Ernst Jünger, teologo della nuova epoca, pedagogo della libertà, autore di capolavori come “Nelle tempeste d’acciaio” e del profetico “L’operaio”

Ernst Jünger (Heidelberg 1895 – Riedlingen, Alta Svevia, 1998), fu maestro insuperabile della contemplazione, esempio memorabile di azione, teologo della nuova epoca, platonico moroso, entomologo competente, pedagogo della libertà. Infine amante dell’Italia, dalla Dalmazia irredenta all’assolata Sicilia, da quel di Napoli fino alla più amata di tutte, quella Sardegna dalla terra «rossa, amara, virile, intessuta in un tappeto di stelle, da tempi immemorabili fiorita d’intatta fioritura ogni primavera, culla primordiale». 

«Le isole – insegna Jünger – sono patria nel senso più profondo, ultime sedi terrestri prima che abbia inizio il volo nel cosmo. A esse si addice non il linguaggio, ma piuttosto un canto del destino echeggiante sul mare. Allora il navigante lascia cadere la mano dal timone; si approda volentieri a caso su queste spiagge» (Terra sarda). E la sua opera fu un’isola di luce lontana dalla baruffa letteraria del Novecento, oasi per gli spiriti assetati di libertà.

L’anno è il 1895. Röntgen era vicino alla scoperta dei raggi X; in Francia esplodeva l’affaire Dreyfus. Amava ricordare questi due avvenimenti, Ernst Jünger. Essi attraversarono tacitamente la sua vita e le sue riflessioni, le quali non sono altro che lo specchio di un secolo: quel Novecento veloce e potente come il fulmine di Eraclito, fulmine che «governa ogni cosa», come era scritto sopra la soglia della baita di Heidegger nella Selva Nera. La scoperta di Röntgen aprì il secolo della tecnica, dando la possibilità all’uomo di “vedere l’invisibile”, di osservare ciò che al microscopio era precluso, di sviluppare la ricerca sull’atomo e sulla fissione nucleare. Cinquanta anni separarono la tanto casuale quanto fortunata scoperta del 1895 da Little Boy, dolce artificio statunitense, che Hiroshima ricorda come fuoco celeste: meno modesto del giottesco bagherino luminoso di San Francesco, più furioso dell’infuocato carro del Libro dei Re, dipinto da Roerich sulle calde tonalità del rosso. L’atomica non lasciò niente; non rimase a terra il mantello che a Elia cadde durante l’ascesa. Chi ha vissuto il Novecento ha timore dell’uomo più che di Dio, le cui distruzioni narrate nell’Antico Testamento sembrano delle grazie in confronto ai massacri di due guerre mondiali.

Il caso Dreyfus inaugurò invece l’arma migliore delle democrazie occidentali: l’opinione pubblica, lama dotata della più affilata critica, aumentò il grado di incertezza politica, incassando una vittoria sulle baffute e polverose forze conservatrici. Il secolo passato è stato mutevole come l’acqua, oltre che terribile come il fulmine. Ernst Jünger è nato così: con l’invito a riflettere sulla tecnica e sulla politica, ma senza cadere nella spirale della sola contemplazione. Il tempo dell’uomo è limitato, l’educazione costosa. Alla contemplazione riunì l’azione, ma lo fece in modo più armonico e costante del giapponese Mishima, altro equilibrista a metà tra la luce notturna del pensiero e quella diurna dell’atto senza scopo. La bellezza, ne siamo suggestionati, è un tramonto: il momento in cui le forze lunari e solari si dividono il campo, e contemplazione e azione diventano Uno, nell’ascesa di un pilota verso la stella più vicina, su un affilata lama dei cieli. Mishima in Sole e acciaio insegna che «corpo e spirito non si fondono mai».

Jünger lottò con l’acciaio, quello dell’artiglieria inglese e francese, sul fronte occidentale. E, checché ne dica un beffardo adagio militare, non bastò la colazione a tenere insieme anima e corpo: ci volle ben altro. Già nel 1913, appena maggiorenne e fuggito dall’ambiente borghese della casa familiare, si arruolò nella Légion étrangère, covo di avventurieri e delinquenti più che di disciplinati soldatini. L’esperienza algerina a Sidi-bel-Abbès, a suo dire «avvenimento bizzarro come la fantasia», fu pubblicata in forma di confessione romanzata nel 1936, con il titolo di Afrikanische Spiele (Ludi africani). Ma Jünger allora era già noto per le sue imprese nella Prima guerra mondiale. Rimpatriato dall’Africa per l’intercessione del padre Ernst Georg Jünger, farmacista confidente più con la vetreria da laboratorio che con le pallottole, accolse con gioia l’invito del 1914, arruolandosi come volontario nell’esercito del Kaiser Guglielmo II. Aveva da poco incontrato su carta ciò che stava per vedere sul fronte. Le letture di Friedrich Nietzsche lo gettarono tra le braccia della guerra come un vitello che, spinto al mattatoio, si sente nel suo palazzo reale. Ma la carne di Jünger non fu tenera come quella di un vitello, e sopravvisse con estremo ardimento a ben quattordici ferite, di cui l’ultima molto grave, passando da semplice fante a Strosstruppfüher (capo di commando d’assalto), fino all’onore di portare al petto due Croci di Ferro, una Croce di cavaliere dell’Ordine di Hohenzollern e una Pour le Mérite, riconoscimento di una volontà dura come il ferro della medaglia, privilegio che ebbero solo dodici ufficiali subalterni dell’esercito imperiale.

In una caserma della Reichswehr (madre della Wehrmacht), tra il 1918 e il 1923, scrisse i suoi primi libri, tra cui un titolo imprescindibile per chi subì (e subisce) il fascino della Grande guerra: In Stehlgewittern (Nelle tempeste d’acciaio), frutto della rielaborazione di appunti dalla trincea sotto forma di memorie belliche, pubblicato nel 1920. Il destino dell’opera fu diverso da quello di altri racconti di guerra. Non è Il fuoco di Barbusse, apparso in pieno conflitto, ma nemmeno il celebre Niente di nuovo sul fronte occidentale di Remarque. Se il successo di questi fu lesto e universale, In Stehlgewittern – pubblicato tardi in traduzione italiana (1961) – circolò in ambienti di destra, tra circoli militari, associazioni di reduci, gruppi nazionalisti e conservatori, i quali ne compresero solo in parte lo spirito.

L’esperienza bellica – descritta poi in altre memorie quali La battaglia come esperienza interiore (recentemente pubblicato per i tipi di Piano B), Il tenente Sturm, Boschetto 125, Fuoco e sangue – non solo aveva catturato la gioventù «come un’ubriacatura» ed emancipato le nuove generazioni di tedeschi dal «minimo dubbio che la guerra ci avrebbe offerto grandezza, forza, dignità», ma aveva il sapore dell’«iniziazione che non apriva soltanto le incandescenti camere del terrore, ma anche le attraversava». Le incessanti esplosioni degli shrapnels, angeli del cielo che più che nuove portano palle di piombo a lacerare la carne, furono soltanto uno degli aspetti più terribili di quella guerra tecnica, di materiali. Non è la Francia dipinta dagli impressionisti, quella di macchie e pennellate giustapposte, ma è terreno di mutilazioni, di corpi insanguinati e ricoperti di fanghiglia, di un cielo di pallottole. È la guerra di trincea. È il soldato «che canta spensierato sotto una volta ininterrotta di shrapnels», come immaginato con futuristica eccitazione da Marinetti.

E il giovane Jünger coglie tutto ciò con un nichilismo estetizzante, cristallizzato in una prosa magistrale. Il soldato e l’artista qui celebrano la loro intima parentela, giacché la guerra è un’arte e viceversa. Valgono le parole riferite ad Aschenbach, protagonista de La morte a Venezia di Thomas Mann: «Anche lui era stato soldato e uomo di guerra come alcuni dei suoi maggiori; poiché l’arte è una guerra, è logorante battaglia». In Stehlgewittern, libro ora dimenticato, ma tra i migliori romanzi sulla guerra, privo di enfasi e di retorica, è una splendida glossa a Novalis, spirito europeo e cristiano, nella sua esaltazione del dinamismo poetico della guerra. La notorietà procuratagli dal libro permise a Jünger un’attiva partecipazione a movimenti nazionalistici e antidemocratici e la collaborazione a giornali come «Arminius», «Der Vormarsch» e «Widerstand», rivista dell’amico nazionalbolscevico Ernst Niekisch. Fu nel primo dopoguerra che cominciò la sua produzione saggistica, incisa ne La mobilitazione totale, Il dolore, L’operaio. Hans Blumenberg non aveva torto quando affermava che Jünger è l’unico autore tedesco ad aver lasciato testimonianze di un confronto pluridecennale con il nichilismo.

Nella sua opera sono forti l’inevitabilità del suddetto confronto e la sfida a tale problema. Egli ha cercato il nulla, l’annientamento del vecchio mondo di borghesi, scienziati e parrucconi; lo ha inseguito, infaticabile, nel deserto (Ludi africani), nello sprezzo della vita di fronte alla guerra raccontato con uno stile secco e crudo, a tratti notarile (Nelle tempeste d’acciaio), nell’ebbrezza (Avvicinamenti. Droghe ed ebbrezza), nel dolore (Sul dolore), «equivalente metafisico del mondo illuminato-igienico del benessere» (Blumenberg, L’uomo della luna). L’annientamento dell’uomo passa per il suo innalzamento, per la pianificazione totale della società “mobilizzata” nel lavoro e nello studio, per la riduzione finale della persona nella monade tecnico-biologica prospettata nella metafisica de L’operaio, libro fondamentale, per nulla ideologico (anche in questo sta la sua grandezza) e tra i più crudeli e profetici del Novecento nelle tappe dell’evoluzione intellettuale del pensatore tedesco, testo oggetto di studio per due grandi filosofi come Martin Heidegger, che negli anni Trenta organizzò sul tema dei seminari privati, e Julius Evola, che ne fece un commento (L’operaio nel pensiero di Ernst Jünger).

Ma c’è un evento nel mezzo della vita del nostro, luminoso come quella cometa di Halley che Jünger contemplò due volte (Due volte la cometa). Mentre lo Stato totale del lavoro da lui immaginato andava realizzandosi, ecco una «svolta imprevista, che va annoverata tra gli eventi più importanti della storia spirituale tedesca» (ancora Blumenberg): Sulle scogliere di marmo, il diamante prezioso tra i piccoli vetrini luccicanti nell’asfalto. Soffermarvisi è d’obbligo. I precedenti biografici del libro chiariscono meglio la svolta. Come ebbe a dire Goebbels, Ministro della Propaganda del Terzo Reich, «abbiamo offerto a Jünger ponti d’oro, ma lui non li volle attraversare». L’insofferenza dello scrittore per i modi pacchiani e volgari del Partito Nazionalsocialista gli procurò antipatie tra i gerarchi: la stampa smise di parlare dei suoi libri e la Gestapo gli perquisì la casa. Nel romanzo decisivo per la sua vita, egli descrive un Paese – la Marina, in cui ogni elemento sociale e politico è in armonia – minacciato da un pericoloso popolo di confine, barbaro, portatore di violenza e distruzione, dallo stile terribile e plebeo, guidato dal Forestaro (figura che molti identificarono con Hitler, altri con Stalin).

La canaglia del bosco si muove contro la civiltà, l’anarchia nichilistica contro le forze della Tradizione. I due protagonisti, due fratelli (allusione all’autore stesso e a suo fratello, Friedrich Georg), sono supportati da quattro personaggi: Padre Lampro, dietro cui si può scorgere la Chiesa, o almeno la forza spirituale della religione; Belovar, vecchio e coraggioso barbuto a rappresentanza del vecchio mondo rurale; di nobile stirpe, invece, il principe Sunmyra, la cui testa mozzata dopo un’eroica impresa è recuperata dal protagonista e diventa oggetto di rituali; infine Braquemart, bellicoso sodale del principe ed effigie del nobile intellettuale nichilista, che interpreta la vita come meccanismo le cui ruote motrici sono la violenza e il terrore, uomo di «fredda intelligenza, sradicata e incline all’utopia». Chiunque abbia confidenza con la letteratura jüngeriana ricorderà le parole che aprono Sulle scogliere di marmo: «Voi tutti conoscete la selvaggia tristezza che suscita il rammemorare il tempo felice: esso è irrimediabilmente trascorso, e ne siamo divisi in modo spietato più che da quale si sia lontananza di luoghi». La ricerca della bella morte in guerra fa spazio alla «vita nelle nostre piccole comunità, in una casa ove la pace regni, fra buoni conversari, accolti da un saluto affettuoso a mattina e a sera». A chi vive l’esistente come poesia non resta altro che chiedere asilo ai manieri della propria interiorità, confidando nella resistenza dei nobili contro il nulla, nella sublimazione di tutto nel fuoco catartico dello specchio di Nigromontanus.

Fu Hitler a salvare Jünger da morte certa. Il Forestaro apprezzava la penna che lo tratteggiò. Lo salvò anche dopo il 20 luglio del 1944, data del celebre attentato al Führer. Se è vero che non furono trovate prove della collaborazione tra gli attentatori e Jünger (che durante la Seconda guerra mondiale si occupava dell’ufficio di censura a Parigi, come ufficiale dello Stato Maggiore), lo è altrettanto il fatto che i sospetti su di lui erano più che forti, tanto da fargli recapitare un’espulsione dall’esercito per Wehrunwürdigkeit (indegnità militare). Era definitivamente finito il tempo dell’eroe di guerra, cominciava quello del contemplatore solitario. Sottoposto a censura durante l’occupazione alleata, sorte condivisa con gli amici Martin Heidegger e Carl Schmitt (il quale era, tra le altre cose, padrino del secondo figlio di Ernst, Alexander Jünger), si ritirò nel paesino di Wilflingen, prima nel castello degli Stauffenberg (famiglia da cui proveniva Claus Schenk von Stauffenberg, organizzatore del fallito attentato a Hitler), poi nella foresteria del conservatore delle acque e delle foreste della stessa famiglia, edificio che fu sua abitazione fino alla morte.

Vasta è l’opera di questo grande scrittore tedesco. Fu il diarista del Novecento, interprete del suo spirito. La costanza con cui annotò fatti e riflessioni sui suoi diari è nota. Anche nella scrittura, Ernst Jünger mostrò coraggio: il diario è più di altre la forma stilistica attraverso la quale un pensatore o un letterato si mostra nella sua intima debolezza di uomo, sottoponendosi a una dilapidazione di credibilità; l’estrema rinuncia alla plasticità dell’artista in cambio dell’autenticità dell’origine dei propri pensieri. I diari completano gli altri scritti, dimostrando che Jünger non offrì prodotti, ma indicò vie. Lo fece in tutta la letteratura successiva a Sulle scogliere di marmo, da Heliopolis a Eumeswil, da Il libro dell’orologio a polvere a Al muro del tempo, da Il nodo di Gordio (dialogo a due voci con Carl Schmitt) a Oltre la linea (con Martin Heidegger). Proprio in quest’ultimo testo, composto da due scritti che omaggiano il sessantesimo giorno genetliaco del rispettivo interlocutore, avviene il confronto sul tema del nichilismo tra due dioscuri simbolici del tramonto vivo di un’epoca, un duello a colpi diretti nel quale ognuno, ça va sans dire, si compiace della maestria dell’altro. Interrogarsi sul nichilismo è, nel secondo dopoguerra, cercare una risposta alla domanda: quale poesia dopo Auschwitz?

Difficile condividere il giudizio di Evola sul secondo Jünger. Non fu un pluridecorato «normalizzato e rieducato», come ebbe a mugugnare il filosofo romano durante un colloquio con Gianfranco de Turris, ma un pensatore capace di profonde riflessioni, di analisi e previsioni rivelatesi tanto esatte quanto inquietanti. Fu uno dei pochi che riuscì a disvelare, con tormentata quiete, la patina ideologica che copre la realtà. Ecco, le ideologie. Egli non le amava, perché «un errore diviene colpa soltanto quando si persevera» (Sulle scogliere di marmo); rifuggì tutti gli ismi, ma si arrogò il diritto di vivere la vita come un esperimento, non come un processo soggetto a logiche limitative. «Il suffisso ismo ha un significato restrittivo: accresce la volontà a spese della sostanza» (Eumeswil). La sua scrittura è «espressione di ciò che è problematico, del qui e del là, del sì e del no», come si espresse Thomas Mann pensando a se stesso nelle Considerazioni di un impolitico.

 

L’intellettuale dissidente

 

Cecità: il degrado umano secondo Saramago

Josè Saramago

Considerato il capolavoro dello scrittore portoghese Josè Saramago, Premio Nobel per la Letteratura nel 1998, Cecità è un racconto-denuncia sulla violenza, la sopraffazione del potere, e la sospensione della ragione dal respiro universale.

In un tempo e un luogo non precisati,  l’intera popolazione, improvvisamente, diventa cieca per un’epidemia le cui cause sono oscure. Le persone colpite da questo male si trovano come avvolti in una nube lattiginosa e non ci vedono più. Le reazioni psicologiche dei protagonisti che non vengono mai identificati con i loro nomi, sono devastanti;  un’esplosione di terrore, panico e  violenza, e gli effetti della  patologia sulla convivenza sociale si riveleranno drammatici. I primi colpiti dal male vengono infatti rinchiusi in un ex manicomio per la paura del contagio e l’insensibilità altrui, e proprio in queste pagine Saramago mette in luce in maniera chirurgica tutto l’orrore di cui l’uomo è  capace. Nel suo racconto fantastico, lo scrittore portoghese  disegna la grande metafora di un’umanità bestiale e feroce, incapace di vedere e discernere; tutto questo porta all’ abrutimento, alla violenza, al degrado umano. Cecità rappresenta il trionfo della bestialità sulla razionalità umana, ma con uno spiraglio di speranza.

“La ragazza con gli occhiali scuri”, “la moglie del medico”, “il primo cieco”, “il vecchio con la benda nera”, Saramago definisce in questo modo i suoi personaggi, quasi a voler dimostrare come la società moderna non tenga in  considerazione l’identità delle persone, ridotte a bestie in lotta tra loro per la sopravvivenza, buttati per dirla alla Heidegger, nel mondo e dominati dall’angoscia, sentimento che tiene viva per l’uomo la minaccia della morte. Come fronteggiare tutto questo? Come uscirne? Scegliendo, dando un senso nuovo alla vita, cercando la luce e la salvezza della razionalità rappresentate da una donna ancora vedente. Lo scrittore fa coincidere  la cecità degli occhi e della razionalità con quella dell’anima dando scacco matto al potere, che a questo punto non serve più a nulla, vivendo tutti lo stesso incubo.

Tradizione e originalità si mescolano: la prima è data dal ruolo salvifico della donna, una moderna Beatrice e la seconda soprattutto nel linguaggio crudo, duro, destabilizzante (assenza di virgolette nei dialoghi, di punteggiatura, di paragrafi) che conferisce maggiore spietatezza al romanzo, in perfetta linea con la spietatezza del potere e degli uomini.  Cecità potrebbe  disorientare il lettore con il suo stile “animalesco” che però conduce alla commozione e al coinvolgimento emotivo, ma certamente è un libro da leggere assolutamente; Josè Saramago ci fa odiare noi stessi, è riuscito a rendere osceni, mostruosi e scandalosi quei comportamenti umani, resi anche con una certa fascinazione (“la banalità del male”) a cui purtroppo siamo abituati, davanti ai quali troppo spesso scrolliamo le spalle. Da questo punto vista Cecità è un’opera altamente morale che offre l’occasione per potere riflettere anche su tematiche filosofiche, antropologiche e religiose senza appesantire la narrazione.

Il contesto storico-culturale del Novecento

L’inizio del Novecento vive un periodo di grande espansione economica, grazie allo sfruttamento delle materie prime  nelle colonie, negli USA viene introdotta la catena di montaggio, mentre l’Italia conosce l’esperienza liberale e laica del governo giolittiano. Tuttavia la vera svolta storica si ha nel 1914 con l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando D’Asburgo a Sarajevo che porta l’Austria a dichiarare guerra alla Serbia. L’Italia, facente parte della Triplice Alleanza con Germania e Austria, inizialmente si dichiara neutrale ma la politica interna induce il Paese a schierarsi contro i suoi vecchi alleati. L’esercito italiano subisce una grave sconfitta a Caporetto, Cadorna subentra a Diaz, gli Austriaci sono respinti lungo il Piave e saranno definitivamente sconfitti  nella battaglia di Vittorio Veneto. Contemporaneamente in Russia ha inizio la Rivoluzione Russa e sale al potere Lenin; i trattati di pace firmati a Versailles infliggono delle pesanti penalizzazioni agli sconfitti: l’Impero austro-ungarico viene sciolto e la Germania è costretta a pagare ingenti debiti di guerra, nascerà la Repubblica di Weimar e una grave crisi economica sconvolgerà l’Occidente. L’Italia ha il Trentino Alto Adige e la Venezia Giulia.

Si rafforzano il nazionalismo e l’imperialismo, nascono i movimenti socialisti e i partiti comunisti (Comune di Parigi, Prima, Seconda e Terza Internazionale). Il capitalismo è il sistema dominante nel Novecento e gli intellettuali da un lato propongono nuove teorie e forme di avanguardia, dall’altro non riescono ad uscire dal sistema culturale burocratico; ma la maggior influenza nella letteratura (soprattutto a Trieste) l’assume senza dubbio Freud investigando su un territorio già intuito da diversi poeti e scrittori, quello dell’inconscio e della psicoanalisi. D’Annunzio è ancora preso come modello anche se si sente l’esigenza da parte di alcuni poeti di abbandonare questo “divismo” per abbracciare la quotidianità della vita e l’inutilità della poesia stessa. La prima vera avanguardia nel Noveceto, si ha con il Futurismo che entra in forte polemica con il passato attraverso le riviste “La Voce” (i cui collaboratori sono per una poesia estremamente soggettiva , traboccante di neologismi, anacoluti e accostamenti insoliti di parole) e “Lacerba” (che rilancia la letteratura frammentaria ed esaltando l’anarchia del genio).

Tuttavia già dal 1920 si assiste ad una fase di tendenze contraddittorie, tra sperimentazione e ritorno alla tradizione , quasi fosse un richiamo all’ordine di fronte alla violenza della guerra , e proprio  per questo che la classicità viene ora intesa  non più come un peso morto ma come un’eredità da conquistare. Uno dei primi ad attuare quella che non sarebbe più stata solo una tendenza è Montale; mentre Stalin in Russia e Hitler in Germania cominciano a sopprimere ogni forma di espressione avanguardistica. Anche l‘Italia subirà poi le forti pressioni del regime fascista.

Dopo la Prima Guerra Mondiale i regimi liberali entrano in crisi i regimi liberali a causa delle lotte operaie e dell’affermazione dei partiti  socialisti ; in questo clima instabile, tuttavia, trovano strada facile i regimi totalitari come è stato già accennato precedentemente: Nazismo in Germania, Comunismo in Russia, Fascismo in Italia, mentre gli USA vivono un forte incremento industriale  che porta ad una grave crisi economica nel 1929. Nel 1939 ha inizio la Seconda Guerra Mondiale con l’invasione nazista della Polonia che induce Francia e Gran Bretagna a dichiarare guerra alla Germania. Anche l’Italia entra in guerra, ma si sottovalutano sia la Gran Bretagna che l’Unione  Sovietica. Le  sorti della guerra cominciano a cambiare quando gli USA si schierano contro la Germania dopo aver subito, un anno prima, l’attacco dei Giapponesi.

Nel 1943 Mussolini cade e viene imprigionato. Pochi mesi dopo viene siglato un armistizio con gli Alleati, e Hitler fa  nvadere l’Italia divenuto ormai paese nemico e Mussolini, una volta liberato, fonda la Repubblica di Salò. Nel 1944 gli alleati sbarcano in Normandia e piegano  la Germania . Hitler si suicida. La guerra si conclude con la resa del Giappone a seguito del bombardamento atomico per  opera degli Stati Uniti; Mussolini viene ucciso dai partigiani. Il mondo ora è  diviso in due blocchi: quello occidentale rappresentato dagli Stati Uniti e quello orientale dall’Unione Sovietica. Capitalismo contro Comunismo, entrambi alla ricerca di alleati  per avere il predominio. Tutto questo sconvolge la cultura letteraria ed artistica del novecento che vede davanti a sé arretrare sempre più la democrazia, l’affermarsi della società di massa, del consumismo e di conseguenza le disparità economiche e disuguaglianze sociali. La poesia, sopratutto in Gran Bretagna è impegnata, civile, unita alla raffinatezza formale. Nasce l’industria del cinema ad Hollywood che influenzerà non poco la letteratura.

Anche il panorama filosofico del Novecento appare complesso che vede contrapporsi due scuole di pensiero opposte: la filosofia analitica e quella continentale. Sia gli analitici che i continentali vogliono rompere con la metafisica e la sua impostazione fondazionalista della filosofia optando per una filosofia che rifletta su sè stessa. Tra gli analitici spiccano i nomi di Wittgenstein e di Popper, tra i continentali quello di Heidegger. “Il trattato logico filosofico” di W. ha fatto scuola nella filosofia della scienza del Novecento; secondo il filosofo viennese quello che noi chiamiano pensiero rispecchia perfettamente la realtà costituita da fatti atomici, composti a loro volta da oggetti semplici. Il modo migliore per verificare la veridicità dei fatti è l’empirismo rifiutando, come i neopositivisti, la metafisica. W. inoltre è alla ricerca di una formulazione di un linguaggio universale ed elabora una teoria di giochi linguistici per arrivare ad asserire che ciò che dà significato alle parole è l’uso che se ne fa nel linguaggio comune.

Popper prende in analisi i ragionamenti e le teorie e giunge alla conclusione che l’induzione non esiste o quantomeno non può portare a nulla:

“Il fatto che per ogni problema esiste sempre un’infinità di soluzioni logicamente possibili è uno dei fatti decisivi di tutta la scienza; è una delle  cose  che  fanno  della  scienza  un’avventura  così  eccitante.  Esso  infatti  rende inefficaci tutti i metodi basati sulla mera routine. Significa che, nella scienza, dobbiamo usare l’immaginazione e idee ardite, anche se l’una e le altre devono sempre essere temperate dalla critica e dai controlli più severi.”

Secondo P. infatti noi siano tabula plena non tabula rasa e la ricerca inizia proprio dai problemi che vanno risolti  attraverso la formulazione di ipotesi. Ma la nostra conoscenza scientifica è congetturale ed ipotetica , problematica e fallibile e le nostre teorie sono falsificabili. Per questa concezione fallibilistica P. è considerato il teorico della democrazia e della società aperta, un liberale progressista, un ingegnere olistico, un riformista.

Tra i continentali Heidgger elabora il metodo storico ermeneutico (Scuola di Francoforte); nel suo capolavoro “Essere e tempo” prende in questione l’essere il cui problema coincide con l’apparire agli altri, per cui l’uomo è sempre in situazione, è gettato in essa, in un rapporto aperto verso il mondo. Esistere vuol dire possibilità di agire, quindi per H. la prassi precede la conoscenza, il modo di essere dell’Esserci è la sua esistenza ed è anche un essere per la morte.

Tuttavia H. ci tiene a distinguere il suo pensiero da quello esistenzialista per cui l’uomo non deve essere pià padrone dell’ente ma il pastore dell’essere:

“l’uomo è piuttosto gettato dall’essere stesso nella verità dell’essere, in modo che, così esistendo, custodisca la verità dell’essere, affinché nella luce dell’essere l’ente appaia come quel che l’ente è.”

Durante il Novecento, l’ontologia diviene ermeneutica, ovvero interpretazione del linguaggio, (l’Essere si svela nel linguaggio) rifiutando il modello storicistico per quanto riguarda la concezione dell’arte, la quale per H. plasma l’epoca in cui si sviluppa.

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