione è sempre contemporanea. Ascoltiamolo:
C’è da fare quello che hanno fatto i nostri padri, che non hanno accettato passivamente e stancamente ripetuto formule vecchie; hanno ripensato secondo il loro tempo.
Per cui consigliò di non affidare niente all’oblio,
opere valide, tramandate; sottratte alla dimenticanza, non al tempo, anzi solo ciò che è valido si affida al tempo; infatti sono elementi della tradizione e, in quanto tali oggetti formativi o di studio, opere vive, contemporanee e perciò produttive di altre opere, ricchezza che investita ne produce altra.
Non bisogna mettere in soffitta Platone e Aristotele, Agostino e Tommaso, Cartesio e Leibniz, Hegel e Rosmini, cioè il pensiero umano nel suo itinerario di approfondimento e sofferenza, piuttosto
raccogliamoci e pensiamo, ciascuno con la propria testa e come quei pensatori si sono sforzati di rinnovare e innovare la tradizione, rinnoviamola e innoviamola anche noi, ché la tradizione rinnovata, soltanto essa, è l’autentico progresso.

Sciacca operò sempre nel segno della prospettiva cristiana, ma in filosofia seppe cogliere l’allarme già lanciato da molti nomi della cultura europea, per questo combatté ogni forma di empirismo e di positivismo in quanto essi vedono l’ens e perdono di vista l’esse e l’ens senza l’esse è nulla, ammonisce col tono dell’invettiva. A questo punto è perfino pleonastico dirlo, ma la critica di Julius Evola alla civiltà occidentale è condotta dal mondo della tradizione, ed è emblematica l’opera del 1934 Rivolta contro il mondo moderno. Ma anche La dottrina del Risveglio, laddove bolla la civiltà moderna come quella che “del samsara ha fatto un vero e proprio culto”: una civiltà quindi, “votata al divenire” cui contrappone le civiltà tradizionali “fondate sull’essere” (Sandro Consolato, J.Evola e il Buddhismo).

Evola, ripercorrendo la cosmologia indù, fa ricorso ad un concetto metafisico, il kali-yuga, l’Età Oscura – ultima di quattro Età – corrispondente all’Età del Lupo delle tradizioni nordiche e all’esiodea Età del Ferro (Consolato) per definire il mondo moderno, il suo limite stesso. Quindi ci indica la differenza fra l’uomo della tradizione e gli altri, e ce lo dice in un passo di Rivolta: L’uomo tradizionale – spiega – non aveva la stessa esperienza del tempo subentrata nell’uomo moderno, egli aveva una sensazione sovratemporale della temporalità e in questa sensazione egli viveva ogni forma del suo mondo. Ma diversamente non aveva scritto Guénon, il quale ne La crisi del mondo moderno non esita a dire che fra lo spirito religioso, nel vero senso di questa parola e lo spirito moderno, non può che esserci antagonismo, precisando però, che vi è differenza fra il punto di vista metafisico, che è puramente intellettuale e quello religioso, che implica la presenza di un elemento sentimentale che influisce sulla stessa dottrina.

Ragion per cui l’Occidente moderno così come lo abbiamo preso in consegna, è limitato dal suo sentimentalismo e dal suo bisogno di azione che gli impediscono di raggiungere le attitudini intellettuali naturalmente familiari all’Oriente (Oriente e Occidente).

Alla fine quindi, sia Evola che Guénon guardano a Oriente, a forme metafisiche non europee, perché non riscontrano più elementi tradizionali al pensiero e alla cultura dell’Occidente, decaduto ad un convulso formulario di dottrine, dettate ora dall’individualismo esasperato, ora dallo scientismo, oggi dal rigor mortis della cultura che ha rinnegato se stessa per mano del parricida più spietato e impunito: l’uomo. Per un approccio “verticale” ai problemi attorno alle cose del mondo e al mondo stesso inteso come concetto: religione è, tradizione. Metafisica è, tradizione. Filosofia con la quale cerchiamo le domande prima ancora delle risposte è, tradizione. Per Evola e Guénon l’attività intellettuale degli individui è fondata sulla tradizione, la quale non è semplice conservazione o fede bigotta – come ci sovviene a più riprese Veneziani – bensì il nesso tra idee e realtà, tra eventi e soggetti di diversa portata. Essa [la tradizione] è la facoltà principale dell’uomo, cioè la capacità di annodare, stabilire o scoprire nessi, cogliere le relazioni spaziali e temporali e disvelare la sequenza di causa ed effetto […] il filo di Arianna che congiunge Logos a Religio.
Perché la tradizione ha la stessa radice di Logos, di Comunità, di Religione e di Destino: in tutti l’elemento cruciale è il legame (lègein) (Marcello Veneziani, Di padre in figlio). Ed è nuovamente Veneziani ad ammonirci, con le parole di Guénon stavolta, a non confondere la tradizione con la consuetudine, come purtroppo spesso accade a causa dell’ignoranza dell’uomo moderno nei riguardi di ciò che è tradizione nel vero senso della parola, perché dove la tradizione viene a mancare si tende a sostituirla, consciamente o non, con una specie di parodia (René Guénon, Iniziazione e realizzazione spirituale in Marcello Veneziani, Di padre in figlio).

Heidegger poi, avvicinava l’oblìo dell’essere alla spoliazione degli dèi (entgötterung con la possente lingua tedesca) sottolinea Alain De Benoist, il quale aggiunge, utilizzando Tacito come fonte, che i Germani chiamavano sacro il segreto dei loro boschi. Il bosco – che rimanda peraltro al concetto heideggeriano di lichtung, la radura, l’apertura, il lucore dell’essere – è il segreto della tradizione, l’identità perduta con la civilizzazione; con la negazione del segreto degli avi, della terra che ci ha partorito, della sacralità di quella terra, dei suoi boschi. La spoliazione degli dèi altro non è che l’oblìo dell’essere, il passaggio nefasto del pensiero occidentale dal discorso sull’essere a quello sull’ente. In breve: l’annichilimento della tradizione che traspare nei diversi livelli di interrogazione del mondo, non inteso come mero deposito di realtà utensili, ma come il luogo nel quale il tempo, a sua volta non inteso in senso matematico e lineare, si fa garante dell’esperienza dell’essere attraverso il divenire.
Heidegger è un filosofo della tradizione che intuì la differenza ontologica fra una filosofia dell’essere, legata a doppia mandata alla comprensione filosofica dei primi filosofi greci, ed una filosofia dell’ente, cui fa riferimento il pensiero occidentale dai presocratici in poi, tanto che a un certo punto del suo cammino teoretico, dopo “Essere e tempo”, inizia la sua “svolta”, la kehre, spostando il baricentro della sua ricerca dalla verità dell’esistenza, derivata dall’esserci (l’uomo), alla verità originaria dell’essere. O come direbbe ancora Michele Federico Sciacca, andando oltre gli entes particolari. Il senso profondo della tradizione – ribadisce – quello che direi metafisico-ontologico, è proprio questo: sentire, pensare, volere e agire nell’infinito dell’essere (M.F. Sciacca, Gli arieti contro la verticale).

Ma Heidegger non meno di Evola e Guénon, di Spengler e di Nietzsche è un acuto diagnosta del tramonto dell’Occidente, definito in Sentieri interrotti” come il momento in cui la notte del mondo va verso la sua mezzanotte: nessuna esperienza esoterica a differenza di Evola e Guenon, nessuna analisi socio-biologica come Spengler e nessuna affabulante “filosofia del martello” come Nietzsche. L’unica “trasgressione” estetizzante è nei confronti della poesia (“un amore comunque non corrisposto”, secondo Pietro Emanuele) con la quale cercherà il senso dell’essere, caduto nella storia. Ed è a quel punto che cercherà l’innocenza del sacro, perché, come ci indica Mircea Eliade,il sacro è saturo d’essere”. Quel sacro depauperato dal tempo storico lineare, dalla rivelazione ebraico-cristiana e dalla ragione, “il più omicida dei monoteismi”, per dirla con Gilbert Durand. Tutte queste esperienze che assistono alla caduta del sacro nella storia, alla riduzione dell’essere a ente, all’oblio della verità dell’essere, al retaggio biblico che influenza la metafisica occidentale, alla razionalizzazione della “temporalità segreta” dell’essere, rappresentano l’abbandono di un ‘pensiero meditante’, che in quanto tale, meditando su se stesso, avverte la propria prigionia in una regione che non riconosce più i cardini della tradizione, che della regione ontologica è la scaturigine e il sostrato.

La desacralizzazione e l’oblio dell’essere sono la punta massima di storicizzazione del mondo, che ha prodotto oggi la globalizzazione e il pensiero strumentale-mercantilistico, il tramonto della tradizione occidentale, complice la tecnica. Quella tecnica che è intesa da Spengler come tattica della vita, strumento di lotta e di affermazione riscontrabile anche negli animali, che è poi il “destino dell’uomo occidentale, cioè dell’uomo faustiano”. Però l’affermazione della volontà di potenza dell’uomo faustiano attraverso la tecnica, provoca una rottura fra l’uomo stesso e le leggi della natura, in modo che la “tattica”, diviene oltre che la potenza titanica dell’uomo, il suo limite più insidioso.
D’altronde Heidegger (Sentieri interrotti) commentava con una certa preveggenza:

[…] è invece l’essenza incompresa della tecnica che incominciò a minacciare i nostri padri e le loro cose.

La tecnica ad ogni modo non è invenzione recente, figlia prediletta della scienza e dei Lumi; relativamente recente è semmai la problematizzazione dei suoi esiti. Tant’è che gli antichi definivano con la parola téchne, da noi tradotta riduttivamente con “arte”, un insieme di abilità e le regole ad esse connesse, utili e indicative per l’attività umana:

Con la parola téchne i Greci indicavano ogni abilità, conseguita per mezzo di un’applicazione cosciente, che conferisse all’uomo un dominio sulle cose e sugli uomini,
spiegano G. Flores d’Arcais e L. Stefanini.

Anche se non in questi termini storicamente maturi, un filosofo di rottura per i suoi tempi, Karl Marx, attaccò la logica capitalistica e la tecnica disumanizzante, attraverso la quale l’uomo smette di essere uomo e diviene cosa fra le cose: la macchina, lo strumento, non mediano più, venendo meno al proprio compito che è quello, appunto, di mediare l’attività dell’operaio nei confronti dell’oggetto. Pertanto, a differenza dello strumento che l’operaio anima” grazie alla “propria attività e abilità, ora è la macchina che possiede abilità e forza al posto dell’operaio, riducendo l’attività di quest’ultimo ad “una semplice astrazione… regolata da tutte le parti dal movimento del macchinario. Tale situazione viene spiegata chiaramente da Adorno ed Horkheimer in “Dialettica dell’Illuminismo”, i quali presentano il loro libro come una genuina (e cruda) analisi della società tecnologica contemporanea, la quale, partendo dall’assunto di Bacone che intendeva estendere i confini dell’impero umano ad ogni possibilità, piuttosto che abolire miti ne crea altri e ben più insidiosi. In guisa che l’Illuminismo fa scadere il sapere da critica a tecnica, complici la ragione strumentale e il pensiero amministrativo.

Il problema della tecnica viene affrontato ancora da Heidegger, il quale dal punto di vista della speculazione filosofica è senz’altro più raffinato di Spengler. Egli affronta la tecnica dall’ottica del filosofo che assiste all’eclisse dell’essere e nel far ciò usa il termine “Ge-stell” per descrivere l’essenza della tecnica, laddove il prefisso Ge sta per “insieme” e il verbo stellen significa invece “porre”, quindi “totalità del porre tecnico” a detta di Giovanni Fornero. Ma la traduzione corrente è ancora duplice, ovvero “impianto” (come fa Volpi), o “im-posizione” (come fa Vattimo), nel senso che la natura viene ridotta a “fondo”, riserva di energia pronta per l’uso: Quell’appello pro-vocante che riunisce l’uomo nell’impiegare come fondo ciò che si disvela, noi lo chiameremo gestell, chiarisce in Saggi e discorsi del 1954.

L’illusione tutta faustiana che l’uomo producendo la tecnica ritrovi se stesso fa dire al filosofo tedesco che, in realtà, tuttavia, proprio se stesso l’uomo di oggi non incontra più in alcun luogo: non incontra più, cioè, la propria essenza.
In verità l’uomo ha dimenticato il problema centrale della sua esistenza, aggiunge Piero Di Giovanni (Etica, politica e metafisica, in: Heidegger e la filosofia pratica) che non è un problema semplicemente pratico o speculativo; l’uomo moderno misconosce e disconosce la comprensione dell’essere che costituisce la finitezza dell’esserci.

Massimo Fini (Il vizio oscuro dell’Occidente), spietato critico della civiltà occidentale ormai decaduta a poco più di una formuletta ad uso e consumo dei barbari accademici, ci parla per via indiretta della perdita (e della sua negazione) di ciò che è una società fondata su valori tradizionali:
L’uomo che vive nel migliore dei mondi possibili sconta poi una paurosa perdita di identità. L’omologazione è una conseguenza ovvia della globalizzazione e della mondializzazione che esigono e presuppongono una omogeneità; omogeneità di stili di vita, di consumi, di istituzioni […] legittimata da un pensiero totalitario che si ritiene portatore del Bene […] distruggendo culture, lingue, specificità, territori…

La tradizione segue un tracciato ideale che ruota intorno a capisaldi ben precisi, che qui abbiamo appena toccato. E come ci rammenta Adriano Romualdi:
Quel che separa il mondo tradizionale dal mondo moderno, è che, mentre quest’ultimo si fonda sui criteri dell’utile e del tempo, il primo si riferisce ai valori del sacro e dell’eternità.
E ancora Marcello Veneziani:
La tradizione è dunque una cultura nel senso più ampio dell’espressione. Non un’opera intellettuale, ma una visione del mondo e un’interpretazione del tempo, che permea una mentalità (o forma mentis) e anima una civiltà (Kultur).

 

Claudio Zarconeeno

 

La sconfitta del pensiero: quando l’uomo rinuncia a comprendere il mondo e crede di poterlo plasmare a propria immagine

L’uomo ha rinunciato alla comprensione del mondo, crede di poterlo plasmare a propria immagine con potere demiurgico, di doverlo trasformare in direzione dell’utile immediato, di qualcosa di produttivo, tutt’al più di informativo, mai di formativo: bombardarci di informazioni, pressanti, continue, veloci, per non informarci di (e su) niente, nel quadro finale disegnato dall’homo videns. Dall’homo digitans. Varianti dell’homo communicans. Varianti di un pensiero atrofizzato ormai incapace di leggere e studiare, assopito, adagiato sulla comodità del blog, del link, dell’immagine, del social, del tweet: pochi caratteri per dire, commentare, partecipare a un dibattito. Pochi caratteri per dire ciò che avrebbe bisogno di approfondimento, competenza, letture. Ecco allora un mondo nel quale il mito della velocità ci dà l’impressione della conoscenza in tempo reale, quando, diversamente, assorbiamo il mero fluire limaccioso di immagini che non riusciamo a interrogare, comprendere. Non ne siamo capaci per difetto di passione, curiosità, per ignoranza della grammatica e della sintassi di quello stesso mondo che pretenderemmo di trasformare: meglio le sue immagini riflesse, più comodo per la pigrizia mentale che ci attanaglia tutti. Così i fantasmi di una realtà a noi ignota nel suo dipanarsi, assurgono a totem di quella realtà medesima che vorrebbero comunicarci come vera, giusta, autentica, solidale, laddove sono allineati – feticci dell’Assoluto più dispotico e prepotente mai visto in millenni di storia – i valori liturgici che sorreggono la nuova Teologia della socialità obbligata.

Philippe Muray ha definito in maniera esemplare tale concezione come Impero del Bene, laddove non vi è più spazio e diritto di cittadinanza per l’enigma, il totalmente altro, il differente punto di vista, l’opposizione, la seduzione del negativo (povero Nietzsche), destrezza, ebbrezza del brivido, vertigine dell’ignoto, per cedere il passo all’imperativo paranoico di una democrazia fondata su simulacri e finzioni. Allineamenti appiccicosi, nello stesso tempo persecutori di ogni individualità, di ogni pensiero autonomo. Quindi un sistema di cose nuovo e cremoso ha sconfitto su tutti i fronti il Male, grazie alla Banca Mondiale dei diritti dell’uomo che attraverso il linciaggio (dell’altro, del differente, del non omologato, del dissonante), ha creato la nuova socialità 2.0 (o 3.0, 4.0…). Un più moderno Illuminismo – avamposto della nuova bontà – che ci conduce contro sessismo, razzismo, discriminazioni di ogni tipo, maltrattamenti di animali, traffico d’avorio e di pellicce, responsabili delle piogge acide, xenofobia, inquinamento, devastazione del paesaggio, tabagismo, pericoli del colesterolo, aids, cancro eccetera eccetera.
Così dobbiamo quasi vergognarci di essere carnivori, di amare il circo con gli animali (nel ricordo dei nostri anni giovanili), di essere eterosessuali, bianchi; di avere un lavoro, un’istruzione, di credere al conflitto e alla lotta intesi come terreno della dialettica civile, di volere una famiglia nel rispetto della tradizione dei padri, come essi avevano e ci insegnavano; di aver avuto una madre e un padre (e non genitore 1 e genitore 2), di pensare che la competizione onesta e leale sia un valore nella vita, di reputare l’odierno sistema scolastico come una fabbrica di potenziali ignoranti (tutti promossi, tutti somari), di credere a ragione veduta che un professore vecchio stampo valga più di un’intera fabbrica di computer e di tutte le connessioni in fibra del mondo. Dobbiamo vergognarci, siamo colpevoli di aver accettato l’antica socialità, quando in ogni cosa si celava ancora il Male nelle sue infinite sfaccettature. Siamo liberi e benefici oggi: viva la libertà, viva l’amore (che vince sempre, eh!), viva l’Open day nelle scuole-aziende! viva il Nulla socializzato!

La nuova Teologia della socialità obbligata e la tirannia della verità comunicata (esse coincidono più di quanto immaginiate) ci danno la possibilità di reperire velocemente informazioni disparate con l’uso integrato di media, immagini e testi contenenti l’idolatria di questa realtà manipolata alla radice; ci inducono a pensare che viviamo il passaggio da una sottomessa cultura passiva a una emancipata cultura partecipativa; ad una più complessa e, aggiungo io, sofisticabile, intelligenza collettiva cui guardare da nuovi illuminati. Ma questa mistificazione (concettuale e pratica) ha il fine di organizzare la mente e la conoscenza in una sola direzione: quella impressa dai custodi, dai guardiani, dai legionari dell’inganno libertario. Dai cantori del nichilismo che ci vendono a poco prezzo. Anzi, ci regalano come il più utile e gradito dono, la conquista più grande. La hybris più completa e degenerativa della cultura occidentale ormai ha assimilato in sé, come valori assoluti, la schizofrenia identitaria, il nichilismo totalizzante, la svalutazione della memoria dei popoli (dove ogni cosa viene fatta confluire in un calderone di qualunquismo sociologico e antropologico), il terzomondismo ideologico. E badate, vi scongiuro, non fatemi apparire come un becero intollerante.
Il mondo non è più il mio mondo, come me lo hanno consegnato gli avi, bensì una controfigura in senso globalistico che vorrebbero farmi assumere – inondandomi di immagini e prescrizioni sempre più veloci e inintelligibili – come l’unico mondo possibile in una società civile, caritatevole, morale, armoniosa, umana (“Restiamo umani” è uno degli slogan), della fratellanza universale sotto la spinta del Papa ‘rivoluzionario’ e gli esempi dei governi ‘liberi’ a Sud del mondo, al passo coi nostri tempi. Al passo col Bene, col Sorriso, con l’Empatia universale, con la libertà di essere liberi sotto il vessillo della velocità, della fibra ottica, del tempo reale e, più giga, tera hai, più mondo avrai; più sarai ipocrita e solidale, più sarai alle porte del Regno dell’Infinita Umanità. Maleodorante carosello di luoghi comuni e banalità un tot al chilo. Nessun Sud del mondo, quindi, siamo tutti Nord. Siamo tutti liberi, umani, carnefici del Male (che fortunatamente è solo un ricordo).

Il nostro, purtroppo, è un mondo perversamente cibernetico, che ricade appieno negli ambiti di quella scienza del controllo e della comunicazione, secondo la definizione di cibernetica proposta da Norbert Wiener, ritenuto il “padre fondatore” di tale scienza, oggi, più patologia oncologica, che conoscenza ontologica, sapere, disciplina, scienza, nella loro accezione originaria. La Bellezza poi, non è altro che la musealizzazione della stessa. E ciò vale anche per la Bellezza della natura. Nessuno che si sforzi di capire i primordiali dettati etici, oltre che estetici della Bellezza, della Natura. Ormai semplici cose da esibire, delle quali e in nome delle quali ci si sente autorizzati a disquisire cazzata su cazzata, senza penetrarne l’intima essenza (Ah Novalis! Dove sei?). E quale filosofia potrebbe mai consolare questa filosofia dell’omologazione?
Anzi, quale filosofia dovrebbe consolare l’uomo di questo secolo, già fiduciario e segnacolo – per usare un modo di esprimersi indù – del kali-yuga, l’età oscura che copre il mondo col velo della nera dea Kali?

«Quei greci, tutti omosessuali…
A: Socrate è un uomo
B: Ogni uomo è mortale
C: Ogni uomo è Socrate
Quindi ogni uomo è omosessuale»
Woody Allen – Sillogismo di “Amore e Guerra”
«FILOSOFO: [Altro sillogismo] I gatti sono mortali.
Ma anche Socrate è mortale. Dunque, Socrate è un gatto.
VECCHIO SIGNORE: Socrate dunque era un gatto.
FILOSOFO: La Logica ce l’ha appena dimostrato.
VECCHIO SIGNORE: Però, è bella la Logica.
FILOSOFO: Sì, ma a condizione di non abusarne»
Eugène Ionesco – Sillogismo e dialogo de “Il Rinoceronte”
«A: Tutti i tedeschi sono uomini
B: Angela Merkel non è un uomo
C: Quindi Angela Merkel non è tedesca»
Esempio di Sillogismo Barocco

Perché questi sillogismi? Non è per sfoggiare qualcosa, non ho nulla di cui fare sfoggio, tranne la mia malinconia sofferente. Tra l’altro questi sono sillogismi “birichini” che trasgrediscono la regola del sistema architettonico altamente organizzato da Aristotele col suo procedimento logico, quantunque esprimibili nella loro veste formale, sia pur con risultati paradossali, esilaranti. Ricorderete che per il filosofo greco il sillogismo – inferenza fra due premesse e una conclusione – era il modello perfetto di ragionamento deduttivo, il fondamento tecnico di ogni scienza dimostrativa (così, detta alla spicciola, è evidente, no?). Quindi, chiedo ancora, più a me stesso che a voi: perché questi sillogismi? Per dire, con l’ironia di quegli esempi stravaganti, che il pensiero dei nostri tempi, un pensiero massacrato dal più inverecondo utilitarismo di dozzina, mercificato, fondato su “assoluti mercantilistici e finanziari”, è un pensiero che ha perduto capacità di interrogazione, di penetrazione, di stupore, di interpretazione e spiegazione del mondo, anche attraverso il paradosso e l’assurdo dell’argomentazione. Una concezione culturale che ha messo in un cantuccio Omero e Dante, per la quale contano i salotti televisivi, le “belle voci”, i “bei colori”, le “belle opinioni”, dove il saper fare si è capovolto nella coazione a dover fare. Un dover fare alieno di qualsivoglia idea in sé, maturata, compresa. Un pensiero assillante, maniacale, illogico, quantunque segua una sua logica mostruosamente opportunista, che ha declassato il nostro cervello a un ammasso meccanico formato da ingranaggi, mentre i nostri neuroni si comportano come supporti informatici di un calcolatore elettronico. Processori cerebrali che elaborano le informazioni registrate dal programmatore in quel software. Certo, lo so, l’ottimista di turno obietterà che il pensiero non ha mai smesso di pensare, che anche oggi numerosi filosofi, romanzieri e fisici sopraffini si interrogano su scienza e conoscenza. Ma è la prospettiva a essere cambiata.

L’uomo si è modificato purtroppo in un semplice consumatore di prodotti creati dal delirio di onnipotenza del mercato, dei mercati economici, azionari, commerciali, culturali, religiosi, eccetera. Una società succube del progressivo, imperante, colonialismo finanziario, di un industrialismo che pesa sulle nostre teste più di una sentenza dell’Inquisizione. Un uomo lasciato solo con i simulacri tribali di questa modernità votata alla perversione di una pruderia mielosa, appiccicosa come la colla per catturare i topi; fatta di immagini che ci rendono abulici e incapaci di guardare oltre quelle fotografie manipolate sapientemente alla base. Un uomo disumanizzato nel nome di un’idea sociale posticcia, educato alla scuola del conformismo, schiacciato dal bisogno di approvazione e di successo, abitante di un mondo governato dalle apparenze, spogliato della propria individualità, solo e disarmato nella moltitudine che gli si affolla intorno. Quel soggetto definito pensante (forse mendicante del pensiero), oggi logorato, sfibrato dallo spettacolo, dalla comunicazione spettacolare degli eventi, dall’ipnosi volontaria, privato della sua capacità di logica e di pensiero, intrappolato all’interno di miti universali, che non sono in nessun modo manifestazioni del sacro, dis-velamenti ontologici, parole che raccontano il mondo nella sua “temporalità segreta”, che si riappropriano del mondo medesimo e della temporalità non lineare. Solo immagini proiettate sul muro della nostra mente ormai inaridita, come i prigionieri della caverna platonica. E quando filosofi, romanzieri e fisici sopraffini credono di mostrarci il mondo, non si rendono conto che il mondo imposto alla nostra fruizione, è un mondo di forme che utilizziamo passivamente, complici più o meno consapevoli di quel delirio di onnipotenza del mercato delle immagini e dell’idolatria consumistica.

Nessun sapere, privo di sapienza, potrà mai, più, paragonarsi alla bellezza di un sillogismo aristotelico o all’intreccio di virtù e conoscenza di un dialogo platonico, per non tacere della profondità di un aforisma di Nietzsche e della magnificenza di un verso dantesco. E non vado oltre, registrando però, a mio malincuore, che gli stessi rapporti fra gli uomini sono regrediti a relazioni formali fra gli stessi, con l’aggravante di essere (noi tutti) “brutalizzati” da aggressive ideologie umanitarie, astratte (anch’esse formali), alle quali non puoi opporti in adesione al “politicamente corretto”, che in quanto astratte, formali, sono una forma di totalitarismo al servizio del mercato, dei mercati, delle ideologie dell’oblio. Dei mercanti della cultura e della politica. Dei telepredicatori. Dei moralisti. Dei servi acquiescenti. Dei monopoli religiosi. Delle chiese laiche. Di quella “cultura del piagnisteo” (concetto espresso da Robert Hughes in un libro dall’omonimo titolo), “cadavere del liberalismo degli anni Sessanta” e “frutto dell’ossessione per i diritti civili e dell’esaltazione vittimistica delle minoranze”. Di una barbarie che ci appartiene e ci domina. Lo stesso Hughes non esitava a scrivere:
I barbari tuttofare che oggi vanno per la maggiore si chiamano multiculturalisti.
A tutto ciò che rinnego hanno dato l’odiosissimo nome di politically correct, forma di lebbra sociale che ci devasta con le sue pustole. Quanto di più ipocrita e oppressivo possa aver inventato l’etica così poco libertaria dell’attuale società fondata sui mercati finanziari e il profitto, sul potere delle tecnocrazie bancarie e burocratiche, laddove non esistono più identità culturali e tradizioni. Laddove globalismo e globalizzazione (concetti aberranti, massificanti, liberticidi, che ci imprigionano in una cella invisibile) vengono spacciati per valori universali, universalismo. Col ‘piagnisteo’ a corredo.

Già, la triste “comunità umana” dei viaggi low cost e delle offerte last minute, del business plan e della Whatsapp generation. Un’impalpabile “comunità umana” senza volto, che ritiene valori universali ciò che invece reputo dis-valori, tenuta insieme dal mito della comunicazione globale (un’ottusità di fini e della comprensione delle cose); che ha bisogno di un continuo “trattato di pace” per poter vivere le illusioni quotidiane che ci insinuano nell’animo, lentamente, i Signori della guerra: «Ecco, vi ho dato il potere della conoscenza in tempo reale», ci dicono le sentinelle del nulla globalizzato, i custodi dell’intelligenza collettiva divenuta valore supremo. E mentre fanno questi proclami e ufficialmente studiano la politica per la pace (dopo averci donato il “fuoco” della comunicazione, della velocità e, a sostegno di tali “doni”, gli anglicismi più vuoti e inutili), nella penombra dei loro antri sulfurei decidono quale guerra combattere dopo averla “santificata” (tuttavia la più conveniente). Stabiliscono cosa farci immagazzinare in termini di valori e informazioni e quale trattato di pace stipulare per farci coltivare la certezza che viviamo al sicuro, nel migliore dei mondi possibili, nella democrazia più vera, moderna. Quella stessa democrazia che come Occidente decaduto, tramontato rispetto alle radici che lo avevano fondato, dobbiamo poco democraticamente esportare ad ogni costo in tutto il mondo.

Nei fatti, una colonizzazione di popoli, tradizioni, culture antropologiche e religiose nel nome di un’idea astratta, come è astratta la democrazia imposta con le armi, anch’esse santificate dai promotori di autenticità democratica, che sono poi gli stessi fabbricanti di armi e di morte: anche se si sta parlando di “morte democratica” e nel nome del valore supremo. Siamo tutti propaggini di questo guardare avanti senza scopi e identità, tutti così simili, fragili, ipnotizzati dentro le illusioni di un social network. In modo che il nostro tweet, da noi creduto un importante cinguettio, una “parola detta” in pochi caratteri, è appena, tirandola per le orecchie, una parola afona, fiacca, soffocata dalla sua stessa parvenza di espressione. Una parola tradita in partenza dal suo volersi legittimare come parola, non perché breve, ma perché non racconta, non “dice”; perché rispecchia l’omogeneizzazione culturale verso il basso, la prigionia dell’uomo dentro un pensiero acefalo. Però moderno, santificato.

Non ci stiamo ad essere folla, anonimo fra gli anonimi, soggetto incapaci di esprimere un pensiero proprio, ostaggio di best seller e premi Nobel assegnati per meriti spesso inesistenti. Rileggiamo Gioberti, uno che non piacerebbe a molti, uno che non sposerebbe nessuno dei pensieri cardine di questa società fondata su assoluti ingannevoli, ipocriti, multiculturali. Pugnalate pure a tradimento, conficcate le vostre lame dentro le nostre carni, tanto siamo degli sconfitti. La gente ama assistere alla sconfitta altrui, ama vedere l’altro in ginocchio. Lo chiama amore per il prossimo. Ovvero, il prossimo che sarà messo in ginocchio.

 

Fonte: https://www.lintellettualedissidente.it/societa/conformismo-politically-correct/

Malnutrizione e come combatterla. Vincenzo Armini e il suo progetto NutriAfrica

La malnutrizione sembra essere un problema eterno che, oggi come ieri, riguarda una mole sempre più numerosa di persone, bambini in primis. C’è chi si impegna a raccontare cosa accade nel mondo e chi prova davvero a fare qualcosa di concreto.

Il giovane ricercatore Vincenzo Armini sta lavorando attualmente al progetto NutriAfrica  e crede fermamente che molto si possa fare per rivoluzionare le condizioni di vita in alcune zone tristemente note per casi di MAS e conseguente mortalità.

Dedizione e sacrificio sono sicuramente armi vincenti, assieme alla tenacia e alla forza di volontà. Ma tutto questo non basta, per cambiare le cose servono fondi.

 

 

1. La prima domanda da cui credo sia necessario cominciare, almeno per chi non mastica la materia, è: Che cos’è esattamente un RUTF?

 

Penso sia una domanda del tutto pertinente! RUTF è un acronimo che sta per “Ready-to-Use Therapeutic Food”, cioè Alimento Terapeutico a Rapido Utilizzo. Si tratta di una pasta molto simile al burro d’arachidi, con proprietà nutrizionali avanzate per supportare il miglioramento delle condizioni di salute dei bambini al di sotto dei 5 anni affetti dalla Malnutrizione Acuta Severa (MAS). In particolare, si adopera per curare gli stati lievi e intermedi della MAS, senza complicazioni cliniche, direttamente in villaggio, al fine di sfollare gli ospedali e consentire al personale sanitario di occuparsi dei soli casi con complicanze.

 

2. Ci parli dell’idea su cui sta lavorando. Innanzitutto, cosa l’ha spinta ad intraprendere questa strada, non facilmente percorribile, della ricerca?

 

La ricerca cui sono appassionato è quella vecchio stampo, pionieristica rispetto a nuovi filoni, ambiziosa, ma soprattutto votata al miglioramento effettivo delle condizioni di vita degli esseri umani. Oggigiorno, invece, assistiamo sempre di più all’affermazione di una ricerca tecnocratica e mecenatistica, dove si deve enucleare in partenza quali siano gli obiettivi, con annesse le spese previste per raggiungerli, pena il non finanziamento da parte dell’operatore pubblico europeo e/o del privato coinvolto.  E’ tutto calendarizzato, programmato, settorializzato, spezzettato, incastonato in compartimenti stagni, dove la speculazione intellettuale e tecnica della ricerca sono messe molto, molto indietro. Dunque, mi sono convinto di portare avanti quanto iniziato durante la mia Tesi Magistrale su un prototipo alternativo di RUTF, facilmente riproducibile direttamente in loco, dove c’è bisogno, con una tecnologia produttiva semplice ed efficace. Senza mecenati alle spalle. Senza soldi. Senza sponsor. Mi sono presentato al concorso di dottorato di ricerca in Scienze Agrarie e Agroalimentari nel 2014 e ho vinto. Da allora, ho dovuto fare i salti mortali per trovare i mezzi per proseguire, ma non demordo.

 

3. Crede che oggi il mondo si stia dimenticando di quei problemi che da sempre lo affliggono come, appunto, la malnutrizione? Quali sono le aree maggiormente colpite da questa patologia?

 

Credo che alla globalizzazione dei mercati debba necessariamente fare da contraltare la globalizzazione dei diritti e l’accesso agli alimenti è uno di quelli primari per gli esseri umani. Il mondo è concentrato sempre di più a focalizzare l’attenzione sul profitto e sull’efficienza, spersonalizzando le menti e le professionalità, depauperando di creatività e inventiva le arti e i mestieri. Stiamo andando verso una direzione perversa e alienante, in cui ciascuno di noi non pensa più per conto proprio, ma adoperando degli strumenti preconfezionati. Attualmente, nel mondo circa 800 milioni di persone sono malnutrite e di queste 160 milioni sono bambini, soprattutto nella zona Sub-sahariana ed equatoriale in Africa e nel sud-est asiatico.  

 

4. Quanto è stato fatto dalla Medicina fino ad ora per affrontare il problema della malnutrizione? In Uganda, dato che ha avuto modo di verificare con i suoi occhi ciò che nemmeno immaginiamo, lo affrontano? E in che modo?

 

Il punto è che la Medicina fa quel che può, nel proprio ambito di operatività. Oggigiorno, con l’alimentazione artificiale per i soggetti con complicazioni cliniche, è possibile avere ottime speranze di recupero per le persone affette da MAS, a meno che non siano persone affette da patologie molto gravi in stato avanzato. In Uganda, si fa quel che si può, ma come è lecito immaginare, le strutture adibite al recupero della MAS con complicanze sono carenti e, spesso, fatiscenti. Il vero problema è una distribuzione troppo disarmonica della ricchezza e delle opportunità. Bisognerebbe lavorare soprattutto su quello e la nostra idea è proprio provare a insistere su questo aspetto: su un’emancipazione effettiva e sulla sostenibilità.

 

5. Perché dovremmo credere nel suo progetto e finanziarlo?

 

Il progetto è basato sulla piena sostenibilità economica della tecnologia produttiva presso i paesi in via di sviluppo, per cui si tratta di un approccio innovativo, dal momento che non si persegue una strada assistenzialistica, bensì costruttiva e concreta.

 

6. Fino ad adesso, che tipo di risposta ha avuto dalle persone? Insomma… come sta andando?

 

Sono piacevolmente sorpreso dalla risposta dei donatori che hanno, in poco più di tre mesi di lavoro, contribuito alla raccolta di 6.640 euro (ultimo dato aggiornato a oggi, 26/03/2017). Pur essendo ancora abbastanza lontani dal nostro obiettivo di 50.000 euro, siamo fiduciosi di raggiungerlo in tempi non troppo larghi.

 

Saluto l’esaustivo Vincenzo e lascio qui di seguito, per i lettori interessati a contribuire alla realizzazione del progetto, la pagina facebook dedicata alla Raccolta Fondi NutriAfricahttps://www.facebook.com/raccoltanutriafrica/?fref=ts

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