‘Uccidiamo lo zio’ della canadese Rohan O’Grady approda in Italia

Uccidiamo lo zio, dell’autrice canadese Rohan O’Grady, edito dalla WoM Edizioni è il romanzo per ragazzi che uscirà nelle librerie italiane il 17 Giugno.

Rohan O’Grady, pseudonimo di June Margaret O’Grady Skinner, nacque a Vancouver (Canada) nel 1922. Dopo essersi diplomata alla Lord Byng High School nel ‘40, conobbe quello che sarebbe divenuto suo marito e padre dei suoi tre figli, il giornalista Frederick Snowden Skinner.

Cominciò a scrivere solamente all’età di quarant’anni e tra il 1961 e il 1970 decise di far pubblicare i romanzi che aveva fino ad allora tenuto in un cassetto. I romanzi O’Houlihan’s Jest (1961), Pippin’s Journal, Or, Rosemary Is for Remembrance (1962) e Uccidiamo lo zio (1963) apparvero con lo pseudonimo di probabili origini irlandesi “Rohan”.

Il successo arriverà col suo terzo romanzo, tanto che Uccidiamo lo zio verrà trasposto poco dopo al cinema – nel 1966 e col titolo originale Let’s kill uncle(Gioco mortale in italiano) dal noto regista del terrore William Castle e produttore di Rosemary’s Baby di Roman Polański.

Uccidiamo lo zio: sinossi

Uccidiamo lo zio, pubblicato inizialmente nel 1963,  è rimasto celato per decenni a causa dell’ostracismo d’una critica moralizzatrice per sua essenza priva di ironia – che accusava il libro di essere amorale, se non addirittura immorale. Riscoperto nell’ultimo decennio, quale precursore di universi romanzeschi dalle tinte gotiche come quelli di Lemony Snicket (Una serie di sfortunati eventi) e di Douglas Lindsay (La bottega degli errori), è stato ripubblicato prima negli Stati Uniti e in Inghilterra, poi successo di libreria anche in Spagna e Francia, ed ora per la prima volta in Italia!

Trama e contenuti

È estate e trascorrete le vacanze su un’isola paradisiaca, siete orfano ed erede di un’ingente fortuna. Uno zio diabolico, vostro tutore, vuole uccidervi per mettere le mani sopra il bottino. Ma voi siete furbo e, grazie all’aiuto di un’amica smaliziata e di un puma in pensione, troverete la soluzione per sfuggire alle sue grinfie mortali: ucciderlo prima che sia lui ad uccidere voi…

Due bambini per protagonisti, Barnaby Gaunt e Christie MacNab, che ribalteranno tutte le presunte certezze e i pregiudizi sulla psicologia infantile, così come le verità, i catechismi e le tetragone convinzioni del mondo adulto, rappresentato qui da una corale, colorita e pittoresca piccola comunità di isolani, che non tarderà a ricordare quella dai tratti comici, tetri e ambigui della Twin Peaks di David Lynch.

Stile

Un’avvincente e macabra storia d’avventura, di astuzia, di sopravvivenza e di morte con protagonisti due turbolenti bambini di dieci anni. Un racconto dalle tinte gotiche, comiche, a volte un po’ buffe e strane, che ricorda i protagonisti dei film di Wes Anderson e i bambini illustrati da Edward Gorey.  Lo stile ironico – a tratti esilarante – ed al contempo elegante, è la forza quest’autrice, purtroppo poco conosciuta.

Keith Maillard, genero della scrittrice, diceva di lei: «Lei stessa non si è mai vista come uno dei pionieri del romanzo canadese o come una letterata, ma è stata sicuramente entrambe le cose. Ha cominciato ad essere pubblicata quando i romanzi canadesi erano ai loro inizi e i suoi editori, d’altro canto, non erano di Toronto, ma di Londra e New York. Dal 1961 al 1981, ha scritto sola, vivendo la sua vita calma di sposa e di madre a Vancouver»

Un romanzo dalla morale disturbante che rimetterà in discussione ogni pretesa moralizzatrice sulla funzione della letteratura, insegnandoci che l’orrore può diventare fonte di scherzo, riso e gioco, che la morte è un soggetto divertente (a patto di saperlo maneggiare con la dovuta leggera maestria), e che lungi dall’essere un atteggiamento malsano l’humour nero è il rimedio assoluto ad ogni barbosa serietà
e, come in un albo di Edward Gorey, fonte inesauribile di solleticanti sorprese.

 

https://www.womedizioni.it/catalogo/rohan-ogrady-uccidiamo-lo-zio/

‘Tre manifesti a Ebbing, Missouri’, il thriller, venato di humour nero, capolavoro dell’inglese Martin McDonagh

l film ideale non esiste perché davanti a uno schermo siamo tutti diversi. Invece la sceneggiatura ideale forse sì e in tal caso assomiglierebbe certo a quella di Tre manifesti a Ebbing, Missouri. Tralasciando la messe di premi importanti che ha ottenuto e continuerà a ottenere, questo torbido thriller venato di humour nero che sarebbe meglio vedere nella versione originale sottotitolata riesce, infatti, a scolpire l’indimenticabile ritratto di una donna che sopravvive, pensa e lotta in una landa selvaggia come un moderno cowboy rendendola il fulcro narrativo di un gruppo di personaggi altrettanto spiazzanti e perturbanti.

Il controllo stilistico, l’intelligenza psicologica e la libertà morale con cui il quarantasettenne commediografo, sceneggiatore e regista inglese di origini irlandesi Martin McDonagh mette in scena la sua ballata di dolori, odi e vendette nello spazio tanto realistico quanto metaforico di una sperduta cittadina dell’America profonda hanno, di fatto, pochi riscontri nel cinema (non solo) americano d’oggi tanto che i capidopera di Lynch, Tarantino e Coen potranno d’ora in poi sembrare al massimo affini piuttosto che modelli originali ricalcati. Anche perché –come succede ormai di rado sia nei prodotti d’autore, sia in quelli d’evasione- la propulsione drammaturgica è garantita dal continuo mescolarsi delle situazioni estreme con il mordente di caratteri in grado di evolversi, specchiarsi e persino ribaltarsi senza l’ossessione di doverne spremere significati, soluzioni, messaggi uniformi o peggio edificanti.

In Tre manifesti a Ebbing, esacerbata dall’atroce assassinio della figlia, umiliata e offesa dall’ex marito e convinta dell’inefficienza della polizia locale, l’indomita Mildred infagottata in una tuta blu e con in testa una bandana è disposta –proprio come i pistoleri western marchiati a vita da una colpa- ad usare le maniere forti contro chiunque si opponga al suo desiderio di giustizia. Per lei pari sono, per esempio, il tollerante sceriffo Willoughby (Harrelson) malato terminale e lo sbirro razzista plagiato dalla madre megera Dixon (Rockwell): nessuno come la McDormand avrebbe potuto incarnare con sfumature più svarianti questa nemica di tutti e innanzitutto di se stessa, capace di rendere l’atmosfera epica anche solo con una frase simile a una coltellata o un guizzo incoercibile del volto pietrificato dalla disperazione e dalla rabbia. Ogni colpo di scena, ogni gesto inconsulto, così, sembrano mirati a illudere lo spettatore prospettandogli quantomeno una catarsi; ma ogni volta il film riprende a picchiare duro all’ombra dei tre cartelloni su cui sono vergate come col sangue le richieste di Mildred, le uniche che hanno avuto il fegato di prendere di petto i segreti di una sorta di Twin Peaks traboccante di ostilità primigenie. In questo film formidabile nemmeno il finale cede d’un passo risparmiandoci la solita illusione di potere indicare la via giusta per l’umana redenzione.

TRE MANIFESTI A EBBING, MISSOURI
Regia: Martin McDonagh
Con: Frances McDormand, Woody Harrelson, Sam Rockwell, John Hawkes, Abbie Cornish
Genere: commedia noir. Gran Bretagna/Usa 2017

 

Tre manifesti a Ebbing, Missouri

 

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