Per chi suona la sinistra. Renzi che si crede Maradona recluta Hemingway e Picasso per le primarie

Militante PD: Forza signori, forza, qui c’è la vera sinistra, ripeto, fresca di giornata, la vera sinistra signori, accorrete prima che finisca! Venghino signori, venghino! Ernest Hemingway si avvicina, incuriosito dalla scritta sopra il banchetto: Lingotto fiere, per chi suona la sinistra. Gli ricorda ovviamente il titolo del suo capolavoro, Per chi suona la campana. Decide di provare a entrare: Mi scusi, cosa succede qua dentro?

Militante PD: Lei chi è?
Hemingway: Io? Ernest Hemingway, lo scrittore, credo che abbiate ripreso il titolo del mio libro.
Militante PD: Come no! Vuole una tessera della sinistra?
Hemingway: Dipende che sinistra siete.
Militante PD: Aspetti guardo cosa è rimasto. Abbiamo queste – e l’assistente si passa tra le mani una tessera con scritto Pd, una con scritto Campo progressista, una con Sinistra italiana, una con Possibile, una con Articolo 1 – Movimento democratici e progressisti, poi di nuovo Pd, però è la sinistra burocratica di Orlando, e ancora Pd, però quella populista-rancorosa di Emiliano.
Hemingway è un po’ spaesato: Scusate, ma la sinistra non è una sola?
Il Militante PD ride: Ma lei da dove viene? Mica siamo in America, dove c’è il Partito democratico e basta: lì state uniti per vincere, qui ci dividiamo per vincere tutti…
Hemingway: … una poltrona in Parlamento.
Militante PD: Certo! Comunque le posso consigliare la sinistra di Renzi, la provi, ottima, moderna, veloce, mai concreta, praticamente si scioglie in bocca, le sembrerà di non sentirla.
Hemingway ci pensa un attimo: Sono un po’ perplesso.
Militante PD: Non sarà mica un gufo?
Hemingway: Come?
L’assistente lo capisce subito, non è un renziano, e corre dentro. Hemingway lo vede ritornare con Renzi.
Matteo Renzi: Carissimo Ernest come stai? Sono Matteo. Let’s call me Matthew!
Hemingway: Ma quello è Moby Dick!
Renzi: Esatto, la balena bianca, come la Democrazia cristiana che voglio rifare, non ti sembra grandioso? Entra, altri grandi ti hanno preceduto.
Hemingway decide di entrare, più per curiosità, che per convinzione.
Renzi: Ti vedo perplesso, non trattarmi come le tue mogli, mi raccomando!
Hemingway: In che senso?
Renzi: So che ne hai cambiate 4, non vorrei che avessi dubbi pure sul PD.
Hemingway: Resisterò stoicamente, come i miei personaggi.
Renzi: Bravo Ernest, anch’io mi sono sempre immedesimato in Robert Jordan, il tuo eroe di Per chi suona la campana, che si sacrifica per la causa. Anch’io sai avevo detto che lasciavo la politica, ma il Paese che farebbe senza di me? Io, come Jordan, rimango e lotto per gli altri, fosse per me mica rivorrei sedermi a Palazzo Chigi, ma gente come me deve eroicamente sacrificarsi.
Hemingway: Immagino quanto sia pesante per te, tutto quel potere, quei soldi, quel narcisismo.
Renzi: Esatto – non capisce l’ironia Renzi – abbiamo bisogno di intellettuali che ci capiscano.
Hemingway: Ci? Chi?
Renzi: Noi, noi Renzi.
Hemingway: Noi popolo renziano.
Renzi: No, no, noi Renzi, plurale magistratis.
Hemingway: Maiestatis vorrà dire?
Renzi: Perdoni il lapsus, sa vicende familiari.
Hemingway: Comunque chi sono questi intellettuali?
Renzi: Certamente, vieni che ti presento Pablo. – e lo porta dietro le quinte del Lingotto, dove un uomo è intento a portare un quadro nel camerino di Renzi – Segui lui, è il mio programmista, Pablo.
Hemingway segue quell’uomo chiamandolo: Pablo!

Quello si gira… E’ Picasso! Pablo Picasso!
Hemingway: Pablo, ma che ci fai qui?
Pablo Picasso: Sto portando il programma del Pd al segretario uscente.
Hemingway: Ma questo è un quadro!
Picasso: Sì, puro cubismo.
Hemingway lo osserva: Ma non si capisce nulla.
Picasso: Esatto… è il programma del PD.

Intanto dal palco si sente la voce di Graziano Delrio, ministro dei trasporti e delle infrastrutture, dire: E adesso salutiamo “el politico de oro” Diego Armando Maradona!

Renzi entra trionfale con la maglia del Napoli e un pallone ai piedi. Sia Hemingway che Picasso, ormai spostatisi sugli spalti, si girano…
Picasso: Si è dimenticato il programma! Ce l’ho qui il quadro!
Hemingway: L’ha chiamato Diego Armando Maradona e non se n’è accorto nessuno!

Picasso però sembra entusiasmarsi e urla: Passa! Passa!
Tutta la platea intanto urla Diego, Diego verso Renzi e questi, dando sfoggio di sé, tira una pallonata fortissima verso il pubblico… Il pallone prende in pieno il quadro di Picasso e trapassandolo colpisce in pieno la faccia del pittore scaraventandolo all’indietro.

Hemingway: Pablo! Il programma!
Ma la folla non se ne accorge neppure.

Hemingway trascina via il ferito, ma lascia stare il programma, cioè il quadro, perché Picasso prima di svenire gli dice: Lascia stare il quadro, tanto il programma di Renzi… è Renzi e basta, e la squadra di Renzi è sempre solo Renzi. Diego la palla la passava, era un leader ma non era egocentrico.

‘Il vecchio e il mare’, storia di una resistenza

Il vecchio e il mare (1952) è un opera dello scrittore Ernest Hemingway, quella che secondo lui gli procurò il Nobel del 1954. Il romanzo è ambientato a Cuba e narra delle vicissitudini di un povero vecchio pescatore, Santiago, il quale non riesce a pescare un pesce da 84 giorni. L’unico suo vero amico è Manolin, un giovane ragazzo a cui Santiago ha insegnato tutto sulla pesca. Ma Manolin, per volere dei genitori, non va da tempo a pescare con Santiago, a causa dell’enorme sfortuna che perseguita il vecchio pescatore e si trasferisce a bordo di un altra barca. Il ragazzo insiste a frequentare il vecchio e i due diventano inseparabili. L’85 giorno, Santiago decide di rischiare e di voler prendere un grosso pesce, per compensare i suoi 84 giorni di “riposo”. Si imbarca e prende il largo, comincia a posizionare le esce e dopo un po’ abbocca un grosso marlin, il più grosso che Santiago abbia mai visto.

La lotta col marlin è estrema e logorante, ma dopo circa 3 giorni il marlin viene catturato. Purtroppo per Santiago, la via del ritorno è lunga da percorrere e la sua buona pesca alletta parecchi pescecani che divorarono la preda del pescatore, seppure egli combatte come meglio può con remi, mazze e fiocine. Riusce a ritornare a casa di notte, dopo 4 giorni massacranti. L’indomani tutti i pescatori ammirano lo scheletro del pesce catturato da Santiago, uno dei pesci più grossi che si siano mai visti su quelle spiagge.

Il vecchio e il mare è la storia di una resistenza titanica opposta al destino e alla sventura. Il vecchio pescatore lotta con tutto se stesso non contro il mare, non contro un pesce, ma con il destino. Certe sue scelte portano a conseguenze che egli già conosce, ad esempio sa bene che se  egli è al largo con un marlin attaccato alla barca attirerà i pescecani, ma nonostante questa sua pre-coscienza dell’avvenire malevolo e sfortunato, egli non demorde e combatte più che può. Decide di consumare tutto se stesso nella lotta contro i pescecani non per vincere, non per masochismo, né tanto per uccidere i pescecani ma per rivendicare quello che più intimamente è suo, il mare.

La mer, come lo chiama il protagonista, si contrappone insieme al pescatore alla sventura, infatti la mer diviene amante di Santiago e non nemico da battere, e con il mare l’intera natura diviene l’emblema di un amore panteistico per il pescatore. Non odia niente della natura. A volte egli sembra odiare se stesso per il suo scomodo ruolo di killer della natura, quando va a pesca, ma riconosce in questo suo ruolo un volere naturale superiore che lo individua dalla parte del cacciatore e sa bene che quella parte è riprovevole, ma anche necessaria, mentre la parte del cacciato è sempre più comprensibile, ma anche ella diventa necessaria.

Nella lotta contro il marlin più volte il pescatore e il pesce si scambiano di ruolo, infatti a volte sembra che sia il pesce a cacciare il pescatore, rimorchiandone la barca e trascinandolo al largo, mentre altre volte sembra il contrario. Alla fine il vincitore è solo uno, Santiago.

Una volta che il pescatore ha vinto, la soddisfazione è enorme. Sa di aver battuto un suo fratello, ma sa anche che gli “ha voluto bene”, che non lo ha fatto per odio, ma con profondo rispetto. Dopo la vittoria, di lì a breve Santiago si trova ad affrontare la parte del cacciato, infatti i pescecani che sempre fanno parte della natura e soprattutto del mare, guastano 3 giornate di pesca con un solo giorno di razzie. La sconfitta per Santiago è catastrofica. Quando l’ultimo pezzo di pesce viene divorato voracemente dagli squali, il povero pescatore è ormai sfinito nel corpo e nello spirito e quasi rimpiange di aver pescato un così bell’essere della natura, imponendogli una fine immeritevole.

Gli squali a questo punto dovrebbero essere gli antagonisti, ma neanche lo sono. Il vecchio li combatte persino insultandoli, ma sa bene che essi non fanno altro che quello che ha fatto lui con il pesce precedentemente, stanno cacciando, sia pure la vittoria di qualcun altro, ma stanno cacciando come natura comanda. La sua battaglia è persa, ma non inutile. Per una volta ancora, egli ha sentito su se stesso la forza del mare, che insegna a non mollare mai (come il marlin ha fatto) e a saper rispettare il proprio ruolo naturale. L’opera stessa potrebbe essere tradotta in questa unica frase, altamente significativa. Il vecchio e il mare diventa Il vecchio è il mare, in una fusione che eleva un semplice uomo a un essere sapiente, forte e mutevole come il mare.

Celebre è la stroncatura del critico e sociologo Dwight Macdonald, secondo il quale il romanzo di Hemingway è un esempio di pessima letteratura, di quella categoria del kitsch da lui battezzata Midcult, Il vecchio e il mare, senza dubbio è una semplice metafora della condizione esistenziale dell’uomo (la vittoria nella sconfitta), non un capolavoro (a differenza di Addio alle armi e Per chi suona la campana), ma un classico senza tempo, un libro che probabilmente lo scrittore americano ha scritto solo per se stesso, ed per questo che non tutti riescono a capirlo e ad apprezzarlo fino in fondo, complice la scrittura scarna, poco coinvolgente (per alcuni noiosa), ma intrisa di poesia, di Hemingway, aspetto questo, rivoluzionario in quanto lo scrittore, rompendo con la tradizione, riesce a descrivere la condizione umana da una prospettiva totalmente nuova, presentandoci uno stile che potremmo definire giornalistico-poetico.

Elio Vittorini, traduttore creativo

Wiliam Saroyan, scrittore e drammaturgo statunitense, verso la fine degli anni ’40, fece un viaggio in Italia e decise di andare a trovare Elio Vittorini, che oltre ad essere conosciuto come scrittore era già noto come traduttore di romanzi. Le cronache dell’epoca raccontano che durante il loro incontro, i due furono costretti a colloquiare attraverso l’uso di bigliettini, in quanto Vittorini, non era in grado di parlare l’inglese, pur conoscendone la forma scritta. Tale incapacità è stata rimarcata anche da alcune affermazioni della moglie, Rosa Quasimodo:

La signora Rodanachi (una traduttrice che gli fu presentata da Montale) faceva a Elio la traduzione letterale, parola per parola, che al leggerla non si capiva niente. Lui, poi, a quelle parole dava forma. Sua era la costruzione, l’invenzione; non si legava a quelle parole fredde. Lui raccomandava sempre a lei di fare la traduzione letterale, precisa, […] frase per frase. E poi lui la trasformava in un romanzo. Erano romanzi suoi che traduceva.” (dal Corriere della Sera.it, forum scioglilingua)

Questo limite non ha impedito a Vittorini di diventare il più importante traduttore delle opere dei narratori americani e di portare gran parte della letteratura statunitense nel nostro Paese, in un momento storico in cui il fascismo ostacolava l’espandersi di quelle culture che provenivano da parte di Stati che erano considerati spregiativamente come demoplutocrazie, (ovvero dei regimi  in cui coloro che detengono la ricchezza mobiliare, banche, possiedono anche un peso politico specifico con il quale perseguono i propri interessi personali, camuffandoli per scelte effettuate per il benessere del popolo; in sostanza una plutocrazia che si traveste da democrazia).

Nato a Siracusa nel 1907, Elio Vittorini, scrittore e curatore editoriale, dopo la Liberazione dirige a Milano la rivista il <<Politecnico>> (1945-47), di stampo comunista. Tra i suoi incarichi più importanti : la direzione della collezione letteraria i “Getton”i presso Einaudi, la collezione Medusa della casa editrice Mondadori, e infine, la guida insieme ad Italo Calvino della rivista il <<Menabò>>, edita sempre da Einaudi.

Nonostante Vittorini sia conosciuto come scrittore (Uomini e no (1945), Le donne di Messina (1949), Le Città del mondo, publicato postumo 1969), egli è sempre stato particolatamente attratto dalla letteratura americana, per tale ragione nonostante conoscesse bene la lingua francese, negli anni ‘30 decide di cimentarsi come traduttore dall’inglese all’italiano. La sua attenzione è fortemente polarizzata verso la tecnica narrativa dei romanzieri a lui contemporanei, e dopo alcune sporadiche recensioni, inizia ad occuparsi, con costanza, di letteratura nordamericana, scrivendo alcuni articoli su Faulkner, seguito successivamente da un attento studio su E.A. Poe. Il lavoro da traduttore  lo porta alla conoscenza approfondita dei testi di molti scrittori, come Faulkner, Caldwell, Steinbeck. Uno dei suoi autori preferiti rimane Hemingway con il quale instaura un’amichevole corrispondenza, cosa che alla lunga indurrà lo stesso Hemingway a scrivere la prefazione di Conversazione in Sicilia, per la versione americana.

In Italia, quindi, dal 1930 al 1940 si da vita al “decennio delle traduzioni”, come è stato definito da Cesare Pavese, un lasso di tempo di tempo durante il quale un gruppo di intellettuali veicolano l’ingresso nel nostro Paese, di gran parte della letteratura americana, con l’intento di diffonderla e di riempire quel vuoto culturale che si era creato a causa del dominio fascista.

C’è da dire che, nonostante Vittorini sia stato particolarmente affascinato dagli USA, non ha mai visto da vicino quei luoghi che nel suo immaginario rappresentano una terra  ancora inesplorata e pura. La mancanza di un approccio diretto alle usanze statunitensi e l’aver imparato la lingua inglese da autodidatta, hanno conferito alle sue traduzioni una sorta di voluta imprecisione. I suoi lavori vengono marchiati come infedeli, delineati da un’ approssimazione che va ben oltre il naturale allontanamento dal testo originale, tant’è che alcuni critici negano il valore di traduzioni ai suoi scritti “in quanto si opera un lavoro di acquisizione creativa, che cerca di riplasmare il testo” (Gorlier). Si potrebbe definirle vere e proprie riscritture, considerato le numerose omissioni, aggiunte, interpolazioni, presenti all’interno delle sue trasposizioni. Sostanzialmente Vittorini non può essere considerato un traduttore in senso stretto, in quanto le sue traduzioni sono finalizzate ad esprimere la propria estetica, la prosa, e perché no, anche la visione che egli ha del mondo. Tutto ciò è confermato dallo stesso autore in alcune lettere a Enrico Falqui:

Riguardo agli americani io non rinnego affatto la loro influenza: so che traducendoli ho ricevuto grande aiuto nella formazione del mio linguaggio. Ma allo stesso tempo so di averli tradotti in un mio linguaggio: non preesistente e non fisso; bensì in evoluzione.

Rispetto a Pavese, che del testo originale traspone alcuni termini stranieri, rendendo la traduzione meno familiare per i lettori, Vittorini opera esattamente al contrario: lima al massimo le differenze culturali, cosicché il messaggio sia più fruibile. D’altronde è la prima volta che in Italia ci si avvicina ad autori del calibro di Steinbeck o Hemingway  e probabilmente l’attenzione di Vittorini verso la contestualizzazione di tale opere, estraniandole dalla cultura di partenza e adattandole, invece, alla cultura di arrivo, risulta in fin dei conti una strategia vincente, visto il successo che questi scrittori hanno ottenuto nel nostro Paese.

Francis Scott Fitzgerald: l’anima americana di una generazione perduta

Quando vi trovate in una libreria, magari in uno di quei pomeriggi d’autunno densi e piovosi, la cosa migliore che può capitarvi è arrivare per caso sotto il pannello della lettera F, trovare in un angolo i libri di Francis Scott Fitzgerald, innamorarvene e farvi la scorta per l’inverno.

La parabola della voce più significativa dell’età del Jazz e della generazione perduta è subito evidente dai luoghi di nascita e di morte: venuto al mondo a S. Paul, nel Middlewest, il 24/09/1886 lo lascia ad Hollywood il 21/12/1940 a soli cinquantaquattro anni. Quella di F. S. Fitzgerald è una storia fatta di successi vertiginosi e di cadute disperate, degna di uno dei pilastri di tutta la letteratura del novecento. In un articolo del 1933 lo stesso Fitzgerald scrive:

“Tendenzialmente, noi scrittori dobbiamo ripeterci. Nella nostra vita facciamo due o tre esperienze importanti e toccanti […]. Poi impariamo il mestiere, più o meno bene, e raccontiamo le nostre due o tre storie – ogni volta camuffate in modo diverso – forse dieci volte, forse cento, finchè la gente ci sta ad ascoltare”.

Le esperienze dello scrittore parlano d’infanzia e d’abbandono. La prima riguarda la sua famiglia: cresce infatti da borghese decaduto nel Minnesota, fortemente segnato dalle condizioni sociali dei genitori: la madre è figlia d’immigrati irlandesi arricchiti mentre il padre americano mette in fila un fallimento dopo l’altro, dovendo così accettare di essere pagato dal suocero sostanzialmente senza lavorare. Il carattere del giovane Fitzgerald si forma dunque ereditando l’inconcludenza dal padre, un’ambizione sociale tanto spiccata quanto irrealistica dalla madre e  il resto  mettendocelo di tasca propria: l’ossessione per una gioventù perfetta e la fragilità di chi è dotato di un talento enorme.

La seconda esperienza porta banalmente il nome di una donna: Ginevra King. Francis Scott è consapevole della sua bella presenza ma “Mi mancavano le due cose più importanti” – scrive- “il carisma e il denaro. Tuttavia avevo le due cose che nell’ordine vengono subito dopo: un bell’aspetto e l’intelligenza. Perciò conquistavo sempre la ragazza più ambita”. Peccato che questa definizione di se non fosse precisa, soprattutto quando si parlava di donne fornite sia di carisma sia di denaro. E Ginevra King, oltre che fortemente carismatica, era certamente molto ricca.

Tra i due nasce una storia destinata a durare qualche tempo, abbastanza da permettere a F.Scott di idealizzare il loro rapporto: infine lei lo lascia con noia ed indifferenza sposando un uomo abbiente. Ecco che arriviamo alla matrice di gran parte dei romanzi e dei racconti fitzgeraldiani, il ragazzo povero disperatamente innamorato della donna ricca, con cui non può coronare il suo sogno d’amore a causa della propria condizione sociale. Questa è la storia di Amory Blane e Rosalind Connage in Di qua dal paradiso, di Dexter Green e Judy Jones in Sogni invernali; è l’ingiustizia di Jay Gatsby e Deasy Fay Buchanan ne Il Grande Gatsby. A conferma di ciò ne Il Grande Gatsby, Fitzgerald inserisce come ostacolo nella relazione tra Jay e Deasy lo stesso tipo di uomo che fu ostacolo nel suo rapporto con Ginevra; un uomo che di professione fa il ricco banchiere e che nel tempo libero gestisce una tenuta di cavalli: nel caso letterario ci troviamo di fronte al personaggio Tom Buchanan che, appunto, deve il proprio io all’ostacolo di Scott, il padre di Ginevra.

Negli anni successivi a questa storia d’amore Fitzgerald lascia gli studi all’università di Princeton (dove era membro del prestigioso “Triangle Club”, circolo di sceneggiatori teatrali per gli spettacoli del college) per arruolarsi come volontario nell’esercito e partecipare allo sbarco in Europa della prima guerra mondiale. Inviato da un capo d’addestramento all’altro non mise tuttavia mai piede sul vecchio continente: non la prese bene. Quando ancora era amico di Hemingway, egli diceva sempre di invidiarlo per la sua partecipazione al conflitto che, a detta di Fitzgerald, gli garantì una vita molto più interessante della sua, piena di esperienze e di incontri con grandi personaggi della storia (Hemingway intervistò infatti, tra gli altri, Lloyd George e Mussolini). In questo lasso di tempo Scott conosce , ad un ballo per ufficiali, la futura moglie Zelda: la sua figura era perfettamente sovrapponibile a quella di Ginevra sia per estrazione sociale sia per personalità. Prendendo spunto dalla vita privata, Fitzgerald crea un canone di donna fitzgeraldiana standard che popola ogni sua pagina, ogni suo racconto, ogni suo romanzo: una donna volubile ma determinata, bella, sfrontata, volta solo al divertimento e all’assenza di pensieri gravi che paradossalmente la inseguono e le tormentano. Per intenderci, una donna come Brett di Fiesta, capolavoro di Hemingway (Ernest deve infatti molto a Fitzgerald, fu Scott che lo fece conoscere in America e gli procurò contratti, gli presto dei soldi, lo idealizzò come un’eroe). Insieme a Zelda, Scott vagabonda per il mondo facendo spola tra la mondanità americana e la vecchia mamma Europa in cerca di risparmio economico ed ispirazione: Italia, Francia, Inghilterra. Nonostante guadagnasse 36.000 dollari all’anno (cifra considerevole per l’epoca) il suo stile di vita non gli permetteva infatti di mettere da parte neanche un dollaro.

Inseguito la crisi del ’29 segna la fine di un’epoca; la fine sì dell’età del Jazz e delle disponibilità economiche, ma anche di quella frizzante spensieratezza che teneva in vita i ruggenti anni ’20 e Fitzgerald stesso. La fine di un uomo. Zelda è costretta a rivolgersi ad una clinica per i suoi sempre più frequenti attacchi di schizofrenia: un giorno segue un corso di danza, un giorno tenta il suicidio, un giorno tradisce Scott con un aviatore francese. Fitzgerald entra in depressione e cade definitivamente nell’alcolismo più nero; impiegherà anni per finire il suo quarto romanzo Tenera è la notte. Firmato un importante contratto con la MGM per una collaborazione nel mondo del cinema, Scott muore ad Hollywood nel quaranta tra attacchi di panico e di cuore.

Nella logica dell’opera di uno dei più grandi esponenti della tecnica cinematografica è costantemente rispettata l’alternanza tra romanzi e raccolte di racconti (pagati meglio dagli editori e per questo prodotti maggiormente da un Fitzgerald sempre alla ricerca di soldi, scritti alle volte tutti di un fiato arrivando a ventuno ore di lavoro): Maschiette e filosofi , Belli e dannati, Tutti i giovani artisti, La sveglia, Gli ultimi fuochi (uscito postumo).

Lo scenario che fa da sfondo alle opere dello scrittore americano è un vortice dove Jazz, belle epoque, caffè francesi, dove disagio generazionale e letteratura pervadono ogni cosa; dove cinismo e romanticismo sono inscindibili, dove si è costantemente ubriachi: per tre settimane di fila per aver perso la fidanzata, in luna di miele quando la si è sposata, per i suoi primi segni di schizofrenia. Una vita in cui, per essere capita, bisogna calarsi con tutti i cinque sensi e possibilmente anche con il sesto. Ritrovando nelle sue pagine quell’America leggera, frivola, capricciosa e spregiudicata che tanto si reincarna in lui e in Zelda.

“Il sergente nella neve”, il capolavoro di Mario Rigoni Stern

Mario Rigoni Stern

<<Ho ancora nel naso l’odore che faceva il grasso sul fucile mitragliatore arroventato. Ho ancora nelle orecchie e sin dentro il cervello il rumore della neve che crocchiava sotto le scarpe, gli sternuti e i colpi di tosse delle vedette russe, il suono delle erbe secche battute dal vento sulle rive del Don. Ho ancora negli occhi il quadrato di Cassiopea che mi stava sopra la testa tutte le notti e i pali di sostegno del bunker che mi stavano sopra la testa di giorno>>. L’incipit del capolavoro dello scrittore veneto Mario Rigoni Stern, “Il sergente nella neve” (1953) racchiude memoria e poesia, natura e testimonianza in quello che è senza dubbio uno dei romanzi più belli e classici del Novecento, un diario di guerra che racconta come in circostanze tragiche si possa e si debba mantenere la propria umanità. Uomini che restano uomini tra le barbarie della guerra, uomini che hanno paura, freddo, fame, ma che sanno addirittura ridere delle proprie disgrazie e considerare i nemici semplicemente degli uomini come loro, i russi vengono descritti come gli italiani, nella loro fragilità: <<Sono giovani e non hanno la faccia cattiva, ma solo seria e pallida, e compunta, guardinga>>.

Il cammino letterario di Stern comincia proprio in questo modo, durante la guerra:  Stern è un  giovane alpino, sergente maggiore scampato alla ritirata di Russia dell’esercito italiano tra la fine del 1942 e l’inizio del 1943, capace di guidare un gruppo di soldati  allo sbando fuori dalle linee di fuoco. Divenuto improvvisamente responsabile delle vite di molti uomini, viene catturato dai tedeschi ed è costretto a sopravvivere per più di due anni nei lager di Lituania, Slesia e Stiria. La prigionia  dà modo allo scrittore di riflettere sulla sofferenza ma anche sul valore della letteratura, che diventa veicolo per le sensazioni e i ricordi, luogo della testimonianza e della memoria, della fratellanza e della riscoperta del significato di essere uomini, che  coincide soprattutto con il non lasciarsi sopraffare dalle bruttezze della Storia , dal relativismo delle circostanze.

Leggendo “Il sergente nella neve” si è paradossalmente pervasi da un senso di pace e di tranquillità, è straordinario e commovente, quasi infantile come Stern riesca a raccontare il dolore e la disperazione, senza retorica e crudezze, ci tocca e ci emoziona con immediatezza e delicatezza,  trasmettendoci un profondo senso di  moralità. Stern descrive la nostra essenza che fa da eco a quella della montagna e del bosco, la semplicità della quotidianità pur trovandosi una situazione estrema  dalla quale però emerge la certezza della speranza. Il modo di narrare utilizzato dallo scrittore accarezza il lettore, conducendolo dolcemente a scoprire i  silenziosi segreti della natura, con le sue stagioni e fenomeni atmosferici, dai quali l’uomo può trarre forza.

Particolare ed universale si fondono magicamente; questa è la cifra di Stern, lo si nota anche nei romanzi successivi “Il bosco degli urogalli”, “Storia di Tönle”, “Le stagioni di Giacomo”. Come Hemingway in “Addio alle armi”, Mario Rigoni Stern ha portato nuova linfa, freschezza e serenità nel romanzo italiano, fattore che fa de “Il sergente nella neve” un classico imperdibile del Novecento, statico e plastico nella prima parte e incalzante e dinamico nella seconda, non è avvolto dalla ricercatezza formale ma dall’esperienza diretta che fa esprimere l’autore in un certo modo, che gli fa descrivere  quel microcosmo in cui si trova in un certo modo. Lo scrittore di Asiago osserva; non scrive con la testa ma con gli occhi e riporta tutto ciò che vede, sente e annusa sulla carta con grande precisione.

Il sole, la neve, l’inverno, la primavera, il bosco, l’attesa di ritornare a casa, l’uomo che guarda in faccia al suo simile senza provare vergogna perché non si è lasciato dominare dalla brutalità e dalla violenza della guerra, dalle circostanze che, ormai è assodato che costituiscano un’ attenuante ai nostri gesti ed azioni più esecrabili. Come afferma  Elio Vittorini nel manoscritto con una esplicazione che volle aggiungere, “Una volta tanto le circostanze avevano portato degli uomini a saper restare uomini, […] Se questo è successo una volta, potrà tornare a succedere.Potrà succedere a innumerevoli altri uomini e diventare un costume, un modo di vivere”.

Succederà?

“Intemperie”, il successo inaspettato di Jesus Carrasco

In Spagna ha avuto dieci edizioni in tre mesi.  Stiamo parlando di “Intemperie”, dello spagnolo Jesus Carrasco; un romanzo senza tempo, protagonisti senza nome, un paesaggio duro, aspro. Un successo inaspettato.

In un romanzo in cui le parole spingono alla ricerca della salvezza, Jesus Carrasco, porta dinanzi agli occhi dei lettori due protagonisti, un uomo e un bambino. Il bambino che cerca una via di fuga, una luce, ancora una speranza, un ultimo barlume. Cerca, forse, quell’uomo, quella persona, a cui potersi affidare, aggrappare. Una figura diversa da tutte quelle che, pur potendo e dovendo, non hanno voluto salvarlo, proteggerlo, gettandolo in una realtà che, a un bambino, mai dovrebbe appartenere.

In un luogo e in un tempo senza speranza alcuna, il bambino fugge dall’ufficiale cui è stato concesso, per i suoi piaceri, dallo stesso padre. Una corsa vana senza quella figura, un pastore incontrato per caso, che possa salvarlo da chi desidera ardentemente, per i propri piaceri, perversi e crudeli, quella carne ancora troppo giovane, ingenua, ma in grado di correre, di desiderare una vita in cui esista ancora quella dignità che sembra essergli stata negata, sottratta.

E così due anime si incontrano, bisognose l’una dell’altra, in questa terra desolata. Un paesaggio, duro e aspro, che rappresenta uno specchio dell’animo umano. Una natura che mostra ciò che l’uomo è, ciò che non è, ciò che dovrebbe essere, ciò che sente, che fa male, fa paura, ma può salvare ancora.  Due figure che, il nostro autore, immerge in un mondo da cui, entrambe forse, hanno bisogno, in modi diversi, di essere salvate. Un uomo, taciturno e silenzioso, con le sue capre e il suo cane; un bambino con le sue paure, la sua fragilità, quella forza che lo spinge a scappare e quella voglia e quel bisogno di credere ancora.

Protagonisti, come già accennato, due figure senza nome proprio. Un adulto che possa ancora rappresentare quel punto di riferimento ormai perduto o, forse, mai avuto. Un capraio che vede in quello sguardo di bambino, quel dolce contatto mai avuto o forse avuto poco, in quella che intuiamo essere stata una vita lunga, difficile, solitaria.

Un romanzo, quello di Jesus Carrasco, accostato a “Il vecchio e il mare” di Hemingway, che tocca ogni fibra del nostro essere. Ogni parola, che grida nel silenzio di quella terra, è un battito accelerato, un cuore che si ferma. Un romanzo teso e che tende le nostre corde fino all’ultimo istante, fino a quell’ultima parola.

Ed è qui che giunge la sorpresa, perchè questo che rappresenta uno dei più bei romanzi degli ultimi anni, non l’ha scritto un autore noto, ma un quarantenne spagnolo, un esordiente cresciuto nella campagna dell’ Estremadura. Un uomo che ama la semplicità, arricchita da quei mondi che solo la lettura può regalare, offrire, descrivere. Un lavoro da copy pubblicitario, una moglie sivigliana, due bimbe, una bicicletta e un orto che cura con gli amici.

In un’intervista a Elle.it, ha parlato del suo legame con la scrittura, un legame che esiste da sempre ma che, negli ultimi 20 anni, è cambiato, cresciuto, portandolo ad essere pronto a costruire quella storia che potesse piacere anche a noi lettori. E così è stato.

Jesus Carrasco, con uno sguardo magnetico, il baffo alla Don Chisciotte, due occhi grandi e penetranti, idee chiare e limpide fatte di forza e semplicità, entra nelle nostre viscere con un linguaggio che mostra un’opera d’arte. Ed è questa la forza di ogni singola parola scritta tra queste pagine. Quelle parole, pura poesia, che giungono diritte al cuore, quelle parole con cui, Jesus Carrasco, ha rapito la nostra attenzione e ci ha portato in un mondo in cui una natura desolata, incontra due anime pronte ad aprirsi, a sperare, a guardare oltre, ad imparare l’una dall’altra. Perchè da soli, questo splendido viaggio che è la vita, non ha sostanza.

E poi una dedica. La sua. Al padre. L’uomo che l’ha avvicinato alla lettura, l’uomo di cui racconta attraverso la semplice descrizione di un’immagine. ”  Forse la scintilla che mi spinto ad arrivare fin qui è mio padre, la persona a cui è dedicato il romanzo. Ho sempre l’immagine di lui seduto a leggere in poltrona. È stato il primo che ho visto leggere e colui che mi ha indotto con l’esempio ad avvicinarmi alla lettura e in seguito alla scrittura”. (CIT. Elle.it di  Jesus Carrasco)

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