Cosa serve per scrivere un buon racconto, secondo la scrittrice Flannery O’Connor

La scrittrice Flannery O’Connor (25 marzo 1925 – 3 agosto 1964) ha scritto due romanzi e 32 racconti. Quello che segue è un estratto della raccolta Nel territorio del diavolo.

La narrativa opera tramite i sensi, e uno dei motivi per cui, secondo me, scrivere racconti risulta così arduo è che si tende a dimenticare quanto tempo e pazienza ci vogliano per convincere tramite i sensi. Se non gli viene dato modo di vivere la storia, di toccarla con mano, il lettore non crederà a niente di quello che il narratore si limita a riferirgli. La caratteristica principale, e più evidente, della narrativa è quella di affrontare la realtà tramite ciò che si può vedere, sentire, odorare, gustare e toccare.

È questa una cosa che non si può imparare solo con la testa; va appresa come un’abitudine, come un modo abituale di guardare le cose. Lo scrittore di narrativa deve rendersi conto che non è possibile suscitare la compassione con la compassione, l’emozione con l’emozione, o i pensieri con i pensieri. A tutte queste cose bisogna dar corpo, creare un mondo dotato di peso e di spessore.
Ho notato che i racconti dei principianti sono solitamente infarciti di emozioni, ma di chi siano queste emozioni spesso è difficile determinare. Il dialogo procede sovente senza il sostegno di personaggi che sia dato vedere, mentre il pensiero fuoriesce incontenibile da ogni angolo del racconto. Ciò avviene perché il principiante è tutto preso dai suoi pensieri e dalle sue emozioni, anziché dall’azione drammatica, ed è troppo pigro o ampolloso per calarsi nel concreto, dove opera la narrativa. È convinto che il giudizio stia da una parte e le impressioni dei sensi dall’altra. Per lo scrittore di narrativa, invece, il giudizio comincia proprio dai particolari che vede e da come li vede.

I narratori che non danno importanza a questi particolari concreti peccano di quella che Henry James definiva “specificazione fiacca”. L’occhio scivola via sulle parole e l’attenzione si assopisce. Insegnava Ford Madox Ford che se si mette un personaggio in un racconto anche solo per il tempo necessario a vendere un giornale, non per questo devono mancare quei particolari che lo rendono visibile agli occhi del lettore.
Ho un amico che sta prendendo lezioni di recitazione, a New York, da una signora russa che ha fama di essere un’ottima insegnante. Mi scriveva questo amico che per tutto il primo mese non hanno pronunciato neanche una battuta, ma solo imparato a guardare. Imparare a guardare, infatti, è la base per l’apprendimento di qualsiasi arte, tranne la musica. Molti dei narratori che conosco dipingono, non perché siano particolarmente dotati, ma perché dipingere li aiuta a scrivere. Li costringe a osservare le cose. Scrivere narrativa non è tanto questione di dire le cose, quanto piuttosto di mostrarle.
Affermare tuttavia che la narrativa procede per particolari non significa limitarsi ad accumularli meccanicamente l’uno sull’altro. I particolari devono rientrare in un disegno complessivo, e ogni particolare va messo al servizio dell’intento del narratore. L’arte è selettiva. Quello che c’è è essenziale e crea movimento.

 

https://www.internazionale.it/notizie/2015/03/25/flannery-o-connor-consigli-scrittura

‘Il grande Gatsby’ di F. S. Fitzgerald, una riflessione sulla propria generazione

Il celebre romanzo di Francis Scott Fitzgerarld, Il grande Gatsby (titolo tradotto nel 1950 da Fernanda Pivano) ha accresciuto il suo successo anche grazie alle quattro versioni cinematografiche, specialmente quella di Coppola con Robert Redford e l’ultima di Luhrmann con Di Caprio. Un’opera sulla vacuità, sull’assenza dei veri valori, degli affetti autentici, sulla solitudine, sulla noia, sul dramma del mito americano.

Anni Venti. New York. Siamo nell’età del jazz, del proibizionismo, dei nuovi ricchi, della finanza, dell’emancipazione, dell’America che sta fondando il suo mito distruggendo tutti gli altri. La storia è quella di Jay Gatsby che vuole ad ogni costo riconquistare Daisy Fay ed ogni sua azione è tesa a quell’unico scopo: l’enorme casa comprata a West Egg (toponimo inventato da F. S. Fitzgerald per Long Island) sulla sponda opposta esattamente di fronte alla casa di Daisy, le lussuose feste, tutto per riconquistare la sua adorata  che nel frattempo ha sposato il ricco Tom Buchanan.
Oltre l’amore nel romanzo si indagano ben altri sentimenti, ben altre emozioni che dipingono e definiscono a pieno i personaggi dell’America che sta crescendo. La mancanza di affetti autentici, la solitudine, l’incomunicabilità e l’indifferenza. Alle sensazionali feste di Gatsby nessuno parla, nessuno si conosce, tutti sono entusiasti di incontrare gente sconosciuta; nessuno è interessato davvero all’altro, nessuno conosce davvero Gastby e nessuno sembra nemmeno interessato a conoscerlo. Il più solo di tutti è proprio Gatsby che non partecipa alle sue feste favolose ma è sempre solo tra la folla, scruta sperando di scorgere la sua Daisy.

La solitudine del protagonista è immensa quando lo si vede per la prima volta nell’ora del crepuscolo fermo sul prato della sua villa mentre guarda con occhi fissi la luce verde che si riflette sul pontile della casa di Daisy dall’altra parte della sponda. Ed è immensa il giorno del suo funerale quando delle centinaia di persone che partecipavano alle sue feste non resta nessuno. L’ampia indifferenza caratterizza tutti i personaggi, Daisy e Tom più di tutti.

Il senso di solitudine e di indifferenza supera lo sfarzo, il lusso e la felicità che sembra investire tutta la prima parte de Il grande Gatsby. Distruggendo tutti i miti si distruggono anche gli dèi. E se gli dèi non ci sono più tutto ciò che rimane sono gli occhi del dottor T. J. Eckleburg che si scorgono su un grande cartellone pubblicitario a metà strada tra New York e West Egg. Ed è così che si resta soli, soli nei propri pensieri sconfinati che alla fine non possono non fare paura.

Una riflessione sulla propria generazione, sulle sue debolezze e perversioni (il cui linguaggio ricorda quello usato da un altro grande scrittore statunitense, Henry James) che diventa analisi autobiografica per l’ex alcolizzato e playboy Fitzgerald il quale fa i conti con se stesso e ci regala una triste ma verissima morale: il passato non può ritornare e non ci resta che la nostalgia per i tempi che furono.
Gatsby è un personaggio destinato alla sconfitta, a cadere nel dimenticatoio, e sebbene faccia pienamente parte del mondo che lo circonda, appare inadeguato a viverlo. Ma forse è grande proprio per questo, egli vive solo per un sogno: Daisy. Il suo sogno così puro che sarà la sua condanna. Ma una condanna degna della sua vita fantastica, fanatica e smisurata. Solo il faro verde sembra sopravvivere, allo stesso tempo miraggio del nuovo e dell’illusione. La luce verde è la nostra più grande illusione, promette mentre graffia e distrugge. E infine credere nella luce verde ci fa continuare a «remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato».

 

‘L’americano’: la decadente Europa di Henry James

La giornata era afosa ed egli, accaldato per il gran camminare , si passava ripetutamente il fazzoletto sulla fronte, con un gesto che denotava una certa stanchezza. Non aveva però l’aria di un uomo cui la fatica fosse familiare: lungo e snello, ma muscoloso, egli dava l’idea di possedere quella sorta di vigore che è comunemente conosciuta come <<saldezza fisica>>. (L’americano, cap I)

Un uomo che si scontra con un’intera cultura; volendo sintetizzarlo al massimo sarebbe questo il contenuto del libro dell’indagatore dell’animo umano Henry James (New York, 15 aprile 1843- Londra, 28 febbraio 1916), “L’americano” del 1877. Avvincente, romantico, un po’ troppo melodrammatico, costruito dettagliatamente intorno alla psicologia dei personaggi e al contrasto tra vecchio e nuovo, L’americano suggestiona e appassiona il lettore anche per l’accurata riproduzione delle atmosfere ottocentesche.

L’americano in questione, l’indimenticabile protagonista del romanzo, è Christopher Newman, quarantenne di bell’aspetto, simpatico, brillante, buono, molto facoltoso grazie alle sue attività nel commercio, va in Europa deciso a migliorare la propria cultura e a trovare “la migliore delle donne” che diventerà sua moglie. Si innamora, ricambiato, della bellissima, intelligente, colta, dolce e naturalmente appartenente all’antica nobiltà, Claire, o come spesso è chiamata nel romanzo, Madame De Cintrè,  rimasta vedova a soli 25 anni, dopo un matrimonio non felice con un  uomo aristocratico molto più anziano di lei, scelto dalla sua famiglia, ovviamente per convenzione e convenienza.

La madre e il fratello di Claire si oppongono con tutte le loro forza a questa unione, in quando vedono in Newman solo un volgare uomo arricchito con il commercio, non degno di entrare a far parte della loro prestigiosa famiglia, alla quale però fanno gola le ingenti finanze dello “straniero” ma non apprezzano il modo con cui le ha ottenute. Nonostante i parenti di Claire, appartenenti alla corrotta e decadente nobiltà, abbiano un gran bisogno del patrimonio di Newman, muovono guerra all’uomo e convincono la giovane donna a rinunciare a lui.

Ma il caso vuole che Newman entri in possesso di un importantissimo documento contenente un segreto che potrebbe distruggere la vita dei parenti di Claire; l’uomo potrebbe usarlo senza alcuno scrupolo per vendicarsi dei numerosi torti, affronti ed umiliazioni subite, ma non lo fa, mentre la donna, distrutta dal dolore, decide di farsi monaca camerlitana.

Potrebbe sembrare che Claire non abbia carattere e che in fondo non sia poi cosi intelligente ma  in realtà non ha paura di ribellarsi alla madre quanto di veder cambiata la sua sorte; tra i personaggi che spiccano nel romanzo, a parte il protagonista, vi è Valentin de Bellegarde nel quale confluiscono molti dei sintomi del male di inizio Novecento. Il finale de L’americano potrebbe suscitare rabbia, sorpresa, perfino delusione ma risiede proprio qui la diversità rispetto agli altri romanzi di James: Newman è un uomo buono,sicuro di sè, idealista, disincantato, a tratti ingenuo, puro d’animo anche se non dotato di un gran gusto per quanto riguarda soprattutto l’arte, ma è capace di scatti d’impeto, di momenti di tristezza e smarrimento di fronte alla meschinità dell’aristocrazia parigina.

Anche nel successivo “Gli europei” James  si occupa degli usi e dei costumi europei, facendo luce sulla diversità di comportamenti tra vecchio e nuovo mondo. Come ne “Gli europei” anche ne “L’americano” che regala pagine indimenticabili e di estrema eleganza ( i pensieri d’amore di Newman su Claire, i dialoghi con lei e con de Bellegarde), emerge un paradosso: proprio i pragmatici americani, accusati da sempre di non avere una storia, a differenza degli europei che sono più critici e raffinati, sono legati alle tradizioni e alla morale, nonostante lo siano anche ai beni materiali.

Probabilmente “L’americano” non sarà il capolavoro di Henry James (in primis per la poca verosomiglianza di alcuni fatti), a differenza del delicato “Ritratto di signora” o dell’intricat “La coppa d’oro”, ma ha il grande pregio dell’accessibilità e di porre in maniera semplice il “tema internazionale”, ovvero lo studio psicologico di un suo compatriota a conttato con un’altra civiltà priva di riferimenti morali. Sbaglia, tuttavia, chi pensa che James abbia voluto attuare un’operazione ben studiata per celebrare la sua America, ritraendo impietosamente l’Europa. lo scrittore americano non ha risparmiato critiche nemmeno al suo Paese  e ha sostenuto che per ogni intellettule che si rispetti è indispensabile fare tappa in Europa.

La  stessa descrizione che James fa  di Christopher Newman rivela una sottile satira per quest’uomo cosi dinamico ma approssimativo nei modi e nell’educazione. Non è perfetto ma certamente, secondo il suo autore, è migliore dei Bellegarde. James pone anche la sua attenzione alla questione artistica attraverso il personaggio della svagata, dilettante artista Mademoiselle Nioche.  Interesse da parte del grande scrittore americano testimoniato da questa sua frase:

“È l’arte che fa la vita, fa l’interesse, fa l’importanza […] e non conosco alcun sostituto alla forza e alla bellezza del suo processo”.

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