“Aoxomoxoa”: la parola magica dei Grateful Dead

Aoxomoxoa-Warner Bros.-1969
Aoxomoxoa-Warner Bros.-1969

Per chiunque volesse capire quale fosse l’atmosfera di San Francisco sul finire degli anni ’60 e quale fosse il suono della West Coast durante quei magici giorni, Aoxomoxoa è il disco che fa per voi. Un’opera allucinata e allucinogena partorita direttamente dalle viscere di Haight Asbury traboccante di effluvi acidi provenienti dal Golden Gate Park e di tensioni sessantottesche della vicina San Francisco State University. Già dalla epocale copertina (siamo sui livelli di Sgt.Pepper in quanto a significati nascosti) ad opera del maestro Rick Griffin, s’intuisce il contenuto dell’album. I colori accesissimi, i teschi, i feti stilizzati, il nome della band scritto in caratteri psichedelici, un sole accecante, i funghi e le piante “magiche” rimandano alla più classica simbologia della controcultura hippie mentre “la parola” Aoxomoxoa, un palindromo il cui significato non è mai stato completamente chiarito, richiama alla mente formule magiche, mantra di meditazione e significati esoterici. Demiurghi di cotanto splendore i Grateful Dead, vera band simbolo della Summer Of Love. Resi celebri dalle loro fantasmagoriche performances agli acid-test organizzati da Ken Kesey e Robert Hunter, durante i quali improvvisavano per ore sotto l’effetto di LSD, i Dead erano abituati a comporre ed incidere in totale libertà senza alcun riguardo per il minutaggio, l’armonia e l’orecchiabilità del prodotto finale. Con Aoxomoxoa finalmente riescono a trovare il giusto compromesso tra sperimentazione e commerciabilità dando vita ad un album strepitoso. Scompaiono le lunghe jam strumentali ed i medley per lasciar spazio a brani di durata decisamente più “normale” molto più adatti ai passaggi in radio o alla formula del 45 giri. Nonostante queste ovvie limitazioni la carica psichedelica e sovversiva della band rimane sostanzialmente intatta.

“Nessun’altra musica esprime uno stile di vita così delicato, amorevole e vitale” (Rolling Stone-1969)

L’incontro tra rock e spiritualità in St Sthephen, la gioiosità di Dupree’s Diamond Blues, la voce effettata e tremolante in Rosemary, l’etereo organo in Doin That Rag, la straniante, lisergica e monumentale Mountains Of The Moon, la criptica e dissonante China Cat Sunflower, l’ipnotica e spettrale What’s Become Of The Baby, la rivisitazione in chiave acida del blues in Cosmic Charlie, sono tutte tappe di un unico grande trip al centro del più importante sballo musical-culturale di fine secolo. I testi, ricchi di immagini simboliche, citazioni letterarie, allusioni alla cultura della droga, ben si adattano all’ecletticità della musica che si fa tenera, violenta, sognante, cantilenante o assolutamente inquietante a seconda delle necessità e delle sensazioni. Tecnicamente i Grateful Dead danno prova di grande perizia forgiando suoni e colori inediti, trovando soluzioni armoniche all’avanguardia, cimentandosi con strumenti inusuali, fino a comporre un variegatissimo caleidoscopio sonoro di enorme impatto e innegabile bellezza. Certo, a distanza di anni, quest’album può apparire datato e indissolubilmente legato al periodo storico in cui è stato generato, ma il fascino ed il valore artistico assoluto rimangono intatti anche a quasi mezzo secolo di distanza.

Jerry Garcia leader dei Grateful Dead

Questo grazie alle voci ed alle chitarre di Jerry Garcia e Bob Weir, alle tastiere di Tom Constanten e Ron “Pigpen” McKernan, alle percussioni di Mickey Hart e Bill Kreutzmann, al basso di Phil Lesh, che da semplice “comune hippie” hanno saputo evolversi, con il loro talento e la loro abilità, in uno dei più grandi gruppi di tutti i tempi in grado di smuovere milioni di fans in tutto il mondo. Negli anni a seguire i Grateful Dead cambieranno drasticamente registro (anche forse per scelte di natura commerciale) abbandonando la psichedelia per orientarsi verso un più rassicurante folk-rock (con risultati peraltro eccellenti vedi i successivi Workingman’s Dead e American Beauty) in grado di proiettarli nella parte alta delle classifiche ma il loro momento più alto ed ispirato lo si può trovare tra i solchi di questo disco realizzato quando erano ancora i signori incontrastati della scena musicale californiana; i rivoluzionari e lisergici paladini del movimento hippie, gli unici in grado di tramandarne ai posteri la meraviglia, l’importanza e la grandezza.

“Deja Vù”: l’apoteosi dei CSN&Y

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CSN&Y: musicisti fantastici dotati di inarrivabile talento ma anche di un ego smisurato e di una personalità irrimediabilmente erratica. Uno dei più grandi quartetti della storia del rock è nato un po’ per caso dalla fusione di quattro temperamenti e stili musicali assolutamente diversi ma complementari. Stephen Stills, proveniente dai Buffalo Springfield, David Crosby, licenziato dai Byrds, Graham Nash, ex Hollies, decidono, nel lontano 1968, di unire le proprie forze per dar vita ad un trio basato sulla perfetta amalgama tra chitarre e voci. Dopo un ottimo debutto dall’omonimo titolo, targato 1969, i tre decidono di includere in formazione Neil Young, già compagno di Stills nei Buffalo Springfield, capace di aggiungere una notevole spinta sia creativa che vocale e strumentale alla già enorme cifra stilistica dei compagni.

Dejà Vu- Atlantic Records- 1970

Con questa nuova formazione partecipano al festival di Woodstock suscitando lo stupore e la meraviglia di colleghi e pubblico, grazie ad un repertorio sospeso tra folk e rock e grazie ad una performance strabiliante per tecnica ed affiatamento.

“Ho visto Crosby, Stills e Nash fare il culo agli altri, Fanno musica figa, da bivacchi sotto i cieli del West” (Jimi Hendrix-1969)

Lo stato di grazia prosegue per tutto il biennio 1969/1970, merito di altre esibizioni indimenticabili (come quella al festival di Altamont, non inclusa nel film ufficiale), ma soprattutto a seguito della pubblicazione di Dejà Vu, forse il loro album più compiuto. Dietro una cover che strizza l’occhio al vecchio West, si nasconde un capolavoro fatto di blues, folk, country e psichedelia. Ognuno dei membri contribuisce con pezzi di altissima qualità che, sebbene mantengano le loro intrinseche peculiarità, si adattano meravigliosamente alle caratteristiche degli altri tre. Stills fornisce l’epica cavalcata Carry On e la sognante 4+20; Crosby sfodera la sua classe con la tonante Almost Cut My Hair e la splendida Dejà Vu; Nash da il suo contributo con il delizioso folk di Teach Your Children ed Our House mentre Young mette in mostra tutta la sua personalità tormentata con l’implorante Helpless e  la caleidoscopica Country Girl (divisa in tre movimenti: Whisky Boot Hill, Down Down Down, ”Country Girl” [I Think You’re Pretty]). Tra tanto splendore, una memorabile rivisitazione di Woodstock, classico di Joni Mitchell, e Everybody I Love You, a firma Stills/Young, che fa rivivere lo spirito degli ormai defunti Buffalo Springfield. Suoni prettamente acustici, armonie vocali perfette, misurate incursioni nell’elettricità (soprattutto nei pezzi di Crosby) e collaborazioni di lusso quale Jerry Garcia (membro fondatore dei Grateful Dead) alla pedal steel guitar e John Sebastian (dei Lovin Spoonful) all’armonica a bocca, fanno di quest’opera un momento essenziale per il sound della West Coast di fine anni ’60 ed uno dei manifesti più rappresentativi della controcultura hippie. Un successo immediato che fa di quattro oscuri musicisti delle superstars.

CSN&Y in un’immagine recente

 

Una settimana di permanenza in vetta alle classifiche, tre singoli nella Top 40, plauso unanime di pubblico e critica, lusinghieri traguardi che non bastano, però, a stabilizzare il precario equilibrio del gruppo. Le spinte centrifughe non tardano a manifestarsi e, nonostante il successo, la sigla CSN&Y viene momentaneamente abbandonata per far spazio a progetti solisti (Neil Young con After The Gold Rush, David Crosby con If I Could Only Remember My Name, Nash con Song For Beginners, Stephen Stills con l’omonimo album), nuove band (Manassas per Stills e Crazy Horse per Young) e prestigiose ospitate in lavori altrui. Come l’araba fenice, però, il marchio CS&N (con o senza Young) è in grado di risorgere dalle proprie ceneri, nel momento più inaspettato, allorquando ai tre storici componenti torna la voglia di tornare ad incantare grazie alla bellezza immutabile delle loro canzoni. Dei veri e propri monumenti del rock.

“The Doors”: tra Angeli e Demoni

Gran bel periodo gli anni ’60 in California. Durante tutto il decennio si erano avvicendati gruppi fondamentali per la storia della musica: The Beach Boys, The Byrds, The Kingston Trio. Poi la Summer Of Love, l’utopia hippie, gli acid test hanno trasformato il sound della West Coast in una magnifica visione psichedelica. Le cavalcate lisergiche dei Grateful Dead, i “cuscini surrealistici” dei Jefferson Airplane, il “sabor latino” dei Santana e le splendide armonie dei CSN&Y, solo per citarne alcuni, hanno fatto del Golden State il centro nevralgico della nuova avanguardia artistico/culturale. A guidare questa irripetibile stagione musicale è una formazione decisamente atipica per l’epoca, senza un bassista, composta da quattro ragazzi di Venice Beach capitanati da un leader bello e maledetto: lui è Jim Morrison, il gruppo si chiama “The Doors”. Il nome così insolito è preso in prestito da un libro fondamentale per la controcultura giovanile: Le porte della percezione di Aldous Huxley. Immediatamente famosi per i loro show incendiari ed iconoclasti, Morrison e soci sono messi sotto contratto dall’Elektra e nel gennaio del 1967 pubblicano il loro folgorante debutto.

“Mi piacciono i musicisti blues, jazz e country perché non fanno altro che continuare ad esplorare la propria musica. Ciò che conta è che musicisti, poeti e artisti in genere continuino a esplorare il proprio campo d’azione.” (Jim Morrison)

Inciso ai Sunset Sound Studios nell’estate del 1966 ed intitolato semplicemente The Doors, quest’album irrompe con una deflagrazione impressionante nel panorama artistico statunitense grazie al suo suono inconfondibile, alla fusione di generi assolutamente diversi tra loro quali il rock, il blues, lo spanish, il pop ma soprattutto grazie ad una voce tenebrosa e sensuale che canta versi incendiari e tormentati. Già dalla copertina si intuiscono le gerarchie all’interno della band. Il volto efebico di Morrison copre e fagocita le figure intere di Manzarek, Densmore e Kriger relegate in un angolo. Jim è letteralmente il deus ex machina del gruppo, l’uomo senza il quale gli altri non hanno ragione di esistere. Il disco restituisce esattamente la stessa sensazione. Su un tappeto strumentale ipnotico magistralmente fornito dal Vox Continental di Manzarek e dalla Gibson SG di Kriger si inserisce il cantato torbido del Re Lucertola che declama liriche ermetiche, erotiche ed estreme. Il magnifico riff ed i riferimenti alla droga di “Break On Through (To The Other Side), la torrida “Soul Kitchen”, l’onirica “The Crystal Ship”, la martellante “Alabama Song (Whiskey Bar)”, l’arcinota “Light My Fire” (forse il più grande successo del gruppo scritto, peraltro, da Kriger) fino ad arrivare all’epica ed edipica “The End”, rappresentano una nuova frontiera dell’eccesso, una nuova commistione tra musica e poesia ed una nuova interazione tra immagine pubblica e tormenti privati.

Jim Morrison-On Stage-1968

Morrison diviene immediatamente un’icona, un sex symbol, un guru; il sacerdote indiscusso per milioni di ragazzi affascinati dal suo demone interiore che lo porta ad essere una pietra lanciata contro la mentalità borghese, un “angelo con la faccia sporca” capace di sovvertire l’ordine costituito con la sola forza della sua presenza e delle sue parole. Ben presto la vita avrà, però, il sopravvento sulla musica ma la forza rivoluzionaria e la bellezza indiscutibile di quest’opera non possono senz’altro essere dimenticate. L’influenza che ha avuto negli anni a seguire non può nemmeno essere misurata dal momento che i Doors ed il loro capo carismatico hanno semplicemente contribuito a ridefinire i termini di “rock band” e “rock star”. Dopo di loro è cambiato in maniera definitiva il look, il modo di stare sul palco, il rapporto coi media e con le forze dell’ordine, l’immagine pubblica e privata di ogni gruppo che aspirasse ad avere un posto di riguardo negli annali del rock. Dal punto di vista musicale ascoltare quest’album, anche ad anni luce di distanza, riporta alla mente un periodo che c’è stato in cui la fantasia era realmente al potere e la libertà era l’unica cosa che contava.

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