Al via la terza edizione del Premio Internazionale dedicato a Grazia Deledda, il “Galtelli Literary Prize”

Il Comune di Galtellì bandisce la terza edizione del Premio Letterario Internazionale dedicato a Grazia Deledda, l’unica donna italiana ad aver ricevuto il Nobel per la Letteratura. La scrittrice nuorese ambientò il suo romanzo più celebre, Canne al vento, proprio a Galtellì e che ci consegna una Sardegna rurale, superstiziosa, ancestrale. E da questo romanzo trae ispirazione il “Galtellì Literary Prize”, nato con l’intento di valorizzare la poetica deleddiana. «Uno degli scopi che ci siamo prefissi con l’istituzione del Premio nel 2015 è quello di attualizzare la figura di Grazia Deledda e di renderla accessibile a tutti», spiega Giovanni Santo Porcu. «Una scrittrice, tradotta in oltre quaranta lingue, che ci ha omaggiati rendendo protagonista la nostra terra.»

Il premio

Il prestigio di Grazia Deledda a livello mondiale si riflette nell’internazionalità del “Galtellì Literary Prize“, il primo premio letterario di Sardegna con queste caratteristiche: sono infatti ammessi racconti in lingua italiana, inglese, francese, spagnola (sezione A), e sarda (sezione B).

Come previsto dal bando, i partecipanti dovranno approfondire le tematiche care a Grazia Deledda, tutte presenti in Canne al vento: la religiosità, il sentimento identitario, la minuziosa descrizione dei luoghi e dell’ambiente antropologico-culturale, le peculiarità delle classi sociali, finemente tratteggiate dall’autrice.

La consegna degli elaborati, di lunghezza compresa fra le 3000 e le 5000 battute, dovrà avvenire tramite email all’indirizzo deleddaprize@tiscali.it entro e non oltre il 30 luglio 2019. I finalisti saranno annunciati il 30 agosto 2019.
Ai primi classificati delle due sezioni andrà un premio di 1000 euro ciascuno. Tutti i finalisti, quattro per ogni sezione, riceveranno il servizio di organizzazione viaggio per un valore sino a 1000 euro in caso di provenienza extraeuropea e sino a 500 euro per provenienza nazionale ed europea. Saranno inoltre inclusi ospitalità e soggiorno a Galtellì e la pubblicazione dei racconti. Per l’assegnazione del Premio è necessario che l’autore finalista sia presente alla cerimonia di premiazione, fissata per il 19 ottobre 2019 a Galtellì.

Uno sguardo al futuro

La comunità galtellinese mostra gratitudine e ammirazione nei confronti di Grazia Deledda attraverso il Premio ma non solo. Nel 2013, l’amministrazione comunale le ha conferito la cittadinanza onoraria e da diversi anni promuove iniziative volte a tenere sempre viva l’attenzione sull’autrice, tra cui ricordiamo la realizzazione di un suggestivo monumento a lei dedicato.

Iniziative che hanno anche risvolti importanti per il paese, come spiega il sindaco Porcu: «Galtellì sta portando avanti un modello di sviluppo che ci sta dando grandi soddisfazioni. Siamo un piccolo esempio di come la cultura, la storia, l’archeologia, l’architettura — abbiamo un bellissimo borgo — possano avere ricadute, anche economiche, positive.» Un grande progetto di vita — culminante con il “Galtellì Literary Prize” — per l’intera comunità, che partecipa attivamente alle iniziative: «Coinvolgiamo sempre la comunità, la biblioteca e le scuole. Per noi è fondamentale che i giovani, in Sardegna e nel mondo, si avvicinino alla figura di Grazia Deledda. Abbiamo avuto i primi riscontri positivi già nella precedente edizione con la partecipazione al Premio, tra gli altri, di alcuni giovani galtellinesi. L’internazionalità del “Galtellì Literary Prize”, nel contempo, consente di tenere sempre viva l’attenzione su Grazia Deledda affinché le sue opere vengano lette da tutti, in Sardegna, in Italia e nel mondo.» conclude Porcu.

‘Marianna Sirca’ di Grazia Deledda: una storia che brucia di passioni e che spezza le catene del pregiudizio

Marianna Sirca è un romanzo breve del 1915 di quella che è considerata la maestra del verismo romantico, ovvero Grazia Deledda, la cui opera venne subito apprezzata sia da Verga che da Capuana. La storia è incentrata su realtà storico/sociali del primo Novecento e ha per protagonista una giovane donna di origini umili, che diventa ricca grazie all’eredità di uno zio prete. Si innamora di Simone Sole un bandito nuorese povero ma dal carattere forte e deciso che deve saldare il proprio debito con la giustizia; i due decidono di sposarsi ma Marianna chiede a Simone di costituirsi e di scontare la sua pena. Quando tale segreto viene a galla, tutti sono contrari. La casa di Marianna Sirca è sorvegliata dai carabinieri ma Simone sparisce dalla circolazione per non farsi prendere e per non divenire oggetto di scherno da parte degli altri banditi. La ragazza, delusa, lo accusa pubblicamente di viltà e quando il giovane torna per chiederle di ritirare l’offesa, Marianna gli oppone un silenzio ostinato:

Si guardarono, come l’altra volta, in fondo all’anima: e sentivano d’essere un’altra volta pari, pari nell’orgoglio e nel dolore come lo erano stati nella servitù e nell’amore. «Marianna», egli disse, fermo davanti a lei, così vicino che le bagnava le vesti con le sue vesti bagnate, «tu hai detto per me una parola che devi ritirare.» Marianna lo guardava senza rispondere, stringendosi alla porta, decisa a non aprire anche se l’uomo avesse tentato di farle del male. «Rispondi, Marianna; perché non rispondi? Vedi che sono qui e che non sono un vile.» Ella sorrise lievemente, un poco beffarda, guardando lontano e intorno come per scrutare quali pericoli egli aveva attraversato: allora egli le afferrò i polsi, la tenne inchiodata alla porta, parlandole sul viso: «Rispondi! Perché hai detto che sono un vile? Ti ho fatto del male, io? Potevo fartene, quella sera, qui e poi in casa tua, e poi sempre, in qualunque posto, e anche adesso potrei fartene, e non lo faccio, lo vedi che non lo faccio. Lo vedi? Rispondi». Ella lo guardava di nuovo, con gli occhi socchiusi, la bocca stretta, il viso pallido ma fermo. «Tu non mi vuoi rispondere! Altre volte però mi hai risposto. Vile, a me? Che ti ho chiesto, io, perché sia un vile? Ti ho chiesto i tuoi denari, forse? La tua roba, ti ho chiesto? O ti ho chiesto la tua persona? Ti ho chiesto solo amore, e amore tu mi hai dato; ma anche io ti ho dato amore; siamo pari; ci siamo scambiati il cuore. Ma tu volevi di più, da me: volevi la mia libertà e questa non te la do, no, perdio, perché la devo ad altri, prima che a te, la devo a mia madre, a mio padre, alle mie sorelle… Vile, a me?», riprese rauco, delirante di rabbia per il silenzio di lei. «Eri tu che mi volevi vile; tu, che volevi farmi andare in carcere, tu che volevi legarmi a te come un cane al guinzaglio… Tu…» 

Un rapporto d’amore burrascoso, avventato e avversato che sfocia nell’incomprensione e scivola nella tragedia, quello tra Marianna Sirca e il suo Simone, ambientato tra i monti e i boschi aspri e selvaggi di una Sardegna arcaica e profondamente imbevuta dei valori religiosi e della cultura della società contadina. Un finale malinconico. Sono presenti e vivi i temi tipici della scrittrice sarda, ovvero quelli relativi al destino, alla sopraffazione, al dolore, alla morte, alla solitudine, e all’aspirazione alla felicità. Il tutto raccontato con uno stile narrativo leggero, semplice e ricco allo stesso tempo, dove l’autrice analizza soprattutto attraverso il dialogo e i personaggi di supporto (il padre, la domenica di Marianna), la psicologia dei protagonisti principali senza rinunciare a meravigliose descrizioni della sua terra, della natura che è parte integrande del romanzo della Deledda. I cuori dei protagonisti così come le lande silenziose del nuorese, percosse dai gelidi venti invernali ed imbiancate da candida neve, sono solitari. In questo modo viene a crearsi un flusso di immagini ed eventi in stretta simbiosi.
Con Marianna Sirca Grazia Deledda conferma le sue doti narrative raccontando una storia che brucia di passioni, che anela gioia, che spezza le catene del pregiudizio verso certa umanità, che tratta di un territorio ruvido, difficile e percorso da forti contrasti, di pennellate cromatiche intense, di sensazioni olfattivi molto forti che si confondono con gli struggimenti emotivi e gli immancabili colpi di coda del fato.

Il bilinguismo di Grazia Deledda

“Per la sua potenza di scrittrice, sostenuta da un alto ideale, che ritrae in forme plastiche la vita quale è nella sua appartata isola natale e che con profondità e che con calore tratta  problemi di generale interesse umano”.(Motivazione del Premio Nobel per la letteratura a Grazie Deledda)

Grazia Cosima Deledda (Nuoro 1871-Roma 1936) è stata vincitrice del Premio Nobel per la letteratura nel 1927. Insieme ad Elsa Morante, Virginia Woolf, solo per citarne alcune, la Deledda con la sua opera, rappresenta una  tra le più importanti conseguenze dei processi di trasformazione che hanno attraversato il Novecento: un rapporto sempre più stretto delle donne con la cultura, che è stato tra i presupposti essenziali per la parità dei diritti tra i sessi.

Qual è quest’alto ideale verso cui la scrittrice sarda si protende? Nicola Tanda nel saggio La Sardegna di Canne al vento, scrive:

“L’intero romanzo è una celebrazione del libero arbitrio, della libertà di compiere il male ma anche di realizzare il bene, soprattutto quando si ha esperienza della grande capacità che il male ha di comunicare angoscia. Il protagonista che ha commesso il male non consente col male, compie un viaggio doloroso, mortificante, ma anche pieno di gioia nella speranza di realizzare il bene, che resta la sola ragione in grado di rendere accettabile la vita”.

Ancora una volta, la letteratura tende al suo fine principale: la manifestazione del vivere, in tutte le sue sfaccettature. Ma la scrittrice sarda, si avvia a tessere il filo di questa vasta, complessa, intricata rappresentazione riducendo il mondo ad un’unica, fondamentale regione: la Sardegna. L’isola sarda, che come quella procidana nella Morante, diviene emblema delle pulsazioni dell’animo umano, di quei richiami ancestrali, primordiali, arcani, istintuali che investono i protagonisti nelle sue opere.

I suoi romanzi ci portano in un mondo, che appare quasi “primitivo” per la forza delle passioni, tramutate in tragedie, che in esso si soffrono:

L’isola è intesa come luogo mitico e come archetipo di tutti i luoghi, terra senza tempo e sentimento di un tempo irrimediabilmente perduto, spazio ontologico e universo antropologico in cui si consuma l’eterno dramma dell’esistere”.

Ma questa, chiamiamola “sensazione”, di trovarci dinanzi ad un passato quasi “mitico” nasce dal fatto che la Deledda costringa ogni lettore a fare i conti con la parte più profonda, nascosta del proprio essere: certi impulsi, anche se repressi sono sempre presenti. E ritornano a galla, come echi leggendari e si insinuano nel nostro agire.

Dinanzi a questa “tragedia” del mondo, non c’è catarsi che regga, nessuna possibilità di distacco dalle passioni e le vicende rappresentate  non hanno il fine di mostrare  il “come potrebbe essere” se non si segue un regime deontologico corretto,  ma sono pura raffigurazione di “ciò che è”, a prescindere dall’etica e dalla morale, in quanto l’uomo non potrà mai essere svincolato dalle sue debolezze e fragilità, qualunque sia il codice comportamentale seguito. Ed il mondo appare bello solo nel suo stesso dramma e l’uomo diviene “umano” soltanto nella sua, talvolta perversa complessità. Dice la scrittirce sarda:

La coscienza del peccato che si accompagna al tormento della colpa e alla necessità dell’espiazione e del castigo, la pulsione primordiale delle passioni e l’imponderabile portata dei suoi effetti, l’ineluttabilità dell’ingiustizia e la fatalità del suo contrario, segnano l’esperienza del vivere di un’umanità primitiva, dolente, gettata in un mondo unico, incontaminato, di ancestrale e paradisiaca bellezza, spazio del mistero e dell’esistenza assoluta”.

E la religione come si muove in questo campo minato di passioni?

Questa, non è la soluzione ai problemi dell’uomo. L’essere umano, nutrendosi o non della parola di Dio, sarà sempre soggetto così come al bene, anche al male. Quindi la religione, nella poetica della Deledda  è strettamente connessa al libero arbitrio dell’uomo, in sintesi potremmo dire che è una scelta. Scegliere di vivere nel timore di Dio non significa cancellare la colpa e la vergogna, ma cercare di portarne al meglio il peso.

Resta, aleggiando nel fondo, un sentimento di pietas che permea tutti i suoi componimenti; una partecipazione compassionevole verso tutto ciò che è mortale,  un sentimento misericordioso che induce al perdono di una comunità di peccatori che ha sulle proprie spalle il peso del proprio destino. Uno stile, quello della scrittrice sarda, che ha posto necessariamente il problema dell’intenso rapporto tra civiltà-cultura-lingua. Lei stessa scrive in una sua lettera:

Leggo relativamente poco, ma cose buone e cerco sempre di migliorare il mio stile. Io scrivo ancora male in italiano, ma anche perché ero abituata al dialetto sardo che è per se stesso una lingua diversa dall’italiana

Una delle prime problematiche che deve affrontare la Deledda, dunque, è quella di far propria la lingua italiana, che lei, come sardofona, non sente sua. Operazione ancora più difficile se si tiene conto che l’autrice si accinge a narrare il proprio vissuto, il proprio universo antropologico sardo. Ne è sorto un dibattito recente sul bilinguismo, in quanto il sardo è stato riconosciuto lingua e non dialetto; dibattito che però non è riuscito ancora a chiarire questo rapporto di doppia identità. Questo però non deve far pensare che il suo linguaggio si sia improntato solamente di verismo e naturalismo, ma al contrario si è piegato al lirico e al fiabesco. Afferma Natalino Sapegno:

Ma da un’adesione profonda ai canoni del verismo troppe cose la distolgono, a cominciare dalla natura intimamente lirica e autobiografica dell’ispirazione.”

Fin dai tempi in cui scrive su riviste di moda si rende conto della distanza esistente tra la stucchevole prosa in lingua italiana e la sua esigenza di impiegare una lingua che sia più vicina  alla realtà e alla società dalla quale proveniva.  E così si protende alla letteratura russa e le parole delle sue opere rievocano memorie tolstojane e dostoevskiane.

L’intento della Deledda, spesso, finisce con l’approdare ad un linguaggio scarno, soprattutto in quei scritti giovanili e alcuni attribuiscono questo risultato alla paura di sbagliare, a quell’ansia che potremmo definire “da prestazione” nel dover maneggiare contemporaneamente due lingue : l’italiano ed il sardo. Secondo altri critici, invece,questo linguaggio non propriamente fluido deriva dal pensare in sardo e il tradurre in italiano. In alcuni punti delle sue opere si può chiaramente scorgere come vengano utilizzati dei veri e propri “sardismi”, soprattutto quando mancano corrispondenti in italiano. La scrittrice non ha problemi a marchiare di lingua sarda la sua poetica e tutto questo  deriva da una scelta voluta e consapevole.

L’influsso della Sardegna e della lingua sarda nelle opere della Deledda non riguarda solo le opere sintattiche e il lessico  ma anche e soprattutto le tematiche: i costumi, le immagini, i detti e i proverbi.

Dunque, la sintassi prevalentemente paratattica, non equivale alla mancanza di stile ma deriva dal trasferimento nella scrittura  di modalità linguistiche di costruzione del racconto orale. Grazia Deledda può essere considerata una scrittrice straniera fino ai trent’anni. Ha lottato affinché il suo bilinguismo venisse riconosciuto; ha combattuto contro una critica, aspra e severa, che spesso l’ha giudicata una “scrittrice non degna”. Il suo impegno in campo letterario in realtà è poi divenuto un impegno ancor più grande in ambito umano, dove è riuscita a gettare le basi, le fondamenta per la costruzione di un ponte, quello tra due culture: la cultura italiana e quella sarda.

Queste le riflessioni stilistiche e tematiche sulla poetica di una scrittrice, definita talvolta anche sovversiva. Una grande donna prima ancora che una grande scrittrice, che ha saputo prima ancora che raccontare, soprattutto vivere, respirare, esplorare l’intera società sarda, e di riflesso, nel profondo, l’intera società umana.

 

Grazia Deledda: l’essenza della vita nella sua tragicità

Grazia Deledda (Nuoro il 27 settembre 1871 Roma ,15 agosto 1936) nasce in una famiglia decisamente benestante: il padre, infatti, è un procuratore legale e dedito al commercio del carbone. Già all’età di diciassette anni pubblica, sulla rivista “ultima moda” il suo primo racconto dal titolo “sangue sardo”, storia di un amore mai corrisposto, dove la protagonista uccide l’uomo di cui è innamorata. Tuttavia, l’opera con cui si “tuffa” nel mondo letterario e che le darà un certo successo iniziale è “Nell’azzurro”, pubblicato nel 1890. E’ a Roma che scrive “Anime oneste” e “il vecchio della montagna”. Le maggiori, poi, fra le quali ricordiamo “Elias Portolu” (1900), “Cenere” (1904), “Canne al vento” (1913), “Un uomo solitario” (1914), “Marianna Sirca” (1915), possono leggersi come lo sviluppo e la discussione di casi di coscienza. Altre opere si succederanno, con una crescente intenzione autobiografica e introspettiva, e sempre con fortuna di pubblico, fino alla scomparsa dell’autrice, avvenuta a Roma nel 1936. Lascerà un’opera incompiuta: “Cosima”, che i curatori pubblicheranno col significativo sottotitolo di “Quasi Grazia”.

Gli scritti di Grazia Deledda risentono di un clima tardo romantico, esprimendo in termini convenzionali e privi di spessore psicologico un amore vissuto come fatalità ineluttabile. E’ anche, per lei, un’epoca di sogni sentimentali, più che di effettive relazioni: uomini che condividono le sue stesse aspirazioni artistiche sembrano avvicinarla, ma per lo più un concreto progetto matrimoniale viene concepito da lei sola. Ora, però, soffermiamoci in particolar modo sul suo più celebre romanzo, ossia “Canne al vento” (1912).

Ambientato quasi interamente a Galtellì. Alla base del romanzo c’è, secondo uno schema che si ritrova in altre sue opere, una situazione di vita fondata su norme arcaiche e oppressive, talvolta violate dalla trasgressione che genera rimorsi e sensi di colpa. Espiazione e restaurazione dell’ordine infranto chiudono il cerchio. Il romanzo è raccontato attraverso la figura del protagonista, Efix, il servo delle Dame Pintor, che di questa famiglia ha conosciuto il tempo della potenza e della ricchezza e quello del rapido declino. Ora Efix coltiva l’ultimo podere rimasto, i frutti del poveretto sono gli unici proventi delle nobili sorelle: Ruth, Ester e Noemi. Il 10 settembre 1926 le viene assegnato il Nobel per la letteratura: è il secondo autore in Italia, preceduta solo da Carducci vent’anni prima; resta finora l’unica scrittrice italiana premiata. L’ultimo romanzo “La chiesa della solitudine” è del 1936. La protagonista è, come l’autrice, ammalata di tumore.

Sempre e comunque ricordare la sua Sardegna, la sua saggezza, la sua autenticità, e le sue verità  che hanno fatto ipotizzare un accostamento a Verga per quanto riguarda la stagione verista e a D’Annunzio per il decadentismo. Ma la Deledda non può essere etichettata, come ha fatto parte delle critica, in quella che è stata definita con un certo snobismo, la letteratura della Sardegna, il suo automodello sardo è universale, intriso di poesia e tragicità tipicamente russa (la lotta tra bene e male in primis)la sua terra è resa un luogo mitologico e misterioso, dove la natura è un microcosmo psichico (perfettamente in linea con la concezione della natura degli altri grandi scrittori del Novecento) all’interno del quale si consumano i drammi dell’essere umano, il quale però può trovare nuova linfa nella fede, e soprattutto nella pietas cristiana, nella partecipazione alla mortalità, naturalmente non senza correre dei rischi.

Anche il particolare uso della lingua che fa la scrittrice, ha aperto dibattiti e riflessioni; La Deledda fa emergere la distanza tra la cultura nazionale e quella locale, ma fondamentalmente perché lei stessa sente di appartenere maggiormente a quest’ultima, al dialetto sardo e ai suoi toni colloquiali, in quanto la stesura in italiano presentava per lei non pochi problemi.

Non aveva il dono della “buona lingua” Grazia Deledda ma proprio per questo ha inaugurato una nuova fase narrativa, quella che rifiuta l’omologazione e conserva la propria identità, portando ad una stratificazione della lingua che fanno di questa straordinaria donna ed autrice dal volto autorevole,una personalità  fuori dal comune, contemporaneamente dentro e fuori  il contesto letterario novecentesco europeo.

 

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