“Non ci resta che Massimo” – Domani in edicola con “Il Mattino” il Libro per i 70 anni di Massimo Troisi

Da Carlo Verdone a Ferzan Ozpetek, da Massimo Ranieri a Maria Grazia Cucinotta. Ci sono le testimonianze di numerosi personaggi della cultura e dello spettacolo nel nuovo volume, “Non ci resta che Massimo”, che il quotidiano “Il Mattino” darà in omaggio ai suoi lettori sabato e domenica 18 e 19 febbraio per celebrare i 70 anni dalla nascita di Massimo Troisi (San Giorgio a Cremano, 19 febbraio 1953 – Roma, 4 giugno 1994).

La presentazione del volume si è svolta all’Università Suor Orsola Benincasa, sede dal 2015 di una prestigiosa Scuola di Cinema e Televisione diretta dal produttore de “La grande bellezza” Nicola Giuliano.

“Dopo le fatiche de “Il postino”, non è stato disatteso il tuo ultimo, spontaneo, genuino saluto: quel “Ricordatevi di me”, sussurrato come un fruscio di foglie, è rimasto appiccicato alla leggerezza della tua anima e ti lascia vivere. Quella richiesta è diventata “legge morale”, capace di dissetare – per noi di questo mondo – l’arsura della tua mancanza”. Le toccanti parole della sorella Rosaria, contenute in una lettera a Massimo Troisi raccolta all’interno del libro de “Il Mattino” hanno aperto la presentazione grazie al reading attoriale di Nadia Carlomagno, direttore del Master in Teatro, pedagogia e didattica dell’Università Suor Orsola Benincasa.

Ricomincio da tre e mai da zero – ha spiegato il Rettore del Suor Orsola, Lucio d’Alessandro – deve essere la lezione di Troisi da seguire anche per lo sviluppo di una “Scuola pubblica dei mestieri del cinema” in Campania di cui si discute in questi giorni. Una scuola che potrà certamente ‘ricominciare’ il suo lavoro ripartendo dalle istituzioni pubbliche e private già attive da anni in Campania nell’alta formazione nel settore cinema come l’Accademia di Belle Arti di Napoli e l’Università Suor Orsola Benincasa“.

Parole commosse nel ricordo di Massimo Trosi da parte dei curatori del volume. Titta Fiore nel suo intervento ha ricordato l’umiltà e la sobrietà con cui Troisi ritirò alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia nel 1989 l’indimenticabile Coppa Volpi che divise ex aequo con Marcello Mastroianni per la miglior interpretazione maschile in “Che ora è” di Ettore ScolaFederico Vacalebre ha ricordato lo straordinario sodalizio amicale e musicale con Pino Daniele che firmò l’indimenticabile colonna sonora di “Pensavo fosse amore …invece era un calesse”.

“Ieri, oggi e domani” è il titolo della collana di libri con la quale da anni il quotidiano “Il Mattino” sta raccontando i personaggi che hanno fatto la storia della città di Napoli attraverso la cultura, il cinema, il teatro o lo sport (da Totò a Maradona, da Sophia Loren a Paolo Sorrentino). E Troisi, come ha ricordato lo storico critico cinematografico de “Il Mattino” Valerio Caprara, “sotto il Vesuvio si trova in un ideale piedistallo su cui troneggiano con lui le icone di Totò ed Eduardo”.

Un attestato di stima travolto dal lunghissimo applauso della Sala degli Angeli del Suor Orsola che ha riunito per il settantesimo compleanno di Troisi giornalisti, studenti, docenti, attori, musicisti e semplici appassionati di ‘Massimo’. Rimasto nel cuore di tutti, come ha ricordato il direttore del Mattino, Francesco De Core, che ha firmato la prefazione del volume “Non ci resta che Massimo” sintetizzandone il senso. “Confesso: non so immaginarmelo Troisi a settant’anni. Magari con i riccioli più radi e imbiancati, e quel volto un po’ scavato che lo avrebbe reso simile a Eduardo. Ma almeno questo la morte, a dispetto della sua lugubre indecenza, può lasciarci a futura memoria: un volto eternamente giovane a far tenera compagnia alle stagioni che passano. Massimo, con le sue intuizioni, le sue battute, il suo spleen, la sua risata, il suo garbo. La mia, la nostra vita, quella di quanti lo hanno conosciuto e sono stati attraversati dalla sua magia, oggi riuniti in questo libro che è insieme omaggio e ricordoSì, davvero: non ci resta che Massimo“.

In memoria di Totò: la serata omaggio del Mattino di Napoli

Tra le migliaia di aggettivi che il povero Totò si sta vedendo accollare in questi mesi, non dovrebbe mai mancare “indistruttibile”. Nessun altro artista, infatti, sarebbe potuto sopravvivere all’inesausto coro dei celebratori né continuare a opporre le proprie qualità alla bulimia interpretativa che prolifera di pari passo con la maniacalità dei fan e dei collezionisti. La serata-omaggio, che “Il Mattino” ha allestito come prologo alla pubblicazione di un nutrito inserto monografico, prevede però un passaggio che potrebbe svincolarsi dal forse inevitabile blob: la proiezione di un conciso florilegio dei tagli operati a suo tempo dalla censura su alcuni film interpretati dal più grande attore comico del cinema e del teatro italiani.

Un contributo davvero incisivo e originale che il Centro Sperimentale di Cinematografia-Cineteca Nazionale ha voluto offrire al pubblico napoletano e in particolare ai lettori del suo quotidiano grazie all’illuminata presidenza di Felice Laudadio e alla generosa disponibilità di collaboratori e funzionari, in primis dello studioso e saggista Domenico Monetti della sezione Comunicazione, stampa ed editoria.

I titoli dei film che hanno fornito (involontariamente) questo jolly filologico sono in ordine di apparizione “Totò cerca casa” (’49, Steno e Monicelli), il trailer di “Arrangiatevi!” (’59, Bolognini), “Dov’è la libertà…?” (‘54, Rossellini), “Sua eccellenza si fermò a mangiare” (’61, Mattoli), “Totò e le donne” (’52, Steno e Monicelli), “I due marescialli” (’61, Corbucci) e “Totò sexy” (’63, Amendola) e “Totò e Carolina”(’55, Monicelli), quest’ultimi privi del sonoro.
Al di là della curiosità epidermica, ne deriverà dunque la possibilità d’abbozzare una riflessione sulle influenze ideologiche che negli anni condizionati dal clima della guerra fredda si contrapposero utilizzando anche la sponda delle pratiche censorie. Diciamo subito che quest’indagine, non solo doverosa ma anche avvincente, può prendere due direzioni alquanto divergenti: quella secondo noi mirata ad aiutare non solo i cinefili a vederci più chiaro sui rapporti tra autori e mercato, recuperare l’uso imparziale delle testimonianze e dei documenti e delineare con la necessaria lucidità l’avanzamento spesso conquistato con la lotta del costume nazionale e quella più in voga e sbandierata a casaccio che tende a servirsene per ritrarre il nostro paese come una sorta di dittatura in grado di soffocare qualsiasi conato di dissidenza culturale.

Per quanto oggi possa sembrare assurdo, innanzitutto, non è clamoroso il fatto che la censura si dedicasse con zelo all’esame dei film di serie B e C (dalle farse al peplum), perché era proprio nel settore destinato al tripudio delle sale popolari che le produzioni si concedevano licenze soprattutto sul piano del voyeurismo. Certo, tra decine di pellicole di questo genere che la facevano franca, si stagliano casi davvero incredibili come quello, appunto, di “Totò e Carolina”, da qualcuno definito con notevole enfasi il film più censurato della storia del nostro cinema: nel contesto di un apologo smielato ed edificante, per noi tra i peggiori girati dall’attore, la commissione dipendente dal ministero dell’interno allora occupato dal falco Mario Scelba ravvisò addirittura 35 punti da eliminare perché offensivi nei confronti dell’arma dei carabinieri e della religione cattolica. Circostanza che si ripete nel plot di “Guardie e ladri” in cui il brigadiere Fabrizi, secondo quei signori più realisti del re, quando rinuncia a consegnare per pietà il truffatore alla legge sarebbe apparso espropriato d’autorità e messo sullo stesso piano del personaggio antisociale.

Puntualmente nemico delle figure di potere di volta in volta incarnate da caporali, capiufficio, deputati, direttori, comandanti, alti ecclesiastici il principe De Curtis rischiava di diventare un elemento pericoloso per la stabilità delle istituzioni consolidatesi nel dopoguerra a partire da quella cruciale della famiglia: tesi nient’affatto peregrina perché quel personaggio anarcoide e sfrontato sullo schermo non aveva rispetto per niente e nessuno, senza peraltro potersi giovare di padrini antagonistici considerato che i suoi filmetti erano invisi agli intellettuali vicini al neorealismo e la sua visione della donna e del sesso non coincideva certo con quella “onesta e pulita” promossa dalle militanti social-catto-comuniste dell’UDI. Grazie anche al nostro mini scoop, insomma, molti appassionati potranno rivolgersi con maggiore cognizione di causa ai lavori di Tatti Sanguineti che con le sue inchieste scritte e filmate ha fatto luce sulle motivazioni dei tagli di censura subiti da lungometraggi, cortometraggi e pubblicità distribuiti in Italia dal 1913 al 1965 (“Volete conoscere un film? Dai tagli fatti scoprirete quasi tutto. La censura aveva diversi livelli, basta saperli leggere”).

Proprio lo storico, ricercatore e organizzatore definito da Aldo Grasso il “retroscenista” del cinema italiano che nel documentario “Giulio Andreotti – Visto da vicino” propose un’attentissima rilettura del rapporto col cinema tra il ’47 e il ‘53 del giovane sottosegretario del governo De Gasperi al di là della celebre battuta “i panni sporchi si lavano in famiglia” la cui alternativa epigrafe recita così: “mentre lavoravo a un libro su di lui, lo sceneggiatore ex comandante partigiano e comunista Rodolfo Sonego mi disse: Andreotti ha ammazzato cinque film, ma ne ha fatti nascere cinquemila”.

Fonte:

Totò “tagliato”

Matilde Serao: nel ‘ventre’ della sua Napoli

Una personalità come quella di Matilde Serao  (Patrasso 7 Marzo 1856, Napoli  25 Luglio 1927) non ha certo bisogno di presentazioni. Greca ma trapiantata a Napoli, Matilde Serao resta una delle più grandi giornaliste e scrittrici che il nostro Paese può vantare di aver avuto. La Serao fonda quello che poi diventerà <<Il Mattino>> di Napoli ed è la prima donna in assoluto alla quale è riconosciuto un merito simile.

Figlia del giornalista Francesco Serao, la giovane Matilde ha la fortuna di conoscere molto presto il mondo del giornalismo che, di sicuro, non vive un periodo felice negli anni a cavallo tra ottocento e novecento. Questo però le consente di forgiare il suo carattere e raffinare metodo ed attitudine.
Inizialmente riesce, non senza sacrifici, a scrivere attraverso pseudonimi come quello di Tuffolina per il Giornale di Napoli e di Ciquita, una volta trasferita a Roma dove collabora con la nota rivista Capitan Fracassa. Fiera, schietta, immediata nelle sue analisi arriva al lettore in maniera chiara e semplice.

Un focus sul carattere e la determinazione della Serao ci è permesso anche dalla sua unione matrimoniale e professionale con il giornalista Edoardo Scarfoglio che avviene nel 1885. Un momento cardine questo per la storia stessa del giornalismo. I due insoliti innamorati danno vita a qualcosa di potentissimo dal punto di vista della carriera professionale. Inizia tra i due un sodalizio fondamentale per la vita del <<Corriere di Roma>> e poi del <<Corriere di Napoli>> che può vantare anche firme come quella di D’Annunzio e Carducci; premesse queste che inaugureranno la fondazione del <<Mattino>>, il cui primo articolo uscì nel 1892 e di cui Scarfoglio è direttore mentre la Serao, che scelse di firmasi con lo pseudonimo Gibus, è co-direttrice. Paradossalmente, l’equilibrio tra i due crolla ed in maniera inversamente proporzionale al successo del giornale; alcune vicissitudini sentimentali ed alcune inchieste ed accuse sui due impediscono la collaborazione che diventa sempre più aspra ed infelice al punto che la Serao sente di dove lasciare la redazione. Di lì a poco si dedica al Giorno, giornale da lei diretto assieme all’avvocato Giuseppe Natale che sposa dopo la morte di Scarfoglio. Una vita non facile, quella di Matilde Serao, fatta di amori difficili, primo tra tutti quello sacro per il giornalismo.

Matilde Serao: tenerezza e tristezza nella sua celebre opera Il ventre di Napoli

Matilde Serao è anche autrice di diversi romanzi e quello scritto nel 1886 Vita e avventure di Riccardo Joanna viene addirittura definito ”il primo romanzo del giornalismo italiano” da Benedetto Croce. Il romanzo sul quale però intendo soffermarmi è Il Ventre di Napoli .
Dedicato alla baronessa Giulia de Rothachild, Il Ventre di Napoli  si apre con una precisazione che la Serao fa sui diversi momenti in cui è stato scritto il romanzo, distanti tra loro circa un ventennio, prima e dopo il colera, ma ugualmente importanti. La sua è una vera è propria inchiesta giornalistica sulla città di Napoli, di cui denuncia i problemi con una lucidità estrema. Matilde Serao è come se accompagnasse gli uomini e le donne che incontra per le strade della sua amata città e le accompagnasse nella loro vita, nella loro storia. Li tiene per mano quando scende nei ”bassi”, quando entra nelle case dove lavorano le serve, quando li osserva mentre mangiano o si disperano, mentre muoiono di fame o tacciono le loro disgrazie con impressionante dignità. Li segue passo dopo passo con lo sguardo amico ed il cuore aperto.
Scandaglia tutti i colori di questa città, è attenta ai profumi, prova a spiegare e giustificare lo stile di vita dei dimenticati, degli oppressi, di coloro che sono semplicemente infelici e per colpe che non hanno. Ho trovato sorprendente il capitolo in cui ci parla del lotto, visto come opportunità di riscatto per la maggior parte della popolazione sofferente, il lotto come strumento di realizzazione personale e sogno da non infrangere.  Così come ho trovato di un femminismo vero e concreto la sua comprensione verso i problemi in cui incorrono le serve assunte nelle case dei ”ricchi”, completamente annullate in un triste rapporto di schiavitù, risultato della miseria in cui anche e soprattutto le donne versano. Come una madre le accarezza e le difende. Come una grande madre dal ventre accogliente, tiene i suoi figli in grembo e li protegge.

Il senso di protezione verso i napoletani emerge continuamente nelle sue pagine. La salute della sua città e dei suoi cittadini è una causa che la riguarda, che tiene a cuore più di ogni altra cosa perché crede nelle possibilità del suo popolo, tanto che alla fine del secondo capitolo le sue parole esortano ad una presa di coscienza collettiva e ad una riflessione più generale che va a colpire tutti i responsabili del degrado in cui si trova Napoli.

Faccia il suo dovere chiunque, non altro che il suo dovere, verso il popolo napoletano dei quattro grandi quartieri, faccia il suo dovere come lo fa altrove, lo faccia con scrupolo, lo faccia con coscienza e, ogni giorno, lentamente, costantemente, si andrà verso la soluzione del grande problema, senza milioni, senza società, senza intraprese, ogni giorno si andrà migliorando, fino a chè tutto sarà trasformato, miracolosamente, fra lo stupore di tutti, sol perchè, chi doveva si è scosso dalla mancanza, dalla trascuratezza, dall’inerzia, dall’ignavia e ha fatto quel che doveva.
-Napoli, primavera 1904

Ma l’amore e la forza d’animo della Serao presenti nel Ventre di Napoli sembrano non bastare anche quando si scaglia con rabbia e forza contro certi meccanismi e certe realtà.
Matilde Serao, quando ritorna a Napoli, è profondamente delusa e consapevole che il cambiamento per far sì che avvenga deve coinvolgere tutti, dal basso come dall’alto. Ben’oltre il paravento di cui ci parla.
E non è forse dietro il paravento che, ancora oggi, si nascondono problemi e responsabilità di una città ormai da secoli martoriata e penalizzata per scelte sbagliate? E questo scelte vi assicuro che la Serao le spiega. Scelte retoriche e sbagliate praticamente da sempre. Scelte volte esclusivamente a salvare la faccia. E questo già due secoli fa.

Exit mobile version