La guerra civile ucraina del 1917-21 vista dallo scrittore Bulgakov. Il caos di Kiev

Durante la guerra civile che imperversò in Ucraina tra il 1917 e il 1921 – ribattezzata dagli studiosi Ukranian-Soviet War – le sorti dei soldati, fossero essi “rossi”, “bianchi” o nazionalisti ucraini, erano nelle mani degli ufficiali medici che seguivano le eterne avanzate e ritirate di tutti gli schieramenti: alcuni di questi medici erano volontari, altri erano obbligati a servire per l’una o l’altra parte pena la morte. È quanto accadde allo scrittore Michail Afanas’evič Bulgakov nel 1919: com’è stato possibile che i Volontari arruolassero uno
scrittore? Come è possibile far coincidere la figura dell’autore del romanzo Il Maestro e Margherita con quella del medico reazionario dei Volontari di Denikin?

La più completa biografia su Michail Bulgakov uscì nel 1988 ad opera di Marietta Čudakova che vi lavorò incessantemente dal 1966, anno della prima pubblicazione sovietica de Il Maestro e Margherita. L’interesse e l’entusiasmo che seguirono alla pubblicazione del romanzo resero palese la totale mancanza di informazioni riguardo il suo autore: non solo non era conosciuto come letterato ma non si sapeva nemmeno chi fosse, dove fosse nato o cosa avesse fatto nella vita.

L’anonimato in cui visse e morì – nel 1940 – Michail Bulgakov affonda le sue radici negli anni ’30 del Novecento, anni turbolenti e pericolosi in un’Unione Sovietica alle porte delle purghe staliniane: in quel periodo, a seguito di numerosi problemi con la censura, Bulgakov scrisse una lettera al Governo dell’URSS chiedendo che gli fosse concesso di vivere pienamente e di scrivere – quindi di espatriare per poterlo fare – oppure che gli fosse dato un lavoro con cui sostentarsi, costringendosi di fatto al silenzio. Stalin stesso rispose a questa lettera con una telefonata, con la quale concesse al letterato un lavoro presso il Teatro dell’Arte di Mosca. Da quel momento in poi, Bulgakov sarebbe caduto nell’oblio fino al 1966.

Riscoprendo la biografia di Michail Bulgakov – nonostante i tentativi sovietici di presentarlo come uno scrittore in linea con il partito
– in aggiunta ad ulteriori opere che sono andate ad arricchire le pagine della letteratura russa e mondiale, sono venuti alla luce stralci
di una vita fuori dall’ordinario.

Il ritrovamento del primo articolo dichiaratamente “bianco” – pubblicato dallo scrittore nel 1920 – e delle Lettere al Governo dell’URSS (1930), ci possono far finalmente apprezzare appieno l’originale pensiero bulgakoviano, inserendolo nel giusto
contesto storico-politico; grazie inoltre alla ripubblicazione del suo primo romanzo La Guardia Bianca – dai tratti autobiografici – è stato possibile comprendere il caos che imperversò a Kiev negli anni tra il 1917 e il 1920.

Attraverso questi scritti è possibile illustrare la Guerra Civile Europea da un punto di vista inedito ma altrettanto vero poiché essi, nonostante siano il contraltare degli scritti rivoluzionari, giacché usciti dalla penna di un intellettuale “bianco” e quindi vinto, descrivono una realtà “diabolica” e mostruosa quanto quella descritta dai vincitori.

Il soggiorno a Groznyj portò con sè l’occasione per Michail Bulgakov di pubblicare su un giornale locale il suo primo articolo. Quest’ultimo cadde nell’oblio ancor prima del suo autore – e per mano di esso – dal momento che, trionfando la Rivoluzione, uno scritto estremamente anti-rivoluzionario avrebbe condannato definitivamente Bulgakov al confino o alla morte.

Egli stesso cercò in ogni modo di nascondere l’articolo reazionario alla vista dei commissari del popolo e agli occhi della polizia segreta: le ricerche della sua biografa, però, l’hanno riportato alla luce negli anni ’70, grazie alle testimonianze di un suo amico e della sua prima moglie che ben ricordavano lo scritto. L’articolo era rimasto sepolto e conservato nella Biblioteca Scientifica dell’Archivio di Stato che aveva tra il materiale raccolto tutti i numeri del giornale su cui era stato pubblicato.

L’articolo, pubblicato il 26 Novembre 1919 e firmato M.B., sintetizza crudamente gli ultimi due anni di guerra civile e il titolo – “Prospettive Venture” – non può che suonare come un ossimoro poiché, non solo l’articolo guarda al passato e alle disgrazie accadute – come fa l’Angelus Novus di Klee nelle tesi di Walter Benjamin – ma non esprime alcuna speranza per un futuro incerto nel quale le colpe dei padri ricadranno sui figli che dovranno pagare “[…] tutto con onestà [e serbare] eterna memoria della rivoluzione sociale!”.

Il testo è un’analisi lucida e consapevole della disgrazia occorsa all’Impero Russo, una catastrofe talmente grande “[…] che viene voglia di chiuderli, gli occhi e dalla quale non ha scampo nemmeno il futuro poiché – secondo Bulgakov – il popolo russo dovrà combattere
ancora per riconquistare tutte le città andate perse nello scontro con i bolscevichi: “Palmo a palmo gli eroici Volontari strappano la terra russa dalle mani di Trockij”, scrive Bulgakov per il quale nessuna delle parti in lotta è legittima se non quella dei “bianchi”.

Egli, infatti, abborre la “rivoluzione sociale” (“la nostra patria sventurata ha toccato il fondo nel baratro della vergogna e della sciagura nelle quali l’ha costretta la grande rivoluzione sociale”) e, allo stesso modo, non può appoggiare i nazionalisti ucraini colpevoli – forse ancor più dei bolscevichi – di voler staccare Kiev, la madre delle città russe, dall’Impero.

Bulgakov è russo e non può tollerare che un’insensato nazionalismo trionfi sull’ancestrale legame che tiene insieme Kiev e la Grande Russia. Non è disposto a compromessi nel momento in cui scrive:

“Ma dovremo combattere, e molto sangue scorrerà, giacché dietro a Trockij si accalcano i pazzi armati che ha accalappiato, e la nostra non sarà vita, ma uno scontro mortale./ Dobbiamo combattere. […] Pazzi e canaglie verranno cacciati, dispersi, annientati. / E la guerra finirà”.

Queste parole riportano alla mente quelle di un altro russo dalla parte opposta del fronte, il rivoluzionario Victor Serge, che nel suo Ville en danger – pubblicato anch’esso nel 1919 – descrive i meccanismi di questo “annientamento del nemico”:

“Guerra a morte senza ipocrisia umanitaria, in cui non c’è Croce Rossa, in cui non sono ammessi i barellieri. Guerra primitiva, guerra di sterminio, guerra civile. […] La legge è: uccidere o essere uccisi”.

 

Caterina Mongardini

Il realismo narrativo di Beppe Fenoglio, cantore della guerra civile

Lo scrittore piemontese Beppe Fenoglio ha narrato le rappresaglie, gli uomini e le brutture della sanguinosa guerra fratricida: una contrapposizione destinata a perpetuarsi eternamente cambiando per sempre il volto dell’Italia.

Beppe Fenoglio fu il cantore per eccellenza della resistenza, lo scrittore che più viene identificato con la guerra partigiana, l’autore che più di tutti scelse quel periodo della storia d’Italia come terreno unico delle sue opere, che alla fine diventò per lui quasi una fissazione ed una condanna. Se la Resistenza è il vero mito laico su cui si fondò la Repubblica italiana del Dopoguerra, religione secolare sulla quale incentrare miti, riti e liturgie dell’Italia postfascista, allora Fenoglio ne fu profeta. Tuttavia, basta leggere poche pagine e ci si rende conto che i suoi toni non hanno nulla a che vedere con la retorica resistenziale dell’ANPI, con i toni magniloquenti di certi cultori della resistenza o con quelli di chi vuole trasformare la guerra partigiana in una mitologia senza ombre.
Si legge Fenoglio e ci si imbatte in un resoconto spietato, crudo, della guerra in tutte le sue brutture, malignità e contraddizioni. Basta leggere alcuni dei racconti che poi furono pubblicati dall’Einaudi di Vittorini sotto il titolo “I ventitré giorni della città di Alba” e ci si imbatte in tutte le contraddizioni esiziali della resistenza: il rapporto altalenante tra membri delle varie bande, le divergenze politiche tra i vari partigiani, la conflittualità sotterranea ma sempre pronta a divampare tra badogliani, di cui Fenoglio fece parte, e rossi delle brigate Garibaldi, più cinici e spregiudicati, se è vero che, come scrisse sempre Fenoglio in “Una questione privata”, 

in mano loro un prigioniero non fa in tempo ad esser tale.

Nei racconti della raccolta succitata Fenoglio restituisce una guerra partigiana vera, autentica, fatta di momenti di grande slancio umano ma anche di rapporti obliqui e di scelte opache. La guerra non è raccontata in modo manicheo, assoluto; e per quanto il punto di vista di Fenoglio resti quello partigiano, i repubblichini, che pure erano nemici irriducibili, stavano in qualche modo nella categoria schmittiana del justus hostis, erano nemici ma l’ostilità nei loro confronti era solo politica, non si esacerbava in un razzismo quasi antropologico, come avvenne in alcuni frangenti della storia repubblicana successiva. È significativo anche che il titolo proposto da Fenoglio per la raccolta fosse “Racconti della guerra civile”, titolo che fu poi bocciato dall’Einaudi perché all’epoca parlare di guerra civile era ancora vietato. Lo scrittore esplora, con un realismo straordinario, tutti i momenti della guerra civile, che si traducono in storie dopo essere sedimentate nella sua memoria ed essere scorse molte e molte volte davanti ai suoi occhi. Nei suoi racconti si sente tutta l’immediatezza di chi quei volti, quelle sensazioni e quei momenti li ha vissuti in prima persona, li ha colti in presa diretta.

Fenoglio descrive in modo magistrale un episodio controverso che non doveva essere infrequente nella guerra. Un vecchio partigiano, in preda all’ubriacatura, aveva derubato in una casa di civili, peraltro simpatizzanti dei partigiani. Una volta scoperto il furto, i suoi compagni di brigata lo mettono a muro, lo uccidono come se fosse un repubblichino. Il racconto è condotto in modo invidiabile: il vecchio, ubriaco e pestato, si illude che quella dei suoi compagni sia tutta una pantomima per fargli prendere uno spavento, ed alla fine continua a ridere ed ad esortare gli altri affinché la smettessero con quel “teatro”, fino a quando non sente in lontananza che il partigiano più giovane gli sta scavando una tomba. Il tono da comico diventa grottesco, per poi chiudersi nel tragico.

Nei racconti della raccolta succitata Fenoglio restituisce una guerra partigiana vera, autentica, fatta di momenti di grande slancio umano ma anche di rapporti obliqui e di scelte opache. La guerra non è raccontata in modo manicheo, assoluto; e per quanto il punto di vista di Fenoglio resti quello partigiano, i repubblichini, che pure erano nemici irriducibili, stavano in qualche modo nella categoria schmittiana del justus hostis, erano nemici ma l’ostilità nei loro confronti era solo politica, non si esacerbava in un razzismo quasi antropologico, come avvenne in alcuni frangenti della storia repubblicana successiva. È significativo anche che il titolo proposto da Fenoglio per la raccolta fosse “Racconti della guerra civile”, titolo che fu poi bocciato dall’Einaudi perché all’epoca parlare di guerra civile era ancora vietato. Lo scrittore esplora, con un realismo straordinario, tutti i momenti della guerra civile, che si traducono in storie dopo essere sedimentate nella sua memoria ed essere scorse molte e molte volte davanti ai suoi occhi. Nei suoi racconti si sente tutta l’immediatezza di chi quei volti, quelle sensazioni e quei momenti li ha vissuti in prima persona, li ha colti in presa diretta.
Fenoglio descrive in modo magistrale un episodio controverso che non doveva essere infrequente nella guerra. Un vecchio partigiano, in preda all’ubriacatura, aveva derubato in una casa di civili, peraltro simpatizzanti dei partigiani. Una volta scoperto il furto, i suoi compagni di brigata lo mettono a muro, lo uccidono come se fosse un repubblichino. Il racconto è condotto in modo invidiabile: il vecchio, ubriaco e pestato, si illude che quella dei suoi compagni sia tutta una pantomima per fargli prendere uno spavento, ed alla fine continua a ridere ed ad esortare gli altri affinché la smettessero con quel “teatro”, fino a quando non sente in lontananza che il partigiano più giovane gli sta scavando una tomba. Il tono da comico diventa grottesco, per poi chiudersi nel tragico.

Ancora, in un altro racconto Fenoglio narra di un giovane appena ventenne arruolatosi con i partigiani per una sorta di irriflessa spavalderia giovanile. Una volta catturato dai fascisti ed in attesa d’esecuzione il giovane riflette con il suo compagno di cella, un garibaldino ormai rassegnato all’idea di morire, sul carattere superficiale della sua presa di coscienza; sulla vanità di quelle prese di posizione, in fondo congiunturali e passeggere, rispetto alla vita umana e sull’assurdità di morire per una causa che non sentiva sua, un ideale di libertà che ora gli appare più che mai effimero ed evanescente.
Non contiamoci balle, Lancia, che è peccato mortale contarcene al punto che siamo. Sei convinto che noi siamo stati fatti fessi e che non possiamo più farci furbi perché ci pigliano la pelle? Tu te la senti di morire per l’idea? Io no. E poi che idea? Se ti cerchi dentro, la trovi l’idea? Io no. E nemmeno tu.
E d’altra parte, anche “Una questione Privata”, uno dei capolavori di Fenoglio, non racconta di un ragazzo partigiano che perde di vista la lotta ai fascisti per indagare la verità su di una ragazza che amava e temeva l’avesse tradita con il suo migliore amico? Alla fine verrà ucciso dai fascisti, quasi senza avvedersene, proprio ricercando ingenuamente quella verità, privata ed intima, romantica e per molti versi infantile. Il sottotesto sembra essere: di fronte ad un amore, gli ideali astratti e spesso distanti per cui si combattono le guerre restano sullo sfondo, passano in secondo piano. Alla fine Fenoglio ci ricorda un po’ il soldato di Hemingway che in “Addio alle Armi” decide di fare una “pace separata”, per inseguire la sua infermiera, con buona pace del mondo, della storia, delle sue necessità e delle sue richieste di martirio.

Ora, non è che Fenoglio voglia sminuire i partigiani né la resistenza: i suoi racconti sono anche pieni di efferatezze fasciste e di gesti nobili tra partigiani, e certamente la causa partigiana era quella che Fenoglio sposò e a cui tenne fede tutta la vita. Però non ci sembra assurdo sostenere che, della guerra civile, Fenoglio più che profeta volle essere lucido ed implacabile testimone: non lo interessò tessere il mito della resistenza, infarcire i suoi racconti di retorica e di falso idealismo; ma volle tratteggiare i protagonisti di una lotta che aveva vissuto nella loro incipiente umanità, in modo fedele e veritiero, per dare un ricordo vivido di quella guerra, per rendere giustizia ai suoi caduti.

In Fenoglio a prevalere non è la costruzione di mitologie, il vago idealismo o la vacua retorica; ma è l’individuo, l’uomo concreto, irriducibile nella sua diversità ed unicità, con le sue grandezze e le sue miserie, che vive la storia, le sue chiamate ed i suoi ideali ora con convinzione ora con recalcitrante diffidenza. In questo senso, oltre alla grande onestà con cui Fenoglio racconta la guerra civile, che è il suo grande merito storico, stupisce ed ammalia l’efficace realismo e la fulgida immediatezza delle pagine, suoi grandissimi meriti letterari. Fenoglio, infatti, s’inserisce perfettamente in quel fenomeno di “ritorno al reale” che coinvolse tutti gli scrittori, italiani e non solo, di un Dopoguerra debitore dei grandi maestri americani, da Hemingway a Fitzgerald. Guardare all’America in quegli anni per l’Italia significava superare, pur tenendolo presente, il grande periodo primo novecentesco, il quale aveva costruito una letteratura tutta fondata sull’introspezione psicologica, sul flusso di coscienza di un io lirico monologante, sulla confessione diaristica, pensierosa e cervellotica. Significava veramente “riscoprire la realtà”, l’epica, le evidenze concrete che precedevano ogni razionalizzazione esasperata e con cui l’individuo, per quanto “inetto”, indisposto, svagato e nevrotico doveva fare i conti, piaccia o non piaccia, in modo pragmatico.

In Fenoglio quasi non ci sono sequenze propriamente riflessive, né invadenze da parte del narratore, e neppure digressioni psicologiche o filosofiche; eppure i personaggi sono delineati in modo perfetto, plastico, sembra di vederli. I suoi dialoghi ci ricordano un po’ quelli di Hemingway, mentre la sua capacità di restituire la franchezza popolare in modo così genuino ed autentico ci fa venire in mente qualcosa di Guareschi. Mettiamo in fila questi nomi e vediamo che furono tutti protagonisti a loro modo di guerre e carcerazioni, vissero la pena della trincea o del lager, e ci viene da pensare che questo realismo così fedele sia dato solo a coloro che hanno toccato con mano la guerra, questa “ciclopica imposizione di realtà”, come la definì Giuseppe Rensi, che conferisce, al momento di scrivere, quell’essenzialità asciutta e antiretorica che stupisce e lascia ammirati, specie in un periodo come quello di oggi in cui gli scrittori, avendo spesso poco da raccontare, specie in termini di azione, si rifugiano volentieri in fumose considerazioni filosofiche o in stucchevoli preziosismi barocchi.

Guareschi, come Fenoglio, raccontò un periodo di incendiarie conflittualità politiche, di frontali opposizioni e di brutali confronti. In alcuni dei primi racconti del Mondo Piccolo, ambientati tra il ’46 ed il ’48, c’è ancora l’aria pesante della guerra civile, che sta dando i suoi ultimi colpi di coda. Eppure, la grande caratteristica di Guareschi era squarciare il velo, congiunturale e tutto sommato fallace, delle contrapposizioni storiche per mostrare il filo di solidarietà umana che affratellava tutti, rossi e neri, preti e sindaci comunisti. Ora, non vogliamo dire che in Fenoglio ci sia nulla del genere: il conflitto armato, le rappresaglie, le reciproche infamie compromisero senza dubbio il rapporto tra partigiani e repubblichini, che fu certo meno roseo di quello tra Peppone e Don Camillo. Eppure, anche Fenoglio regala squarci di umanità: se costretti nel clima e nelle situazioni infami della guerra civile, si potrebbero davvero gettare le basi per quella memoria condivisa che è così indispensabile per avere un paese veramente unito, e non invece spaccato in questa eterna contrapposizione.

 

Fonte: http://www.lintellettualedissidente.it/letteratura-2/beppe-fenoglio-cantore-della-guerra-civile/

Antonio Machado, poeta fervido oppositore dei fascismi europei

Antonio Machado è stato un grandissimo poeta morto drammaticamente nell’anno in cui si conclude la guerra civile 1939. Nell’anno in cui invece la guerra ebbe inizio, nel 1936 ci fu l’omicidio di un altro grande autore: Garçia Lorca. La morte di Machado ebbe un’eco fortissima nel mondo letterario, perché negli anni della guerra civile era stato un grande animatore di dibattiti letterari e politici e fervido oppositore dei fascismi europei.

Il magistero di Machado oltre ad essere poetico fu anche politico. La creazione poetica del poeta spagnolo si sviluppa in un percorso che possiamo dividere in tre parti; la prima coincide con la prima raccolta Soledades pubblicata nel 1903, la seconda corrisponde a Campos De Castilla del 1912, la terza coincide con la raccolta Nuevas Canciones del 1924. Dopo queste pubblicazioni, il suo percorso diventa complesso e accidentato, peculiare di Machado che scriverà poesie e prose che riunirà nel Canzoniere apocrifo, attribuito a diversi eteronimi (creando delle personalità letterarie a cui dà una dignità letteraria, e a cui affiderà delle riflessioni poetiche). Accanto al Canzoniere apocrifo, Machado continua a scrivere liriche anche durante la guerra, che poi verranno chiamate poesie sciolte, non organizzate dall’autore. La tensione alla riedizione delle singole raccolte è sottomessa alla creazione di un’opera complessiva e attraverserà tutta la vita di Machado ritorna sempre sulle sue raccolte.

Come ha osservato Cesare Segre, parlare della poesia di Machado significa parlare di un sistema di varianti. Quando il poeta sceglie una variante interviene sul sistema intero della sua poetica. In tutte le raccolte ritroviamo infatti sempre gli stessi simboli in un sistema di immagini, come ad esempio l’immagine del limone, letto da Machado come simbolo dell’infanzia andalusa, assumerà altre sfumature nel tempo e si perpetuerà in tutta la vita letteraria.

Antonio Machado: l’importanza della lingua andalusa

Nato a Siviglia nel 1875, e fratello di Manuel, anch’egli poeta, Machado tiene molto a sottolineare le proprie origini. La famiglia da cui proviene è importante: il padre è avvocato e letterato del suo tempo (Machado lo ricorda nella poesia “Retracto”, in cui è descritto come un cacciatore, secondo due punti di vista; quello di un bambino che guarda estasiato il corpo massiccio del padre, e quello di un adulto che riflette sulla morte del padre, figura centrale nella sua vita); lo zio Augustin Duran è uno studioso della letteratura spagnola interessato ai problemi del folclore andaluso (Questa costante folclorica la ritroviamo anche in Garçia Lorca che addirittura farà ricerche sulla lingua del popolo andaluso). Antonio Machado vive in un ambiente molto colto, liberale e progressista. Fin da piccolo gode di grandi privilegi: studia nella Istitucion libre de ensenanza, un nuovo tipo di scuola fondata a Madrid nel 1876, che si ispira a criteri laici e liberali e che ebbe un enorme impatto nella Spagna della seconda metà del XIX secolo, pervasa da cultura piatta e ammuffita. L’educazione con forme liberali di cultura sarà un motivo ripreso spesso nel percorso letterario del grande poeta spagnolo. Machado ha una cattedra di letteratura francese negli istituti di secondo grado, anche se conseguirà la laurea soltanto in un secondo momento, cioè dopo la morte di Leonor, la giovanissima moglie.

Un uomo qualunque e un intellettuale

Nel 1898 è a Parigi e insieme al fratello collabora a delle traduzioni di Hugo, a dimostrazione della vicinanza sentimentale a Parigi dove conosce anche Baroja che si trovava come lui al suo primo viaggio nella capitale e altri autori simbolisti minori rispetto a Verlaine per il quale Machado manifesta subito una grande venerazione. Molto a lungo si è parlato di Machado simbolista e modernista. L’apprendistato modernista è mediato molto dalla letteratura francese (a differenza di Dario, Machado non ha problemi con la lingua francese). In una prima fase, quella di Soledades, seguirà molto la pista modernista interpretandola a suo modo, ma già nel 1917, quando crea le Pagine scelte, in una nota dell’antologia l’autore rivendica la finalità del libro e afferma di essere convinto di aver fatto insieme ad altri autori della sua generazione una “potatura dei rami” nel panorama letterario spagnolo dominato dalla presenza di Dario. Già a quest’altezza cronologica il suo punto di vista è abbastanza straniato rispetto all’apprendistato modernista. Da notare che il 1917, anno in cui pubblica Poesias Completas , Machado dà alle stampe anche due libri con finalità diverse e si sta autodefinendo poeta autonomo e sta decidendo il legame con la poesia di Dario. Dal 1907 è già affermato come poeta (Soledades ebbe un certo esito) e lo troviamo a Soria, piccolo capoluogo di provincia castigliano in cui è chiamato a insegnare francese. Qui conosce una ragazzina, Leonor, che sposerà. Nel 1910 vince una borsa di ricerca che lo porta a Parigi solo per un breve periodo a causa della malattia di Leonor. A Parigi Machado segue i corsi di Bedier e Medier, filologi medievali e di Bergson, filosofo che riflette in quegli anni sulla nuova temporalità e che avrà una grande eco nella storia letteraria di Machado.

Perdere Leonor è un dolore insopportabile per il poeta, che però in questi anni riesce a laurearsi in Lettere e filosofia. Nel 1928 incontra l’altro grande amore della sua vita, Pilar Valderrama, poetessa con la quale vivrà una storia d’amore quasi platonica e alla quale saranno dedicati molti componimenti. Dal 1931 al 39 è a Madrid, dove iniziano molte collaborazioni con testate giornalistiche. Durante la guerra, Machado si schiera con i repubblicani, contro i totalitarismi. Nel 1939 Madrid viene bombardata e il poeta è costretto a fuggire con la famiglia ma muore di polmonite il 22 febbraio. Un mese dopo Madrid si piegherà alla dittatura di Francisco Franco.

Machado ha scritto una biografia, per un’antologia poetica curata da Azorin, che non è stata mai pubblicata. Che cosa dice di se Machado? Lo statuto dell’antologia è lo stesso del libro di poesia? È lo stesso io? Secondo Paolo Gervasio la risposta è affermativa, perché si tratta sempre di un gesto lirico. Machado ha scritto  anche un’altra biografia in cui parla di se ad un pubblico indefinito. Si presenta come un uomo normale, non c’è nulla di straordinario nella sua vita, sottolineando il dettaglio del luogo in cui è nato, nel palazzo delle signore, non per evidenziare l’agio in cui viveva ma per l’importanza che riveste questo luogo per la prima raccolta. Questo dettaglio lo ritroviamo sia nella biografia scritta per Azorin, sia nella biografia che scrive per se e che pubblicò nel 1917 grazie a Jimenez, responsabile anche delle correzioni delle bozze. Machado nella biografia riflette, davanti ad un pubblico variegato, anche su tematiche letterarie. Questa nota biografica se da un lato sembra essere la presentazione di un uomo qualunque, dall’altro sembra la presentazione di un intellettuale ad altri intellettuali in una rivendicazione di alcuni maestri simbolici tra cui Unamuno (il filosofo della generazione del ’98).

Jobs Act francese: la lotta per i ‘diritti’ è un dovere

Qualcuno parlerebbe di rivoluzione, al massimo di guerra civile; ma tali definizioni non sono adatte, non del tutto, a spiegare che cosa sta accadendo in Francia. Di sicuro una mobilitazione sociale si percepisce, ed è netta. I cittadini dicono no alla legge del lavoro, lo chiamano Jobs Act francese. Il Loi Travail, sulla scia renziana, propone un aumento delle ore lavorative, un predominio del contratto aziendale su quello collettivo nazionale, e agevola i licenziamenti, come l’interruzione economica del contratto di lavoro.

Si tratta di una legge che soffoca i lavoratori e che, come ha spiegato la docente dell’Università di Parigi Nanterre, Tatiana Sachs, durante il Convegno AGI 2016, non ha nulla di positivo se non la parte relativa alle tutele sul mercato del lavoro. Il ministro Manuel Valls che si è appellato all’articolo 49,3 del Titolo V della Costituzione, per far passare la legge senza il voto del Parlamento, inoltre secondo la Sachs, invidia Renzi che è riuscito a portare avanti il provvedimento senza strappi, mentre in Francia ha inaugurato la stagione degli scioperi ripetuti e con una sollevazione popolare evidente iniziata con Nuit Debout.

Jobs Act francese: la democrazia batte i piedi

Il Jobs Act francese sta portando alla formazione di un nuovo corso democratico e chissà, forse il 31 marzo sarà un giorno da segnare sul calendario, magari per ricordare un’evoluzione, o perlomeno evocare una reazione sociale e politica anche in Italia. E poi a Parigi è arrivato maggio, con i suoi fiori, i colori di arancio, giallo e viola come le magliette delle adolescenti a dire che sì è primavera, e bisogna rinascere in fretta, riesumare i diritti sepolti sotto le macerie. A maggio sempre nella patria della satira e delle brioches, scioperi illimitati dei trasporti, netturbini, vede ancora protagonisti ferrovieri metro e trasporto aviario. Tutti insieme, fieri ma soprattutto compatti e arrabbiati. Dopo i timori per la partita inaugurale degli europei di calcio, arriva quello che viene definito il giorno delle “galere”: oggi 14 giugno per i cittadini sui trasporti francesi si riparte con lo sciopero che coincide con quello indetto dai piloti Air France. Torneranno così in piazza i sindacati, per quella che è descritta come una mobilitazione senza precedenti. I francesi si stanno muovendo, non c’è niente di nuovo sotto il sole. Viene in mente il 1789 non per retorica o demagogia, viene in mente e basta perché la grinta, la disperazione e la compattezza si fortificano nella loro gloriosa indipendenza. I francesi sono nati, fioriti ribelli, ma quando si parla di repubblica sono autorevoli e impositivi come nessun altra nazione in Europa. Guai a chi tocchi il trittico Liberté, Fraternité, Egalité. A guardare un paese compatto, arrabbiato al limite dello sdegno furente di chi non ha pane sotto i denti. Viene in mente perché i francesi non hanno dimenticato il loro passato ma portano in alto lo stendardo della lotta, e non si arrestano davanti ai propri baldanzosi rappresentanti che tutelano le istituzioni, è perché loro sanno che se questi sono – ancora – lì  è per grazia del popolo che li ha eletti e voluti. Ma in Italia invece questo discorso non ha senso. Sembra ancora intrappolata in una specie di oligarchia (o monarchia) repubblicana di chi decide (bene?) per il popolo e si fa pure ringraziare, magari su twitter. Ex novo, dal basso. Grazie al popolo addormentato. Mentre in Francia, notti in piedi e disordini leciti.

E poi non bisogna dimenticare che dietro lo scontro fra Stati e mercati si cela un attacco del capitale al lavoro, che necessariamente passa attraverso un indebolimento delle democrazie nazionali; non a caso le principali riforme richieste dai mercati, hanno riguardato proprio i diritti dei lavoratori, svilendo il lavoro e puntando solo alla produttività. “Fabbricare fabbricare fabbricare / preferisco il rumore del mare / che dice fabbricare fare e disfare….” diceva Dino Campana e in effetti oggi più che mai la retorica borghese del Lavoro come imperativo categorico dell’uomo, risulta innaturale ed ipocrita: laddove si parla dell’occupazione come di un diritto, si nasconde un sistema disumano, una moderna schiavitù. Le manifestazioni francesi contro il Jobs Act rappresentano un importante ed esemplare fronte alternativo alle becere e perverse politiche neoliberiste che ormai si sono strutturate nella forma di una rifeudalizzazione del rapporto sociale capitalistico.

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