‘Il mulino del Po’, l’opera monumentale di Riccardo Bacchelli

Il mulino del Po: si contano forse sulle dita, e ogni anno scemano, e per scoprirli bisogna andare apposta a cercarli, chi non percorra il fiume in barca.

Tanto pochi, nella vastità molle e potente del fiume serpeggiante, li nascondono o li lasciano appena intravedere, qua un gomito, là un ciglio d’argine, altrove un lembo di golena boscosa, o le svolte della strada rivierasca.

Mulini del Po: le parole con cui Riccardo Bacchelli apriva il suo romanzo intitolano e inaugurano anche queste pagine, ne suggeriscono il metodo di ricerca e mormorano le difficoltà incontrate.

Un romanzo fluviale di uno scrittore emarginato dal Novecento e la storia, anch’essa fluviale, delle sue riscritture per il cinema e per la televisione.

Il mulino del Po: trama e contenuti

Lazzaro Scacerni, nominato erede da Mazzacorati, un capitano dell’esercito napoleonico in Russia, tornato in Italia si costruisce un mulino. Sposa Dosolina e conserva con difficoltà i suoi beni. Il figlio Giuseppe, detto Coniglio Mannaro, riesce ad ampliare, non sempre con metodi leciti, la proprietà paterna.

Il figlio di Giuseppe, Lazzarino, raggiunto Garibaldi, muore a Mentana. Dopo una violenta inondazione Coniglio impazzisce e finisce in manicomio. La moglie Cecilia supera mille avversità per mantenere la famiglia.

Il figlio Princivalle, per difendere la sorella Berta, uccide con un pugno un giovane vicino. Un altro figlio di Cecilia, Giovanni si sposa e adotta un trovatello che morirà sul Piave nel 1918 e sarà l’ultimo Lazzaro Scacerni.

Nell’ultima parte del romanzo, intitolata Mondo vecchio sempre nuovo, l’epopea della famiglia Scacerni giunge alla fine. Cecilia, moglie di Giuseppe, fa di tutto per riuscire a sopravvivere da sola.

Una volta rimasta vedova, però, la sfortuna si accanisce di nuovo su di lei: il figlio Princivalle verrà accusato dell’incendio doloso del San Michele e finirà in carcere.

Giovanni, l’altro suo figlio, adotta un bambino e lo chiama Lazzaro. Questo verrà però ucciso sul Piave proprio mentre la vittoria italiana si stava avvicinando. Era un geniere e, quando venne colpito, stava lavorando alla costruzione di un ponte di barche.

Una trilogia sul Risorgimento italiano

La trilogia pubblicata a puntate da Riccardo Bacchelli sulla rivista «Nuova Antologia» tra il 1938 e il 1940, e poi raccolta in volumi per l’editore Garzanti, è infatti solo uno dei mulini del Po: il capostipite di una serie di mulini ridisegnati in seguito per il discorso audiovisivo sul grande e sul piccolo schermo.

Saranno questi i veri “ultimi mulini natanti, gli ultimi degli ultimi”.

Sia per il film del 1949 diretto da Alberto Lattuada sia per lo sceneggiato trasmesso in due cicli con la regia di Sandro Bolchi nel 1963 e nel 1971 sulla Rete Nazionale, il romanzo di Bacchelli rappresenta il palinsesto sul quale sono stati vergati dei sovratesti, destinati a tradursi in immagini.

Tra letteratura, cinema e televisione

Entrare nei cantieri di scrittura cinematografica e televisiva del Mulino del Po significa valutare per la prima volta un lavoro di tessitura dell’intreccio fatto di tappe e mani diverse. E significa scoprire sempre, a fianco alle tracce lasciate da illustri sceneggiatori che rispondono ai nomi di Federico Fellini, Tullio Pinelli, Mario Bonfantini, Carlo Musso e Luigi Comencini, il filo rosso tratteggiato dal pennino di Riccardo Bacchelli, coinvolto in entrambi i progetti.

Per una manciata d’anni Riccardo Bacchelli, classe 1891, nasce prima dell’invenzione del cinematografo e, rispetto a esso,
condivide con la generazione dei letterati più anziani – Giovanni Verga in testa – quell’atteggiamento ambivalente fatto di diffidenza e di sottaciuta compromissione professionale solo in ragione dell’odor di quattrini.

A differenza dei suoi predecessori, però, Bacchelli incontra anche la televisione. E la rimira. Egli è uno dei primi letterati che entra fisicamente nel tubo catodico, conduce trasmissioni culturali di un certo rilievo e spende con dovizia il suo inchiostro per la narrazione drammaturgica sul piccolo schermo.

La storia dei “piccoli” e quella dei grandi

Il mulino del Po è il racconto di diverse generazioni, uno spaccato tra la caduta di Napoleone e il primo Dopoguerra, dove la storia quotidiana si intreccia con la grande Storia.

La lettura in certi punti risulta un po’ ostica, causa i moltissimi dettagli storici, una ricca  storiografia di eventi minori. Nonostante questi aspetti, l’opera di Bacchelli rimane importantissima e purtroppo dimenticata (l’ultima edizione risale al 2013, Mondadori).

Il mulino del Po offre un’immagine vivida di come potevano svolgersi le vicende umane e sociali in un periodo movimentato come quello della lunga strada per l’unità d’Italia (il brigantaggio, i primi moti sociali).

Per noi che siamo ancora abituati a studiare la storia, a scuola, sempre e solo dal punto di vista dei grandi (politici, generali e comandanti militari, alti prelati) è l’occasione di immaginare ed immedesimarsi nei punti di vista dei “piccoli” (contadini, mugnai e lavoratori in genere, soldati semplici, curati di campagna) che sono poi, in ultima analisi, quelli che la storia la fanno realmente, ma perdendosi nell’oblio, oscurati dai grandi nomi che i libri di storia annoverano.

Il moralismo di Bacchelli

Il peculiare moralismo di Bacchelli riesce, per la maggior parte del romanzo, a dare una base solida sia alla visione della vicenda che allo svolgersi dell’intreccio. Non esente da descrizioni bucoliche alle volte caricaturali, l’autore è però capace anche di far commuovere e di tenere inchiodata l’attenzione del lettore alla pagina con la sua scrittura che per lunghi tratti scorre fluida e per un romanzo  che supera le duemila pagine, l’insieme appare tuttavia di una compattezza indubbiamente da apprezzare.

“Iride”, la tragedia di uno scherzo

Riccardo Bacchelli, conosciuto soprattutto per l’omonima legge, promulgata nel 1985, la quale  prevede un fondo a favore di cittadini illustri che versino in stato di particolare necessità e per  la vasta trilogia romanzesca del Mulino del Po (I, Dio ti salvi, Milano 1938; II, La miseria viene in barca, 1939;. III, Mondo vecchio, sempre nuovo, 1940), che abbraccia un secolo di storia italiana, dal declino napoleonico sino alla battaglia di Vittorio Veneto, è stato senza dubbio uno dei più talentuosi scrittori del panorama letterario novecentesco. Il suo ultimo romanzo, Iride, del 1937 rappresenta l’ulteriore conferma delle qualità di scrittore di Bacchelli, oltre che dei suoi limiti.

Lo scrittore bolognese ha rappresentato più che un vero e proprio autore, un caso letterario e anche questo suo ultimo romanzo induce nel lettore “esperto” il dubbio se si tratti di un romanzo o di un discorso, dato che Bacchelli si preoccupa di annessi e connessi discorsivi del racconto, anche i meno importanti, riducendo il romanzo a “veicolo per la sua prosa”. Iride porta con se quell’impianto stilistico fatto di persuasioni, incanti, gusto per la dispersione e costruzioni liriche. L’intero romanzo è sostenuto da un ritmo disgiunto da quello dei fatti che segna il superamento del naturalismo che è stato il peso morto del romanzo moderno; è lo stile che compone per Bacchelli, non lui stesso.

La premessa narrativa di Iride è la storia della sua protagonista, una bellissima fanciulla nella quale le caratteristiche fisiche e morali danno vita ad un ideale romantico; tenuta lontano di casa dalla madre che teme per lei l’aria umida settentrionale dei campi, dato che i due figli sono morti, ella vi torna per far ritrovare la madre morta. Iride tuttavia riporta la vita in quella casa, dove un padre vedovo le riserva un affetto morboso che sfocia nella gelosia quando la ragazza annuncia di essersi innamorata di un vicino di villa, Matteo Almeide, giovane ed elegante signore di campagna. Fortunatamente Iride non ci viene presentata come una creatura troppo alta su questa terra ma lo scrittore si perde in un difetto smodato: il gusto per gli scherzi innocenti. Pochi giorni prima delle nozze infatti, Iride, sorpresa dal fidanzato mentre si prova l’abito da sposa (cosa che porterebbe male al matrimonio), scappa e va a nascondersi dentro ad un baule che ha scoperto in un ripostiglio segreto; un balzo del cane ha abbattuto le scalette con cui la ragazza vi è salita, cancellando in questo modo ogni traccia del passaggio, e si giunge all’ipotesi, grazie all’aiuto della polizia, che Iride possa essere scappata con un amante segreto. E la povera ragazza muore in quel baule, avendo fatto scattare la chiusura sulla propria testa.

A questo punto il romanzo si perde in indugi su altri personaggi, fin quando, molti anni dopo, un’anziana scrittrice svedese, andata ad abitare nella villa, curiosando qua e là, scopre il ripostiglio, il baule e il cadavere mummificato della ragazza. Bacchelli ad un certo punto del libro fa riferimento alla leggenda marinara ripresa da una poesia di Ibsen: “che un morto a bordo tien tutta la nave in angosciosa oppressione, come in un incubo di tristo presagio”, non rendendosi probabilmente, pienamente conto, che il il morto a bordo è proprio il suo romanzo ad avercelo.

In Iride, Bacchelli lavora sull’umano, vuole che la morte per scherzo della ragazza ci colpisca al cuore: se si dà la colpa alla ragazza, vittima della sua stessa mania, si distrugge il suo prestigio, se invece la colpa si dà al destino, non si può fare a meno di pensare a quanto sproporzionata sia la differenza tra il personaggio e la sorte che lo scrittore ha destinato ad Iride. Ma lo scrittore, come ha acutamente notato Debenedetti, paga il contrasto tra la grande tradizione italiana e i generi del romanticismo europeo.

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