Orwell e Huxley, distopie per un futuro dispotico

Le distopie sono il termometro delle paure di una società, ma oggi uno stato rigidamente controllato e ordinato non ci sembra più una minaccia credibile. Le cose stanno davvero così?

Si deve a Thomas More il termine “Utopia”, dal nome dell’opera in cui tratteggia una società ideale in un non-luogo o luogo felice (a seconda di quale etimologia si preferisca). Nel corso del ‘900 è stato codificato un genere chiamato, invece “distopia”, dove vengono rappresentati in modo grottesco i tratti più disumani e crudeli di una società immaginaria. Le distopie mostrano un mondo assolutamente antiutopico con intento polemico, per mettere in guardia i lettori contro i pericoli futuri. Le due più famose, probabilmente, sono “1984” di George Orwell e “Il Mondo Nuovo” di Aldous Huxley. Ciò che accomuna tutte queste opere, in ogni caso, è il movente delle loro rappresentazioni: la paura. Le distopie mostrano le paure dell’autore, che si fa portavoce di un sentire più grande, circa il futuro della società.

Le due opere citate, pur mostrando due società praticamente opposte, hanno in comune l’elemento di assoluto controllo da parte dello stato. Il clima novecentesco in cui sono state scritte tali opere traspira da ogni pagina. I totalitarismi erano dilaganti negli anni di pubblicazione, l’informazione (come del resto ogni contenuto psicologico, scientifico e filosofico) perdeva la sua verità monolitica per mostrarsi più sfaccettata e – per questo, manipolabile- il mito della natura umana vista come “buona” rovinava sotto i colpi degli avvenimenti storici. La tecnica si metteva al servizio dei sistemi di polizia a fini di controllo e le ideologie avevano ancora delle forme aguzze,  non scendendo a compromessi con la realtà. La paura di finire incasellati, controllati, ridotti a macchine era l’incubo per eccellenza nei paesi liberali. Si può dire che, in generale, questi autori non avessero torto. Queste due opere sono figlie del loro tempo, la loro funzione critica era legittima ed era condivisa da molti. Si è fatto, soprattutto di “1984”, un culto vero e proprio, segno che i timori espressi non erano aria fritta (al di là della strumentalizzazione politica liberale di quest’opera).

Perché, tuttavia, molti film o libri distopico-fantascientifici di oggi non ci spaventano minimamente? Pensiamo a due celebri libri-pellicole di successo come quella di Hunger Games e Divergent. Entrambe presentano una società rigidamente organizzata, non troppo distante da quelle delle grandi distopie del novecento, in cui uno o più eroi sovvertono quest’ordine. Ovviamente l’impostazione narrativa è differente, visto che l’attenzione è concentrata molto più sulla protagonista rispetto a ciò che la circonda. Il target di pubblico è diverso, la complessità è molto inferiore. Tuttavia è lecito chiedersi il perché di queste scelte e perché questi fanta-mondi non siano più spaventosi.
La verità è che queste opere non hanno intento polemico, non denunciano un processo di controllo e incasellamento in atto, pertanto il loro sfondo distopico è più un artificio letterario per proporre una morale di sicuro successo (viva la Libertà, meglio star peggio, ma liberi, che controllati da qualcuno) che un’esasperazione di una tendenza in corso. La morale di queste opere è proprio un rafforzativo dei valori democratico-liberali che non ha quasi più bisogno dello spauracchio totalitario, ma a cui basta l’elevazione dell’individuo a valore in sé (da cui la centralità della vicenda del protagonista).

Che la verità storica stia nei termini sopra enunciati è dubbio. Quelle distopie non ci fanno paura perché noi non crediamo possibile un controllo statale assoluto, non avvertiamo questo timore all’orizzonte, ma questo non vuol dire che il problema non sussista. Grazie soprattutto al progresso tecnico, oggi il controllo può essere totale. La registrazione in un social network consegna tutte le nostre informazioni ad aziende che le sfruttano per proporci cose che potrebbero interessarci, ogni nostra conversazione può essere controllata, i telefoni che abbiamo in tasca sono dei localizzatori e la nostra identità è sparsa per dei database. Per il momento abbiamo molte “licenze”. Sono queste a darci una parvenza di libertà. Ci sono strumenti di consenso più raffinati che la violenza o la coercizione.
Una vera distopia, ad ogni modo, deve denunciare questo, deve essere coerente con il suo tempo come lo sono state in passato quella di Orwell e quella di Huxley.

La libertà è premessa indispensabile della vita intellettuale di un paese: “i filosofi, gli scrittori, gli artisti, persino gli scienziati, non hanno solo bisogno di incoraggiamento e di un pubblico: hanno anche bisogno di costante stimolo degli altri. E’ quasi impossibile pensare senza parlare. (…) se si elimina la libertà di parola, le facoltà creative inaridiscono”. (G. Orwell)

 

Fonte: l’intellettuale dissidente

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