‘Il Signore degli Anelli’ di Tolkien, un mondo immaginario ma reale nella recensione del poeta Auden

Al mondo esisteranno pure lettori che non amano le Gesta Eroiche, però io non ne ho mai incontrati. Per molti di noi costituiscono il più piacevole genere letterario, al punto che non possiamo fare a meno di divorarne le pagine anche quando la nostra capacità critica le bolla come spazzatura. Chiunque ricordi Lo Hobbit come il miglior racconto per bambini degli ultimi cinquant’anni non potrà che aprire la nuova opera del professor Tolkien con le più alte aspettative, e tuttavia La Compagnia dell’Anello le supera tutte. Sarebbe alquanto sorprendente se entro il prossimo Natale il libro non lo rendesse ricco.

Nel parlare di un romanzo di questo tipo il recensore si trova in difficoltà, perché non deve rovinare il gusto della lettura rivelando la trama, che in questo caso è intrigante almeno quanto quella de I Trentanove Scalini. Di norma i racconti epici trattano di un oggetto arcano di cui il Nemico si è impossessato, o che terrificanti guardiani proteggono da quanti ne sono indegni; nessuno può recuperarlo se non l’eletto, il cui compito è appunto quello di trovarlo. Ne La Compagnia dell’Anello, l’oggetto arcano (che somiglia all’Anello dei Nibelunghi, ma ancora più minaccioso) è già all’inizio in mano all’eroe. Il Nemico che lo ha creato lo credeva perduto per sempre, ma ora ha scoperto dove si trova e dispiega i suoi mezzi demoniaci per recuperarlo. E poiché nemmeno i giusti possono farne uso senza soccombere al male, deve essere distrutto: questo però si può fare soltanto in un certo modo e in certo luogo, che si trova purtroppo nel cuore del regno Nemico. La Missione, quindi, consiste portare l’Anello nel luogo della sua disfatta, senza mai essere intercettati.

Questa Missione si svolge all’interno di un mondo scaturito dall’immaginazione di Tolkien, con tanto di paesaggi, storia, abitanti. Nelle sue linee generali, questo mondo è Celtico e Scandinavo, più che Mediterraneo. L’eroe, il signor Frodo Baggins, appartiene a una razza di creature note come Hobbit. Nonostante la statura di tre piedi soltanto e la peluria plantare, gli Hobbit ricordano molto nel modo di pensare e nella sensibilità gli arcadici paesani che popolano i racconti gialli inglesi. Per mille anni questi esseri rurali hanno goduto di un’esistenza idilliaca all’interno di una fertile regione denominata la Contea, poco informati (e per nulla interessati) sulla vita oltre il confine. In realtà, la Contea è una piccola oasi in un mondo in decadenza: quelle che erano un tempo grandi città ormai sono cadute in rovina, fertili pianure si sono trasformate in sterili distese, le strade e i ponti sono uno sfacelo, ovunque si è braccati da bestie feroci e poteri maligni. Oltre agli Hobbit e alla loro infantile innocenza, incontriamo Elfi (che conoscono il bene e il male, ma non hanno sperimentato la Caduta), Nani e Uomini (buoni o cattivi). Alcuni di loro sono eroici combattenti, e discendono da sovrani del passato, altri sono stregoni. L’incarnazione più recente del Nemico è Sauron, Signore di Barad-dûr, la Torre Nera della Terra di Mordor. Sauron è a capo di un esercito di Troll, Orchi e altre creature ancora più letali, e ogni giorno accresce il suo potere sulle menti degli uomini.

Uno scrittore contemporaneo che si prefigga di creare un universo immaginario ma convincente ha davanti a sé impresa molto più ardua di quella affrontata dagli autori dei romanzi cortesi, perché non può scrivere né essere letto senza tenere a mente la letteratura del verosimile e la ricerca scientifica degli ultimi secoli. Per questo, darà una qualche idea del portento di Tolkien il fatto che sono riuscito a trovare solo due dettagli poco plausibili da contestargli. I dettagli stessi illustrano bene le differenze fra i lettori del ventesimo secolo e i contemporanei di Edmund Spenser. In primo luogo, leggiamo che gli Hobbit hanno conosciuto molti anni di prosperità, immuni da guerre, pestilenze e carestie, e che di norma sono longevi e hanno famiglie numerose. In tal caso, non riesco a concepire come la sovrappopolazione non li abbia costretti a emigrare dalla Contea. In secondo luogo (dettaglio quasi irrilevante) il prosciugamento del fiume Sirannon viene attribuito ad una diga, che ha creato un lago. Questo lago è però pieno da anni: dove vanno a finire le sue acque?

Il primo problema che si presenta a chi crea un mondo immaginario è lo stesso che si presentò ad Adamo: deve stabilire un nome per ogni cosa e ogni creatura; questi nomi devono essere appropriati e coerenti fra loro. Già in un universo ‘comico’ il compito è arduo; in uno ‘serio’, il successo sembra quasi un miraggio. Posso solo dire che l’abilità di Tolkien al riguardo supera quella di qualsiasi altro scrittore a me noto, morto o vivente. Il paesaggio del suo racconto è vastissimo: da est a ovest, dalle Colline Ferrose al Golfo della Luna, corrono milleduecento miglia, e da Nord a Sud, da Carn Dum al delta dell’Anduin, ne passano millecento. In questa regione vivono numerose specie dotate di parola: ognuna ha la sua nomenclatura, la sua storia e la sua politica, eppure l’autore trova senza difficoltà apparente nomi che sembrano ineluttabili. Vero che è un filologo rinomato, però chi dei suoi colleghi saprebbe inventarsi linguaggi ‘buoni’ e ‘malvagi’ convincenti quanto i seguenti esempi?

A Elbereth Gilthoniel,
silivren penna míriel
o menel aglar elenath!
Na-chaered palan-díriel
o galadhremmin ennorath,
Fanuilos, le linnathon
nef aear, sí nef aearon!
Ash nazg durbatulûk, ash nazg gimbatul,
ash nazg thrakatulûk, agh burzum-ishi krimpatul

E ancora: quale altro creatore di paesaggi immaginari possiede un altrettanto acuto occhio per la topografia? Perché un viaggio sembri reale, il lettore deve poter vedere i luoghi attraversati come li vedrebbe il viandante, vale a dire diversamente a seconda del mezzo di trasporto e delle circostanze della missione. Alla fine del libro Frodo Baggins ha percorso all’incirca milletrecento miglia, in gran parte a piedi, coi sensi costantemente all’erta per via della paura, scrutando ogni angolo del cammino in cerca dei suoi inseguitori; eppure, Tolkien riesce a convincerci di non aver tralasciato nemmeno un dettaglio di quelli colti dai suoi eroi. In effetti, è talmente accurato che il lettore che consulta la bellissima cartina a fine libro si accorgerà subito che il percorso effettuato fra il Ponte sull’Hoarwell e il Forte di Bruinen è disegnato in modo errato.

Nelle circostanze critiche che caratterizzano le trame eroiche, le reazioni contemplate non sono molte (combattere o fuggire, essere leali o tradire), e le sfumature caratteriali non sono possibili né importanti. I personaggi devono rappresentare gli archetipi letterari fondamentali: il Saggio, il Forte, lo Spensierato, il Cauto, la Dama Bianca, il Signore Oscuro. Tolkien riesce intelligentemente a dare ad ogni archetipo una profondità e una solidità fuori dal comune, e racconta per ognuno di loro una storia che è rappresentativa del clan a cui appartiene. Il passato di Aragorn, ad esempio, parla non solo di lui ma di tutti i Raminghi. Soltanto un personaggio non gli è riuscito, ma forse si tratta di antipatia personale. Sam Gamgee, lo scudiero fidato, è senz’altro un personaggio rispettabile e suppongo dovremmo apprezzarlo, però a me fa solo venir voglia di prenderlo a calci.

Probabilmente la più grande impresa di Tolkien è esser riuscito a scrivere un romanzo epico che sembra del tutto pertinente alla realtà dell’epoca in cui viviamo. Quando leggiamo storie medievali del medesimo genere, per quanto piacevoli le possiamo trovare, siamo talvolta tentati di domandare al Cavaliere Errante: la tua missione è così importante? Persino nella ricerca del Sacro Graal, il successo o il fallimento sono rilevanti soltanto per quelli che la intraprendono. È difficile scrollarsi di dosso il sospetto che, nel caso dei suddetti Cavalieri, la loro ‘vocazione’ sia un termine altisonante che designa il passatempo a cui i più ricchi possono giocare mentre il duro lavoro è svolto dai ‘villani’. Ne La Compagnia dell’Anello, al contrario, il destino dell’anello segnerà l’esistenza di popoli interi, che magari nemmeno l’hanno mai sentito nominare. Inoltre, come accade nella Bibbia e in altre fiabe, l’eroe non è un Cavaliere, a cui il lignaggio e l’educazione abbiano donato una aretè fuori dal comune, ma un hobbit non diverso da tutti gli altri. Non è il saggio Gandalf, o il potente Aragorn, che viene chiamato a compiere questa missione pericolosa e potenzialmente mortale, ma Frodo Baggins, il quale volentieri ne farebbe a meno; e se ci domandiamo perché proprio lui, e non uno delle centinaia come lui, l’unica risposta è che il caso, o la Provvidenza, lo ha scelto, e lui non può che obbedire.

Se esistono persone per le quali leggere La Compagnia dell’Anello può essere dannoso (e probabilmente ce ne sono), si tratta di coloro che ne trarranno un parallelismo troppo letterale alla nostra attuale situazione. In un romanzo è giusto e naturale che le idee malvagie siano incarnate in creature malvagie, ma se guardiamo alla storia questa è una teoria pericolosa. Viviamo purtroppo in un’epoca nella quale se pensiamo a ideologie perverse, subito possiamo localizzare sull’atlante la posizione di Dol Guldur e Barad-Dûr (credo di essere in grado di identificare Minas Tirith, anche se il New Statesman, da sinistra, non mi darebbe ragione); sarebbe un errore, tuttavia, concludere che tutti gli abitanti ad Est dell’Anduin siano Orchi da sterminare.

Null’altro ho da aggiungere su quest’opera magnifica se non che è piuttosto indelicato da parte dell’editore non pubblicare contemporaneamente al primo i due volumi successivi, Le Due Torri e Il Ritorno del Re: mi è insopportabile dover aspettare per scoprire cosa accada al Portatore dell’Anello. Spero poi che nella seconda edizione infileranno la mappa in una busta al posto di incollarla alla copertina: come me, infatti, molti lettori la staccheranno per poter seguire il percorso della storia, col rischio di perderla. Per finire, a chi (come il sottoscritto) scorre nelle vene sangue Nano, piacerebbe che il signor Tolkien disegnasse anche una carta geologica.

 

Wystan Hugh Auden

 

Fonte

“Il Signore degli Anelli è un libro meraviglioso. Anche se prenderei a calci Sam Gamgee”. La recensione di Auden al capolavoro di Tolkien

J.R.R. Tolkien: lucido conservatore e sincero cattolico per il quale i grandi racconti non hanno mai una fine

Acuto conservatore ostile a qualsiasi forma di estremismo, sincero cattolico profondamente influenzato da numerosi altri apparati mitico-religiosi, tenace difensore degli alberi contro la società delle macchine: Tolkien è stato questo, e molto di più. Ripercorriamo la vita di uno dei più influenti autori del Novecento, nella convinzione che: “Non tocca a noi dominare tutte le maree del mondo; il nostro compito è di fare il possibile per la salvezza degli anni nei quali viviamo, sradicando il male dai campi che conosciamo, al fine di lasciare a coloro che verranno dopo terra sana e pulita da coltivare”. (Gandalf, Il Signore degli Anelli).

«[…] Non hanno dunque una fine i grandi racconti?». «No, non terminano mai i racconti», disse Frodo. «Sono i personaggi che vengono e se ne vanno, quando è terminata la loro parte. La nostra finirà più tardi…o fra breve»

John Ronald Reuel nasce a Bloemfontein il 3 gennaio 1892. Suo padre, Arthur Tolkien, aveva ottenuto un posto nella Bank of Africa ed era stato nominato responsabile dell’importante filiale in Sudafrica. Venne poi raggiunto dalla sua amata, Mabel Suffield, i due infatti, si erano sposati il 16 aprile del 1891. Il 17 febbraio 1894 Mabel dà alla luce il secondo figlio, Hilary Arthur Reuel, ma le condizioni – perlopiù climatiche – non ottimali a Bloemfontein la spingono a tornare in Inghilterra con i due pargoli. Arthur avrebbe dovuto raggiungerli successivamente, ma così non avviene: a seguito delle febbri reumatiche e della conseguente emorragia muore il 15 febbraio 1896. Pochi mesi dopo, Mabel abbandona la casa dei suoi genitori e si trasferisce con John e Hilary in un’abitazione a buon mercato nel piccolo villaggio di Sarehole, a circa un chilometro di distanza da Birmingham. J. R. R. porterà sempre nel cuore questi anni. In una lettera del 12 dicembre 1955, rispondendo a chi aveva paragonato la Contea – dei suoi cari Hobbit – ad Oxford nord, scrive:

In realtà è molto più simile a un villaggio del Warwickshire nel periodo intorno al Giubileo di Diamante; che è distante quanto la Terza Era dal deprimente e perfettamente banale agglomerato di case a nord della vecchia Oxford, privo anche di un indirizzo postale”.

A Sarehole il giovane Tolkien inizia ad usare parole dialettali, tipo gamgee “bambagia”, termine che deriva da un certo dottor Gamgee, inventore di un particolare tipo di tessuto fatto di cotone idrofilo. Inoltre, sviluppa due grandi passioni che risulteranno altrettanto significative da lì a poco: quella per gli alberi – con cui amava stare – e quella per i draghi, attraverso le fiabe di Andrew Lang. Pochi anni dopo, Mabel decide di convertirsi al cattolicesimo, incorrendo nella scomunica da parte della famiglia, in particolare del padre John, un unitario convinto, non in grado di sopportare una figlia papista. Questa decisione porta a vivere lei e i suoi figli in una situazione di grande ristrettezza economica. I tre cambiano casa più volte in questi anni, spostandosi in differenti zone di Birmingham (Moseley, King’s Heath, Oliver Road), ma la tenacia della madre è ammirevole, come John Ronald ribadirà continuamente nella sua vita, definendola anche martire, a partire da una lettera del marzo 1941 al suo primogenito Michael:

“Anche se di nome sono un Tolkien, per gusti, talenti ed educazione sono un Suffield, e ogni angolo di quella contea [Worcestershire] (non importa se bello o squallido) è per me in un modo indefinibile “casa”, come nessun’altra parte del mondo. Tua nonna, alla quale devi così tanto, poiché era una signora dotata di grande bellezza e spirito, molto provata da Dio con dolori e sofferenze, che morì giovane (a 34 anni) di una malattia aggravata dalla persecuzione della sua fede, morì nella casa del postino di Rednal, ed è sepolta a Bromsgrove”.

La precoce morte di Mabel – affetta da diabete – nel 1904 porta i due bambini a vivere dalla zia Beatrice, che diede loro “una casa, pasti caldi e poco più” nel centro di Birmingham. A giocare un ruolo determinate è invece il loro tutore padre Francis Morgan. In questi anni, J. R. R. inizia a scoprire la sua passione per la filologia. Entrò in contatto con un’introduzione elementare alla lingua gotica:

“non si accontentò di imparare il linguaggio, ma, per riempire i vuoti dello scarno vocabolario sopravvissuto, cercò di inventare altre parole, e proseguì nell’intento fino a costruire un linguaggio germanico plausibile”.

Nel corso della sua vita, di lingue Tolkien ne studierà e inventerà molte, interrogandosi profondamente riguardo le sue creazioni. In una lettera di risposta all’Observer del 1938 scrive:

“E poi, perché scrivo dwarves per i nani? La grammatica vorrebbe dwarfs; la filologia suggerisce che la forma storica sarebbe dwarrows. La vera risposta è che non ho saputo fare di meglio. Ma dwarves sta bene con elves; e in ogni caso elfo, gnomo, orco, nano sono solo traduzioni approssimate dei nomi in elfico antico per esseri che non hanno proprio le stesse caratteristiche e funzioni”.

Nel febbraio 1958, facendo i complimenti al figlio Christopher per una relazione ad Oxford, afferma di aver “improvvisamente capito di essere un filologo puro”, realmente emozionato dall’impatto estetico delle parole. Una consapevolezza raggiunta in piena maturità, ma presente fin da sempre. Del resto, in una certa misura, le storie tolkieniane non sono altro che il modo migliore per concretizzare le creazioni a lui più care.

È sempre in questo periodo che John Ronald conosce Edith Bratt, un’orfana di tre anni più grande di lui. I due si innamorano presto, ma padre Morgan si dimostra fin da subito contrario a questa relazione clandestina e proibisce al giovane di vedere la ragazza fino a quando non avrà compiuto ventuno anni. È il 1910, Tolkien ha diciannove anni. Per il ragazzo si prospettano due scelte: ubbidire a quello che per lui è stato un padre o ribellarsi e unirsi alla sua amata. Sceglie la prima. Lo fa straziato nell’animo, con la speranza di potersi ricongiungere ad Edith tre anni dopo. Nell’immediato, si dedica agli studi, che fino a quel momento aveva piuttosto tralasciato, vincendo una borsa di studio all’Exeter College di Oxford. Qui nel 1911, assieme a dei suoi compagni, fonda il Tea Club, Barrovian Society, per prendere il tè in compagnia di miti, poesie e musica. Scopre il Kalevala, la raccolta di poemi della mitologia finnica pubblicata solamente nel XIX secolo, che tanto influenzerà la sua produzione – direttamente ne La storia di Kullervo, recentemente pubblicata –. In una celebre lettera del 1951 all’editore Milton Waldman (alla quale promettiamo di dedicare un articolo a sé stante), Tolkien ritorna sul legame con le differenti mitologie:

“Inoltre, e qui spero di non sembrare assurdo, fin dalla più tenera età sono stato addolorato per la povertà del mio amato paese, che non aveva storie proprie (legate alla sua lingua e alla sua terra), non della qualità che cercavo, e trovavo (come ingrediente) nelle leggende di altre terre. Ce n’erano greche, celtiche, romanze, germaniche, scandinave e finlandesi (che hanno avuto molto effetto su di me); ma nulla di inglese, tranne materiale impoverito per libretti popolari. Naturalmente c’era e c’è tutto il mondo arturiano, ma malgrado la sua forza è naturalizzato imperfettamente, associato con la terra di Bretagna ma non con l’Inghilterra; e non sostituisce quello che a me mancava”.

Durante le vacanze estive del 1911, compie un viaggio in Svizzera ed acquista delle cartoline. Molto tempo dopo, accanto ad una di queste, una riproduzione del dipinto dell’artista tedesco Joseph Madlener intitolato Der Berggeist, scriverà: “origine di Gandalf”.

Da studente ad Oxford John Ronald è un tipo particolarmente socievole, tanto da partecipare a delle baldorie serali organizzate in giro per la città:

“Mettemmo a ‘ferro e fuoco’ la città, la polizia e i prefetti, tutti insieme per circa un’ora”.

Con bravate che tuttavia, non portano ad alcun tipo di conseguenze disciplinari, così potè continuare tranquillamente i suoi studi. Lentamente si arriva al 1913, J. R. R. ha ventuno anni e può ricongiungersi all’amata Edith, la quale lo ha aspettato. I due si fidanzano ufficialmente l’anno successivo, dopo che lei viene accolta nella Chiesa cattolica. Per il giovane Tolkien è un periodo decisamente movimentato, come ricorda in una lettera al figlio Michael riguardo al Santissimo Sacramento:

“Senza laurea, senza soldi, fidanzato. Sopportai la vergogna e le allusioni dei parenti sempre più esplicite, tirai dritto e nel 1915 ottenni il massimo dei voti agli esami finali. Scattai ad arruolarmi: luglio 1915. La situazione era intollerabile e mi sposai il 22 marzo 1916. A maggio attraversai la Manica (ho ancora i versi scritti per l’occasione!) verso la carneficina della Somme”.

L’amore, la guerra e la fede. Non è un caso che, proprio nel 1917, inizi a dare corpo al suo universo mitico con The Book of Lost Tales, il futuro Silmarillion. Secondo lo studioso Carpenter, questo percorso creativo si deve a tre fenomeni interdipendenti, precedentemente accennati: la passione per le lingue, l’innato sentimento poetico e la volontà di ideare una mitologia per l’Inghilterra. Tutti questi elementi si relazionano tra loro su un sostrato profondamente cattolico:

“Qualcuno ha riflettuto sulla relazione che intercorre tra le storie di Tolkien e la sua fede cristiana, e ha trovato difficile comprendere come un cattolico osservante possa scrivere di un mondo dove Dio non è adorato. Ma un simile mistero non esiste: Il Silmarillion è l’opera di un uomo profondamente religioso, che non contraddice il proprio sentimento cristiano, ma lo completa. Nelle leggende non c’è alcuna adorazione di Dio, eppure Dio è sicuramente lì, più esplicitamente nel Silmarillion che nell’altro suo lavoro, Il Signore degli Anelli, le cui radici affondano nel primo”.

Tra il 1918 e il 1929 i coniugi Tolkien hanno quattro figli – John, Michael, Christopher e Priscilla – e John Ronald compie una poderosa ascesa nel mondo accademico diventando prima lettore di Lingua inglese all’Università di Leeds, poi professore di lingua inglese, sempre presso quell’ateneo e infine, nel 1925, titolare della cattedra Rawlinson and Bosworth di Studi anglosassoni a Oxford, dove si trasferisce presto tutta la famiglia. Gli studenti ammirano le sue lezioni e la sua dedizione all’insegnamento è encomiabile, con una quantità di ore settimanali e corsi annuali nettamente superiore alla media.

Nel marzo 1939, Tolkien tiene una conferenza alla St. Andrews University dal titolo Sulle Fiabe, che fa parte della raccolta Il medioevo e il fantastico, curata dal figlio Christopher ed edita nel 1983. Questa è l’occasione per definire meglio la sua visione del fantastico, concepito non solamente come mezzo di riscoperta, evasione e consolazione, ma anche e soprattutto in riferimento alla fantasia intrinsecamente legata alla realtà, rintracciabile nella connessione tra Mondo Primario e Mondo Secondario realizzata attraverso l’autentica Arte Sub-creativa:

“Che le immagini si riferiscano a cose che non appartengono al Mondo Primario (se davvero ciò è possibile) è una virtù, non un vizio. La Fantasia in questo senso è, credo, non una forma inferiore ma una forma più elevata di Arte, invero la forma più prossima alla purezza e dunque (quando viene raggiunta) quella più potente. Naturalmente la Fantasia ha dalla sua un vantaggio: quella stranezza che attrae. Ma questo vantaggio è stato volto contro di lei, e ha contribuito alla sua cattiva reputazione. […] Creare un Mondo Secondario all’interno del quale il sole verde possa essere credibile, imponendo la Credenza Secondaria, richiederà probabilmente fatica e riflessione, e sicuramente avrà bisogno di una particolare abilità, una sorta di maestria elfica. Pochi tentano imprese così difficili. Ma quando queste imprese vengono tentate e quando sono in una certa misure riuscite, allora abbiamo una rara conquista artistica: della vera narrativa, l’elaborazione di una storia nella sua modalità primaria e più potente”.

Il 29 luglio 1954 esce La Compagnia dell’Anello, a novembre Le Due Torri e, nell’ottobre 1955, Il Ritorno del Re, con le tanto agognate Appendici. In una lettera del dicembre 1953 all’amico padre Robert Murray, che aveva letto parte del libro in bozze rimanendone entusiasta, riscontrando:

“Una positiva compatibilità con l’ordine della Grazia”

Tolkien aveva rivelato:

“Ovviamente Il Signore degli Anelli è un’opera fondamentalmente religiosa e cattolica; all’inizio lo è stata inconsciamente, ma lo è diventata consapevolmente nella revisione. […] In realtà ho pianificato consapevolmente ben poco; e soprattutto dovrei essere grato di essere stato educato (da quando avevo otto anni) in una Fede che mi ha rafforzato e mi ha insegnato tutto quel poco che so; e questo lo devo a mia madre, che restò fedele alla sua conversione e morì giovane, in gran parte a causa delle privazioni causate dalla povertà che ne era derivata”.

Nel giro di pochi anni, l’opera viene tradotta in più lingue – la prima è l’olandese –, vince premi e fa di J. R. R. un autore di fama internazionale. Nel 1965 nasce negli Stati Uniti il primo Tolkien Club, che diverrà poi la Tolkien Society of America e nel 1968 è la volta della British Tolkien Society. Alla fine del 1966 a Yale:

“La trilogia sta vendendo più rapidamente di quanto non facesse Il signore delle mosche di William Golding nel suo momento migliore. A Harvard sta superando di gran lunga Il giovane Holden di J.D. Salinger”.

 

Lorenzo Pennacchi

 

L’elfo in Tolkien: genesi di uno stereotipo

Se la letteratura Fantasy è debitrice nei confronti di Lord Dunsany per la riscoperta della mitologia alla base di un universo fantastico e degli esseri che lo popolano, la consacrazione di suddette creature è opera del celeberrimo scrittore de Il Signore degli Anelli.

Tolkien, infatti, pone al centro della sua epica gli elfi, e ne affronta la genesi amalgamando alla perfezione due facciate della stessa medaglia: le tenebre e la luce. Se da un lato ne delinea la dimensione nobile,  riprendendone il concetto di regno magico e adiacente, dall’altro riesce a evidenziarne una natura oscura e completamente distante dall’uomo.

Probabilmente per l’autore sono proprio gli elfi i testimoni dell’origine del creato. Sono loro i protagonisti indiscussi dell’età dell’oro, della prima parte della storia del mondo, che terminerà con l’avvento dell’uomo, padrone del futuro e del libero arbitrio.

Il popolo elfico rappresenta il logos che da il nome alle cose e che conosce i misteri della creazione, possiede un legame profondo con la natura che lo circonda, gli uomini, invece, sono depositari del segreto della mortalità e unici destinatari, nella Terra di Mezzo, di un aldilà sconosciuto.

D’altronde lo stesso Tolkien ha più volte chiarito che elfi e uomini sono due aspetti diversi della razza umana. Se i due popoli sono  costituiti del medesimo amalgama, ciascuno si differenzia  per i suoi punti forti e le proprie debolezze. È ovvio che per Tolkien gli elfi raffigurino l’amore per l’arte, per tutto ciò che è bello esteticamente, e grazie a queste creature che la natura umana si eleva. Sono profondi osservatori del mondo fisico, tentano di osservarlo e di comprenderlo al fine di preservare non solo la propria incolumità, ma anche quella degli altri esseri con cui convivono pacificamente. In tal senso si distanziano dagli uomini o almeno da una parte di essi, gretti, meschini , fallaci,  che si avvicinano al mondo solo per acquisire potere da esso e usarlo malvagiamente.

Gli elfi sono immortali, non in eterno, ma all’interno del loro regno finché dura, se uccisi nella loro forma incarnata, continuano a vivere disincarnati, oppure rinascono. Tale immortalità finisce con il diventare un peso, mano a mano che le epoche si avvicendano,  il cambiamento viene recepito da essi in modo traumatico, il popolo elfico vuole vivere in un universo cristallizzato, dove a congelarsi non è solo l’aspetto fisico ma anche le emozioni. Da qui il ritratto nella letteratura Fantasy di esseri algidi e imperturbabili.

Per questo caddero in parte preda degli inganni di Sauron: desideravano il potere sulle cose come stavano, perché il loro desiderio di conservare diventasse realtà: per fermare il cambiamento e mantenere tutte le cose fresche e belle”. (J.R.R. Tolkien, La realtà in trasparenza, lettere 1914-1973. Rusconi 1990.

Gli elfi continuano ad avere un immenso potere evocativo, rimandano alla letteratura cortese e al contempo agli eroi omerici, sono stati gli spettatori dell’alba dei tempi, delle gesta gloriose dei prodi, della nascita dell’uomo, quello stesso uomo che lentamente si è affermato come successore e sovrano del mondo moderno, quello stesso uomo che ha deciso di relegare in un angolo recondito il potere del sogno, quello stesso uomo, ultimo testimone del tramonto del meraviglioso.

Fantasy: il tempo immobile del regno dei Faerie

Vivono all’interno di un mondo incantato, scandito dalle ore perenni di un tempo immobile, algide e imperturbabili, le creature del popolo dei Túatha Dé Danann, presente nella tradizione celtica, rappresentano il prototipo di elfo seguito prima da Lord Dunsany e in seguito dallo stesso Tolkien.

Come in ogni tradizione mitologica che si rispetti, i Danann, che raffigurano il principio positivo dell’origine della vita,  possiedono la loro nemesi: i Firbolg e i Fomori, razze ottuse e dai valori morali  decadenti e oscuri.

Leggenda e storia seguono confini sottili e si amalgamano nel racconto dell’arrivo di questo popolo, esperto in arti druidiche, presso i territori irlandesi. I Danann discendono dai Figli di Nemed, antichi invasori dell’Irlanda, costretti ad abbandonare l’isola dopo essere stati decimati dai Fomori.

In seguito alla sconfitta si rifugiano in Scandinavia, per poi riuscire a fare ritorno sul suolo irlandese e a imporre il proprio dominio per molti secoli.

Dal punto di vista del mythos, l’elfo, appartenente alla tradizione scandinava, è una figura ctonia, sotterranea, crepuscolare che spesso si relaziona nei confronti dell’uomo come un’ombra, una presenza inquietante. Vi sono infatti, molte fiabe scandinave che testimoniano come agli elfi piaccia scambiare i bambini umani con i propri, o altre ancora che narrano di tremende maledizioni o impareggiabili doni.

E’ innegabile che la letteratura sia sempre stata affascinata da questo universo fatato, si pensi a Sogno di una Notte di Mezza Estate di W. Shakespeare, nitida dimostrazione del legame indissolubile tra l’umano e il divino. Tuttavia all’inizio del ventesimo secolo comincia una lenta e inesorabile separazione tra il mondo terreno e quello dei Faerie. Quest’ultimo comincia a essere considerato dalla produzione letteraria come un regno “altro”, avulso da una dimensione iper – incantata e iper – distante. Le ragioni di tale allontanamento sono chiare: il reame fatato si configura come un rifugio per l’uomo moderno dalla caotica e stridente era industriale. Gli elfi vivono in armonia con la natura,  a dispetto dell’essere umano che, a causa della tecnologia, si è alienato da essa. Questo modo di intendere tali spazi alla stregua di realtà allegoriche in cui trovare riparo da un sistema sociale squallido e annichilente, costituirà un principio fondante, seguito da diversi autori fantasy contemporanei, come ad esempio Ursula K. Le Guinn, che con il romanzo La Soglia (1980), rievoca e celebra la riscoperta da parte dell’uomo  di tali luoghi incontaminati.

Dunsany, quindi, recupera il mito dei Danann celtici, e attraverso di esso Tolkien plasmerà quella creatura  immobile e cristallizzata tanto nota nel fantasy moderno: l’elfo.

Da Lord Dunsany in poi la terra degli elfi rappresenterà non solo la bellezza assoluta, ma anche la debole capacità degli esseri umani nel percepirla,  quell’attimo talmente perfetto ma fugace che alla fine si finisce con il dubitare di esso e della sua stessa esistenza.

L’elfland possiede un tempo immobile, raffigura il perenne passaggio tra la notte e il giorno, ed è lì che si cristallizza, si trasforma in un momento inesauribile. Questa dimensione del tempo deriva dalle tradizioni del nord Europa, nelle quali una notte nel mondo dei Faerie equivale a cent’anni del tempo mortale.

Da Dunsany in poi, tale considerazione declinerà in una doppia osservazione da parte della letteratura nell’affrontare questo universo: se da un lato la terra degli elfi è un mundus immoto in cui il bello è eterno e la natura incontaminata, dall’altro la stessa natura guarda con superiorità e distacco le vicende e le tribolazioni degli uomini; le emozioni delle creature che popolano tale regno non evolvono e il libero arbitrio si congela.

Il tempo degli elfi è il tempo degli alberi e della roccia, che osserva con pacato distacco l’illusoria arroganza della razza umana, che pensa di essere sovrana vanesia e immortale di un mondo caduco ed effimero.

L’impegno della produzione letteraria fantasy di cogliere e illustrare un magico luogo dove l’indefinito è perenne, ha generato la figura dell’elfo come la conosciamo oggi, e cioè quella creatura a ridosso dell’umana esperienza, che vive in un gelo emotivo in cui le passioni non fluiscono, ma rimangono immobili.

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