Luchino Visconti, gattopardo imperfetto tra neorealismo e decadentismo

Decadente, nostalgico, melodrammatico. È Luchino Visconti, maestro del cinema italiano tra neorealismo e decadentismo, autore di capolavori immortali tra Tomasi di Lampedusa e Proust

Il neorealismo di Luchino Visconti

Il cinema italiano ha ospitato grandi registi che hanno reso noto il neorealismo in tutto il mondo. Attraverso opere come Roma città aperta o Ladri di biciclette.

Raccontando un’Italia semidistrutta, ma capace di grandi speranze sociali, tra lo squallore del secondo dopoguerra. Ogni regista diede un suo contributo alla creazione di un canone neorealista, con i suoi attori presi dalla strada, i set nelle strade della città e non solo negli studi, l’adesione a principi politici come il marxismo e l’antifascismo.

Ossessione e La terra trema

A questo canone appartiene anche Luchino Visconti, regista di estrazione aristocratica, che nel 1943 dirige il primo vero film neorealista: Ossessione.

In esso si mostrano i temi del movimento di De Sica e Rossellini, dalla rottura con la correttezza del cinema dei telefoni bianchi all’attenzione per la resa dei contesti sociali. Riprendendo i temi del naturalismo francese e del verismo, stravolgendoli e attualizzandoli.

Non è un caso che La terra trema, secondo film di Visconti, finanziato dal PCI, si rifaccia ai Malavoglia di Verga, stravolgendone la sceneggiatura, introducendo il dialetto siciliano, che nell’opera letteraria era solo accennato.

Nostalgia e decadentismo

Poi, a partire dagli anni ’50-’60, il neorealismo si decompone, proiettando i suoi registi verso altri filoni. De Sica verso il cinema nazional-popolare di ieri oggi e domani, Fellini (che pur era stato neorealista a modo tutto suo) verso un cinema onirico e magico.

Visconti, che chiude i conti col neorealismo con il film Bellissima, aspra critica sociale e constatazione del fallimento degli ideali neorealisti, si cimenta in un cinema fatto di nostalgia e intimismo.

Senso

Il primo punto di rottura è Senso, tratto da una novella di Camillo Boito (fratello del più noto Arrigo), del 1954. L’opera descrive l’amore tra un ufficiale austriaco, Franz Mahler, e una nobildonna italiana, di ideali risorgimentali, sullo sfondo di una Venezia decadente durante il risorgimento.

Il film è la constatazione del risorgimento come rivoluzione tradita, della critica alla guerra, ma soprattutto la presa di coscienza del la fine di un mondo. Il mondo aristocratico e antico schiacciato dalla borghesia e dalla storia.

La grandezza di senso sta proprio nell’introduzione di temi marcatamente decadenti. La fine del mondo ottocentesco e l’avanzata della società di massa, il culto del melodramma e della bellezza, reso tramite fuori campo che creano omaggi al mondo del melodramma e del teatro.

Mostrando in ogni inquadratura riferimenti alla pittura ottocentesca, soprattutto ad Hayez, rendendo la scenografia come un perenne teatro dell’opera. Impreziosendo il film di elementi aristocratici ed estetizzanti.

Il Gattopardo

Estetizzazione del mondo aristocratico e nostalgico che è il centro di uno dei capolavori del cineasta milanese: Il gattopardo (1963), tratto dall’omonimo romanzo del principe Giuseppe Tomasi di Lampedusa.

Si tratta di un film che, secondo la volontà di Visconti, voleva trovare la perfetta sintesi tra Mastro Don Gesualdo di Verga e Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust.

Il risultato è un kolossal unico che riesce a condensare il meglio della poetica e dello stile del regista. La storia è ambientata nella Sicilia dell’ottocento a cavallo tra la fine del regno delle Due Sicilie e l’inizio del neonato regno d’Italia.

I protagonisti sono i membri di una famiglia nobile siciliana, implicata con i Borbone, che vive una vita rigida e lussuosa, affascinante e anacronistica.

Trama e contenuti del film

Rappresentante di questo mondo è il principe Salina (Burt Lancaster), nobile pessimista e disilluso, conscio della fine del dominio del mondo aristocratico meridionale che di fronte all’avanzare delle nuove generazioni, spregiudicate e tessitrici, rappresentate dal giovane Tancredi (Alain Delon), e all’ascesa della ricca borghesia, è amareggiato per un mondo che vede sgretolarsi.

Un mondo fatto di ritualità, di convenzioni sociali, di una routine immobile e fuori dal tempo. Proprio nella resa di questo contesto Visconti mostra il suo stile decadente ed estetizzante.

Le pose, le abitudini, le formalità di questo ambente vengono raccontate e approfondite immergendo lo spettatore in scenari fastosi ed affascinanti. Attraverso una cura maniacale del dettaglio, l’utilizzo frequente di campi lunghi per creare una atmosfera da melodramma. Teatrale e magnifica, ma anche immobile e decadente.

Il principe Salina

Di questa epoca finita il principe Salina è l’ultimo rappresentante, che mostra la propria incompatibilità con la spregiudicatezza e l’ambizione di Tancredi e del mondo borghese (“Se non ci siamo anche noi, quelli ti combinano la repubblica in quattro e quattr’otto. Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”).

Che però asseconda spingendo Tancredi verso la figlia del ricco borghese don Calogero (Claudia Cardinale), interrompendo la continuazione della tradizione nobiliare.

È il vinto della storia che di fronte ad un mondo che muore verso cui sente simpatia e affetto sceglie la via del ritorno, chiudendosi pessimisticamente nella propria oasi di raffinatezza:

“Sono un esponente della vecchia classe, fatalmente compromesso con il passato regime, e a questo legato da vincoli di decenza, se non di affetto. La mia è un’infelice generazione, a cavallo tra due mondi e a disagio in tutti e due. E per di più, io sono completamente senza illusioni.

Che se ne farebbe il Senato di me, di un inesperto legislatore cui manca la capacità di ingannare se stesso, essenziale requisito per chi voglia guidare gli altri?

No Chevalley, in politica non porgerei un dito, me lo morderebbero. Siamo vecchi, Chevalley. Molto vecchi. Sono almeno venticinque secoli che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche ed eterogenee civiltà. Tutte venute da fuori, nessuna fatta da noi, nessuna che sia germogliata qui.

Da duemilacinquecento anni non siamo altro che una colonia. Oh, non lo dico per lagnarmi, è colpa nostra. Ma siamo molto stanchi, svuotati, spenti.”

Gruppo di famiglia in interno

Temi quelli del Gattopardo che verranno poi ripresi ben undici anni dopo nel 1974 con la pellicola Gruppo di famiglia in interno (1974), in cui il protagonista (Burt Lancaster), interpreta un anziano professore universitario che, ritirato dalla vita, si dedica allo studio e alla cultura in uno splendido palazzo-biblioteca.

La residenza del professore è un appartamento ricercatissimo in cui i quadri, i manoscritti antichi, i pizzi e le porcellane, creano una atmosfera sospesa e ricercata, in cui il suo protagonista si specchia e confonde, in una quiete dottissima.

Quiete turbata dall’arrivo della marchesa Brumonti, di sua figlia col compagno, e di Konrad, giovane amante dal passato extraparlamentare e una vita dissoluta.

Il film, girato solo tra le mura domestiche, racconta l’intromissione di questi personaggi nella vita del professore, allegoria dell’intromissione del mondo moderno, con cui il protagonista inizia a dialogare, finendone deluso e disgustato.

Un film allegorico

Diventando involontariamente padre di questa assurda famiglia. Famiglia in cui si inscenano le finzioni e i pregiudizi del mondo borghese degli anni 70. Colpito dalle spinte pseudorivoluzionarie del ’68, da una borghesia ancora più cinica e spregiudicata, involutasi col consumismo.

Mostrando la totale idiosincrasia dell’intellettuale con la società consumista e turbolenta. Anche il professore è un vinto, come il principe salina, è il ritratto malinconico di relitto di un mondo passato, che plasmato sulla vita solitaria e claustrofobica dell’anglista Mario Praz, mostra un lato ancora più intimista e nostalgico.

Affidandosi proustianamente alla memoria, alla letteratura, la forma fisica dei ricordi. Sentendosi fuori posto oppresso dalla presenza annientante della morte:

“C’è uno scrittore del quale tengo i libri in camera mia e che rileggo continuamente, racconta di un inquilino che un giorno si insedia nell’appartamento sopra il suo, lo scrittore lo sente muoversi, camminare, aggirarsi, poi tutt’a un tratto sparisce e per lungo tempo c’è solo il silenzio. Ma all’improvviso ritorna, in seguito le sue assenze si fanno più rare e la sua presenza più costante: è la morte”.

L’anacronismo di Luchino Visconti

In questi film Visconti mostra il suo lato più nostalgico e decadente, reazionario e anacronistico. Profondamente critico verso la borghesia (verrà infatti considerato sempre un compagno di strada del Pci) e nostalgico di un mondo che sa in rovina, oppresso dalla figura opprimente della morte.

In cui si riconosce la grande trazione decadente, un fascino aristocratico e raffinato. Cullato in quel mondo morto, reso magnifico dalla convinzione proustiana che crede che ogni paradiso è paradiso perduto.

Un gattopardo milanese che nonostante le stroncature della critica comunista, si affianca al partito, che si confronta col mondo moderno , rimanendone deluso e disgustato, ritornando all’arte. Lui, un gattopardo imperfetto.

 

Francesco Subiaco

Il Gattopardo: dal romanzo alla serie tv prodotta dall’Indiana Production e La Feltrinelli

In atteggiamento di rottura col Neorealismo e in linea col Decadentismo, si pone Il Gattopardo romanzo del ‘900 dello scrittore Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Tema focale dell’opera è l’introspezione psicologica di Fabrizio principe di Salina. L’autore infatti mette in evidenza il senso di “inettitudine” e stanchezza del protagonista di fronte ai mutamenti sociali e storici.

L’autore

Giuseppe Tomasi di Lampedusa è stato uno scrittore italiano nato a Palermo nel 1896 e morto a Roma nel 1957. Proveniente da una famiglia nobile, presto diventò un autore di successo grazie al romanzo Il Gattopardo pubblicato postumo nel 1958. Nel 1915 si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza e partecipò al primo conflitto mondiale tra le file italiane come ufficiale. Diventò testimone autoptico della disfatta di Caporetto e della prigionia austriaca. Dopo quella terribile esperienza si ritirò a vita privata dedicandosi alla scrittura. Nel ‘32 si sposò con Alexandra von Wolff-Stomersee ma il matrimonio fu messo più volte in discussione. Nel ʻ40 fu richiamato in guerra ma presto congedato. Dopo pochi anni perse la madre a cui era molto legato e nel 1957 morì vittima di cancro ai polmoni.

Il Gattopardo: tra letteratura e cinema

Nel 1958 Giorgio Bassani pubblicò l’opera presso Feltrinelli dopo i diversi rifiuti di Vittorini. Del resto l’autore era uno sconosciuto; un principe siciliano che aveva sempre vissuto lontano dai circoli letterari. Contro ogni previsione l’opera ebbe un enorme successo specialmente in Italia e in Francia. Fa da sfondo al romanzo la Sicilia garibaldina degli anni ‘60. Il protagonista è logorato dalla sua inermità e attende con angoscia la morte. A fargli compagnia sulla scena il nipote Tancredi che si unirà ai garibaldini piuttosto che difendere il Regno. “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi.” – affermaSostenendo in questo modo che il passaggio al nuovo Regno d’Italia sarà solo apparente; il potere difatti rimarrà nelle mani delle classi dirigenti. Egli sposa dunque la bella Angelica, figlia di Calogero Sedara, un borghese arricchito. Quest’unione segnerà l’alleanza definitiva con le nuove classi in ascesa e il debutto nell’alta società.

Nel 1963 Luchino Visconti accettò con entusiasmo di realizzarne la trasposizione cinematografica, attratto particolarmente dalla figura del protagonista. Il successo fu assicurato in tutto il mondo e il film vinse la Palma d’oro al Festival di Cannes. Visconti dunque cominciò a preferire le ambientazioni aristocratiche e alto borghesi. Nella pellicola troviamo un cast d’eccezione composto da Burt Lancaster, attore e regista statunitense, nelle vesti del protagonista Fabrizio. Ad impersonare il sovversivo Tancredi è Alain Delon a sua volta attore e regista. Nei panni dell’ homo novus Calogero Sedara vediamo Paolo Stoppa (attore teatrale e doppiatore italiano) e nel ruolo di sua figlia Angelica la famosissima attrice italiana Claudia Cardinale.

La serie televisiva

Grazie alla collaborazione tra l’Indiana Production e la Feltrinelli Il Gattopardo diventa una serie tv a tutti gli effetti. Nello specifico si tratterà di una serie televisiva storica in costume che ripercorrerà le orme di Downtown Abbey e The Crown. Sarà composta da 8-10 puntate e trasmessa in lingua inglese. Le riprese cominceranno nel 2019 in Sicilia. Dalle interviste dei soci dell’Indiana Production si evince l’obiettivo del progetto che non ripercorrerà le tappe del film realizzandone un remake, ma si esplicherà nella trasposizione del romanzo per permettere alle nuove generazioni e a tutto il pubblico di godere di questo capolavoro da un punto di vista moderno.

Giuseppe Tomasi di Lampedusa: tra distacco e ironia

Giuseppe Tomasi di Lampedusa (Palermo, 23 dicembre 1896 – Roma, 23 luglio 1957), la cui fama è inevitabilmente legata al suo capolavoro il Gattopardo, è stato uno scrittore dalla personalità complessa, solitaria e taciturna.

Alcuni giornali parigini, chiudendo il bilancio dell’annata letteraria italiana del 1959, proprio in relazione a Il Gattopardo, hanno fatto i nomi di Proust e Musil. Giorgio Bassani, nella prefazione dove dava notizie dell’opera e dell’aristocratico autore, afferma che se la materia del Gattopardo ricorda molto da vicino quella del libro di De Roberto, I Viceré, bisogna accostare Tomasi al contemporaneo Brancati ma anche ad alcuni grandi scrittori inglesi della prima metà del secolo. Se la critica parigina ha fatto i nomi di Proust e Musil, probabilmente ha esagerato: infatti non c’è nulla della proliferazione memoriale proustiana, né dell’analisi psicologica e ambientale di Musil nello stile narrativo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa che guarda al mondo con distacco ed ironia. Se a Parigi si sono affidati a questi richiami, è perché è stato preso in considerazione solo il lato biografico di Tomasi. Infatti la fama di Proust e Musil sono state postume. Per quanto riguarda poi il paragone con i Viceré, esso fa riferimento a motivi interni: la storia di decadenza di una famiglia siciliana d’antica nobiltà, gli Uzeda e quella dei Salina, sullo sfondo della fine di un regno e la stessa origine siciliana dei due romanzieri. Ma se De Roberto ha edificato il suo romanzo entro un’impalcatura positivistica rinforzata da una psicologia desunta dalle teorie del romanzo sperimentale alla francese (Zola, Bourget), servendosi del documento storico e di costume come di un dato oggettivo al quale il lettore doveva credere, in Giuseppe Tomasi di Lampedusa il documento storico è un pretesto per ambientarvi una storia della famiglia feudale dei Salina, alla vigilia dell’arrivo dei Mille; rappresentata in una condizione di corrosione economica e morale impersonata nel principe Fabrizio, fedele alla cadente monarchia borbonica solo formalmente, ma profondamente deluso.

Tomasi di Lampedusa: racconto di un mondo in decadenza

La formalità del principe Fabrizio non è professata solo di fronte al regno di cui egli è suddito passivo, ma rispetto allo stesso principio dinastico; egli non solo non crede più al re Ferdinando, di cui fin dalle prime pagine del romanzo Il Gattopardo viene fuori un ritratto che ci dice tutto sulla monarchia, ma egli non presta fiducia maggiore neanche al re piemontese e agli uomini della monarchia sabauda. Si tratta di una sfiducia biologica da parte dell’ultimo esponente di un mondo in rovina, accompagnata ad una coscienza delusa e non più irridente per le fortune della “classe nuova”, “la borghesia dei galantuomini”.

Tuttavia nel principe una simpatia c’è, ma è un riflesso del suo sangue, indirizzata al giovane nipote Tancredi che, all’arrivo di Garibaldi, si è arruolato con le camicie rosse e poi sposerà una borghese, Angelica, il cui padre si è arricchito rodendo all’ombra del feudo che reca “l’impresa” del Gattopardo e diventerà uomo politico. Fanno da contrappunto morale e familiare i sotterfuggi amorosi del principe, l’affetto distaccato per la moglie, i figli, il cane Bendicò, l’indole della sua gente, le fortune del simpatico nipote, e in questo modo l’ironia diventa sarcasmo, la benevolenza pietà inutile. Sono queste qualità dell’animo che, nel loro intreccio psicologico, formano i lati più ambigui e accattivanti del carattere del principe Fabrizio.

Di Tomasi di Lampedusa poi non si sa più nulla di quanto abbia assunto Bassani nella sua prefazione. Nato a Palermo e morto a Roma; combattente durante la prima guerra mondiale, prigioniero in Germania, studioso di psicoanalisi e materia militari, è certo che la figura spirituale Giuseppe Tomasi di Lampedusa va inserita in quel tipo di cultura “decadente”, considerate anche le sue letture: D’Annunzio e Baudelaire, oltre ai saggisti inglesi e francesi del Sette e Ottocento come Voltaire.

 

Bibliografia: G. Titta Rosa, Vita letteraria del Novecento, V.III.

10 frasi per innamorarsi di Luchino Visconti

Luchino Visconti, grandissimo regista del cinema e del teatro italiano ed internazionale, cultore di Marcel Proust, raffinato, lirico, dannunziano (Senso, L’innocente, La caduta degli dei, Morte a Venezia) e popolare (Ossessione, La terra trema, Bellissima) al contempo, magniloquente, maniacale nel modo filmare, di decorare le scenografie e persino gli interni dei cassetti che nessuno avrebbe visto, ha realizzato capolavori immortali della storia del cinema, sfidando la propria omosessualità e portando sul grande schermo il suo sangue blu e la sua visione aristocratica del mondo unita alla sua educazione marxista che lo faceva propendere ideologicamente verso il proletariato. Ha saputo coniugare melodramma e realismo, sue grandi passioni stilistiche, prediligendo una tematica in particolare: quella relativa alla sfaldamento dei legami familiari.

Di seguito proponiamo 10 frasi tratte dai suoi film:

“Il denaro ha le gambe, e deve camminare. Altrimenti, se resta nelle tasche, prende la muffa”.
(Ossessione, 1943)

“Il genio è un dono di Dio. Anzi no, è una punizione di Dio, un divampare peccaminoso e morboso di doti naturali”. (Morte a Venezia, 1971)

“I siciliani non vorranno mai migliorare, perché si considerano già perfetti. In loro la vanità è più forte della miseria”. (Il Gattopardo, 1963)

L’amore? Già, certo, l’amore… Fuoco e fiamme per un anno, e cenere per trenta”. (Il Gattopardo)

“Sono un disertore perché sono un vigliacco, e non mi dispiace di essere né un disertore né un vigliacco. Cosa m’importa che i miei compatrioti abbiano vinto oggi una battaglia in un posto chiamato Custoza quando so che perderanno la guerra e non solo la guerra… E l’Austria fra pochi anni sarà finita, e un intero mondo sparirà: quello a cui apparteniamo tu ed io. E il nuovo mondo di cui parla tuo cugino non ha nessun interesse per me: è molto meglio non essere coinvolti in queste storie e prendersi il proprio piacere dove lo si trova”. (Senso, 1954)

“Ecco la guerra che gli italiani preferiscono: pioggia di coriandoli con accompagnamento di mandolini”. (Senso)

“Rocco è un santo. Ma nel mondo in cui viviamo, nella società che gli uomini hanno creato, non c’è più posto per i santi come lui: la loro pietà provoca dei disastri”. (Rocco e i suoi fratelli, 1960)

“La fortuna bisogna farsela venire”. (Rocco e i suoi fratelli)

“Vedi, Gunther, tu questa notte hai conquistato qualcosa di veramente straordinario. La brutalità di tuo padre, l’ambizione di Friedrich, la stessa crudeltà di Martin, non sono assolutamente nulla a confronto di quello che tu adesso possiedi: l’odio, Gunther. Tu possiedi l’odio, un odio giovane, puro, assoluto. Ma sta’ attento: questo potenziale d’energia e furore è troppo importante per farne la ragione di una personale vendetta: sarebbe un lusso, uno spreco inutile. […] Tu verrai con me: noi ti insegneremo ad amministrare questa tua immensa ricchezza, ad investirla nel modo giusto”. (La caduta degli dei, 1969)

“C’e uno scrittore, del quale tengo i libri in camera mia e che rileggo continuamente… Racconta di un inquilino che un giorno si insedia nell’appartamento sopra il suo. Lo scrittore lo sente muoversi, camminare, aggirarsi. Poi tutt’a un tratto sparisce, e per lungo tempo c’è solo il silenzio. Ma all’improvviso ritorna. In seguito le sue assenze si fanno più rare, e la sua presenza più costante. È la morte”. (Gruppo di famiglia in un interno, 1974)

 

“Il gattopardo”: L’immutabile e rassegnata decadenza della nobiltà

Romanzo storico pubblicato postumo nel 1958, Il gattopardo” è il capolavoro di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. L’opera si rifà alle vicende storiche della famiglia Tomasi, dove il principe Fabrizio Salina ricopre il ruolo di Giulio Fabrizio Tomasi, bisnonno dell’autore.

Il romanzo è un’opera di rassegnata decadenza. La decadenza della nobiltà a favore della borghesia; la decadenza del regime borbonico a favore del neo-regno d’Italia. Ma forse più di tutto, “Il gattopardo” è un’opera sull’immobilità. È questo il tema che colpisce più a fondo, e anche qui un’immobilità rassegnata ai tempi, alla storia, all’impossibilità di un cambiamento incipiente.

Se dal punto di vista prettamente narrativo il protagonista è Don Fabrizio Salina, da quello allegorico scorgiamo la presenza lungo tutta la narrazione del cane Bendicò. Si mostra, scompare per interi capitoli, eppure si presenta come elemento finale del romanzo. È lì nella prima pagina e nell’ultima. E lo stesso Tomasi, in una lettera del ’57 a Enrico Merlo, indica Bendicò come la chiave allegorica del romanzo.

Perché il cane rappresenta la famiglia stessa dei Salina e in senso più ampio rappresenta la nobiltà. Un cane che viene sostituito – per la morte naturale – ma che resta lì, imbalsamato come un monito proveniente dal passato. È la situazione della nobiltà indebolita, soppiantata e tenuta in disparte come un qualcosa di ormai arcaico.

I punti chiave del romanzo sono tre. È attraverso questi tre passi che Tomasi coniuga la decadenza con l’immobilità. Innanzitutto la famosa frase pronunciata da Tancredi Falconieri: «Se vogliamo che tutto resti com’è, bisogna che tutto cambi». Una frase incommentabile, tale è la sua chiarezza e che sembra essere la massima della classe politica moderna, che teme i reali cambiamenti, visti come minacce  ai loro privilegi.  Posizioni di potere, rapporti di forza: ogni cosa cambia e al contempo resta identica a sé stessa. Tutto ciò che muta è solo il nome di chi siede su quello scranno, mantenendo inalterata la funzione precedente. Così la nobiltà decade e il suo posto è preso dai nuovi ricchi, dai nuovi potenti.

La famiglia Salina  nel film di Visconti

Il secondo punto è il dialogo di Fabrizio Salina con Chevalley, messo del neo-regno d’Italia. Di particolare importanza è un aneddoto raccontato al piemontese. Gli inglesi gli chiesero cosa venissero a fare in Sicilia i garibaldini. La risposta del principe fu: «vengono per insegnarci le buone creanze ma non lo potranno fare, perché noi siamo dèi». E ancora, in un passo memorabile: «Credo che non comprendessero, ma risero e se ne andarono. Così rispondo anche a lei; caro Chevalley: i Siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti: la loro vanità è più forte della loro miseria».

La critica di Tomasi è alla Sicilia, e forse dalla Sicilia micro-cosmo all’Italia intera per estensione. L’immobilità è dovuta all’ego. Ed è qui che si congiunge il terzo punto: «Noi fummo i Gattopardi, i leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti Gattopardi, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra».

Tomasi usa una decadenza per parlare di un’altra. Una decadenza che nasce dall’incapacità di mutare, dal pensiero di essere superiori a chiunque altro. Una sonnolenza. E nulla di buono può nascere da questa sonnolenza: non l’amore, che sembra rigoglioso solo in tempo di primavera; non gli affari, con le ricchezze che vanno diminuendo; non la vita sociale, in cui di continuo s’intravede lo spettro della morte.

È questo il mondo decadente in cui si muovono le vicende de Il gattopardo”. Un grande splendore che nasconde ignorante superbia. Don Fabrizio Salina è il conscio osservatore. È un uomo che ha compreso le virtù e i difetti, ha compreso lo spirito del tempo, ma è inserito anche lui in quello stesso mondo. E proprio lui, che sembra la figura capace di uscire dal circolo vizioso, si ritrova sconfitto, rassegnato alla verità dei fatti. E forse è proprio questo che lo rende ancora più triste.

Exit mobile version