Stefano Lanuzza: ‘Il bosco, il mondo, il caos. Come un romanzo’, o il bosco dell’Essere nella dialettica dell’Esistere

L’ombelico dell’esplorazione dello scrittore siciliano Stefano Lanuzza  nella sua opera Il bosco, il mondo, il caos. Come un romanzo (Stampa Alternativa, 2016) è nella metafora del Bosco, né idilliaca né accattivante, ma tragica: in quanto si presenta sic et simpliciter come Bosco dell’Essere, chiuso/aperto nella dialettica serrata dell’Esistere. Si parla tanto di cosa la poesia possa essere e nessuno dice che essa è, infine, edonistico piacere della parola.

Non è facile intervenire su un libro del quale si condivide tutto, e del quale – per buon peso – non si può che ammirare la pregnanza della lingua che esalta l’energia di un pensiero fondato su una griglia di consapevolezza rigida e allo stesso tempo mobilissima. Il libro in questione inalbera un titolo non esplicativo né metaforico, ma piuttosto avaro di promesse non arcane e non enigmatiche; cosicché il lettore è obbligato a penetrarne per quanto può il senso e le declinazioni oblique o esplicite, quando non fulminanti.

Scrittore inesausto, il siciliano Lanuzza da decenni fattosi cittadino di Firenze (e dell’ormai invisibile Firenze dantesca, si direbbe), continua a organizzare pensieri mai assopiti e mai arresi alla volgarità di questo nostro iniquo presente – e a far pratica filosofica di ciò che chiamiamo linguaggio letterario, nel mentre che realizza con la stessa acuminata finezza e la stessa radicale intransigenza stilistica le sue figurazioni erotico-demoniache: un pitto-scrittore, insomma, cui si devono un’infinità di indagini critico-teoriche sul nostro Novecento lontanissime dalla pigra vulgata dei manuali, una messe di traduzioni di grandi autori francesi da Sade a Nerval, da Huysmans a Gide, da Barbey d’Aurevilly a Musset a Lautrèamont a Céline, e prose creative, e almeno una raccolta di poesie decisamente devianti rispetto al riflusso lirico che segnò tristemente di sé gli anni Ottanta e oltre.
Con questa sua impresa recente, Lanuzza lavora fino all’osso il crinale di ciò che lo caratterizza da gran tempo, e che potremmo definire la sua personalissima Critica del Giudizio (estesa stavolta dalle arti alla vita, alla società, alla politica, all’amore): con la stessa radicale lucidità di sempre, la stessa disposizione a mettere in gioco le proprie responsabilità, senza ambagi né infingimenti. La scelta aforistica e l’adozione di una ratio filosofica concentrata in un breve giro riflessivo lo apparenta a certi pensatori esemplari della modernità più antiaccademica: quella che parte da Nietzsche e si deposita più prossima a noi in Adorno, in Benjamin, in Gramsci.
Quindi, “Nel bosco non per celebrare qualche mito del ‘viaggio’, ma solo per ‘dire’ la semplice voglia di ‘andare’”. Andare non per toccare questa o quella meta, ma per saggiare negli spostamenti la possibile saldezza del proprio fragilissimo io. “Vai finalmente nel bosco, se vuoi essere libero. Coraggio, e vai!… Coraggio, da cuore… Ma il coraggio non salva dall’altrui paura”. E ancora: “Vai senza fretta: il bosco è lì e aspetta”. Perché poi, alla fine, “Non riparti da zero, ma da un non ingannevole bosco-labirinto dove sei tu Teseo e tu il Minotauro. La lentezza con cui procedi è il rovescio del desiderio d’affrettare lo scontro con l’Altro, il Minotauro del dolore… Scontro di due specchi che si guardano adunchi, di due Chimere esiliate”. L’imperativo è: “Addentrarsi nel bosco, allontanarsi, sparire, dileguarsi, stare ‘altrove’. Solo per (perdutamente) ‘essere’”.

Questo di Lanuzza non è nichilismo da dandies, solipsismo da aristocratici fuori fase: è, alla fine, semplicemente serietà, rigore nel proprio fare: rispetto dei dati concreti. Per cui, applicata al continente Poesia, questa strategia non può che muoversi – magari secondo la lezione etica e creativa di Leopardi – nel solco di un processo senza ambiguità e senza orpelli: “Una vanificazione dell’ideologia d’una poesia spettacolarizzata si ha, insomma, col constatare come sia impossibile apprezzare una qualunque forma d’arte se non ci si mette in condizioni di solitudine e silenzio: lontani, insomma, come ora nel bosco, da tutto ciò che vuol avere a che fare col sistema dello spettacolo”. Il celebre pamphlet debordiano del 1967 non è passato invano.
Quella che si può fare seriamente nel bosco non è poesia boschereccia. Quindi:

“Se vuoi sapere cosa sono i serragli della poesia, guarda pure le antologie; ma se cerchi i poeti dimentica certi cataloghi e schemi bizantini, i senhals surrettizi, le caselle esegetiche, il sottobosco infestante; e cerca nel bosco. Loro, quelli che non hanno ‘intenzione’ di essere o non essere poeti, che non vogliono ‘appartenere’ a nessuna storiografia, stanno in margini negletti, come ricordi sommersi che stentano ad affiorare, ombre sbiettanti e talora impudiche, uccelli migratori senza quiete né ricetto, esiliati principi straccioni… Non sono troppo belli da vedere: non vestono panni da showman, curiale accademico, incompreso genio, gran sacerdote, e nemmeno da bohèmien. Alcuni di loro, debitamente defunti, adesso, inopinatamente, riposano tra loculi antologici come i suicidi subito dimenticati. Fatti non per il tempo e la vita, concimano invisibili, con le loro fragili ossa, un bosco sempreverde”.

Uscendo dal suo bosco, la lingua-pensiero dello scrittore non perde nulla della sua ricchezza; e scopre che “La libertà… non è tanto un diritto ‘naturale’ quanto un ‘dovere’ soggettivo”: così, all’uopo, vengono utili, anzi indispensabili, certi autori molto suoi che sono anche straordinari “mitografi moderni dell’infanzia” (Lautréamont, Benjamin, Savinio, Sarraute, Salinger). Ribadendo, al contempo, che ogni consolazione contro il dolore del mondo è illusoria, dal momento che “Non sappiamo niente. Di nessuno”; di conseguenza “Non solo non è necessario capire gli altri, ma non è nemmeno giusto”. E quanto al braccio teso della poesia? “Non me ne faccio niente d’una poesia che fa solo domande invece di dare risposte”, perché “Il plesso della poesia: si tratta di centrarlo con la silente scrittura. Pensare la poesia come esperienza alternativa alla realtà. Esperienza in nessun caso consolatoria rispetto ai corsi storici e alla stessa vita. Si parla tanto di cosa la poesia possa essere e nessuno dice che essa è, infine, edonistico piacere della parola”.

Il gioco drammatico di Lanuzza si fonda sulla contraddizione e il paradosso. “Vorresti l’uguaglianza fra gli uomini, la fine della povertà, la nonviolenza, la giustizia… Mica sarai comunista?” Quella che si chiama Italia e a Leopardi sembrava un paese privo di “società stretta”, cioè di borghesia responsabile, è oggi una dissocietà basata unicamente sull’interesse di un singolo o di un gruppo. Con parole diverse Maestro Stefano, sìculo giustamente ammiratore di Gorgia da Lentini, esprime lo stesso concetto, con amarezza senza speranza: “Famiglie. Chiuse in se stesse, dèdite a occuparsi solo di sé, c on soggetti che si telefonano continuamente più e più volte al giorno ed anche a pochi metri di distanza, parlando di banalità. Quanto esercitano e si scambiano in permanenza è il ‘controllo’, ansioso, costante, assoluto: si controllano affinché nessuno possa sottrarsi al conformismo solidaristico che le distingue e le rende ignobili. Mai, soprattutto, un briciolo di libertà nella loro esistenza quotidiana che fa della famiglia un luogo di pazzia”.

Ancora sulla poesia, questo lavoro che ai nostri giorni conta meno di una vacanza stracciona, e che tuttavia, oscuramente, continua a esercitare su chi cerca di agguantarla o di goderla una febbre di ossessione che non si spegne: “La poesia, quella vera, dovrebbe spaventare il lettore”. Considerazione preceduta da questo rilievo: “Contrariamente alla svalutazione platonica e, da parte dei ‘recitanti versi’, alla definitiva liquidazione dei poeti, lo statuto epistemologico cella poesia – questo mestiere del silenzio e del deserto – resta il più completo, ben più di quello storico: visto che, come afferma Aristotele, “la poesia è cosa di maggior fondamento teorico e più importante della storia; perché la poesia dice piuttosto gli universali, la storia i particolari”. Ci si immagini, se si vuole, l’adesione entusiasta di chi scrive, antiplatonico da sempre e da sempre filoaristotelico.
Ha ragione Lanuzza a dire che la Commedia di Dante non è solo un poema di suprema grandezza, ma anche “una grande opera critica dove l’istituzione della critica rivela la propria origine nella poesia”. Non affermava forse Baudelaire, poeta di grande crudeltà anche contro se stesso, che ogni poeta degno del nome contiene in sé un critico?

Nella grande e raffinatissima quantità di citazioni letterarie, filosofiche, artistiche del libro di Lanuzza, c’è una zona riservata agli aneddoti (“Nella disposizione del Sant’Uffizio, emanata il I luglio 1949, la Chiesa cattolica scomunica i cattolici iscritti al Partito comunista e anche quelli soltanto lettori della stampa comunista”), alle constatazioni di costume (“Finita la critica, resta la …pubblicità”), ai motti di spirito di classe elevata (“Platone non credeva nell’amore… platonico”): e, pur nella varietà apparentemente casual, capricciosa e disorganica di questi eterocliti elementi, il discorso ha una valenza unitaria fortissima, una coerenza dialettica di formidabile tenuta. E’ il risultato di un’incessante indagine sul mondo della cosiddetta realtà e sul mondo della cosiddetta irrealtà che Lanuzza conduce da un tempo lungo e troppe volte di colpo accorciato da eventi traumatici, con un’intelligenza, una responsabilità e un’onestà ormai troppo rare in chi ancora in questo paese si occupa di cultura.

 

E tanto basta, sono portato a credere.

 

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