‘Tolo Tolo’, il nuovo film di Checco Zalone, tra convivialità e notazioni scorrette ed opposte

Resteranno delusi coloro che si sono accapigliati ancora prima dell’uscita dell’atteso film di Checco Zalone, Tolo Tolo, prodotto dalla Taodue di Pietro Valsecchi, che si dividono in quelli pronti a condannare il presunto spirito razzista, salviniano, anti-migranti, e quelli adusi a difendere la sua comicità politicamente scorretta.

Tolo Tolo: tra citazionismo e mescolamento di notazioni “scorrette”

Ma Luca Medici, alias Checco Zalone, non ha fatto una scelta di campo e in Tolo Tolo (Solo, solo) non manifesta alcuna fobia o insofferenza per i neri, gli sbarchi e i migranti né strizza l’occhio a Salvini. Anzi. Piuttosto mescola notazioni “scorrette” ad altre di segno opposto, è la sua miscela vincente e se vogliamo furba, anche se stavolta il risultato è meno riuscito rispetto ai suoi precedenti film; Tolo Tolo infatti si rivela un film leggero, godibile ma fa ridere meno del solito.

Zalone diverte a dispetto delle critiche stantie e noiose di alcuni critici abituati ad essere estasiati dal tetro e pesante bastian contrario di Nanni Moretti o al fazioso trasformismo Maurizio Crozza. Zalone invece sparisce per molto tempo, non cura i social, non compare in TV per poi sbucare all’improvviso con un nuovo film che riempie tutte le sale cinematografiche d’Italia battendo il suo stesso record di Quo Vado, dove Zalone compiva un’esperienza nella civilissima e progressista Norvegia.

Dal punto di vista formale Tolo Tolo risulta essere un film più elaborato dei precedenti, ma non altrettanto per quanto riguarda il soggetto e la sceneggiatura (scritta con Paolo Virzì); tuttavia la forza della pellicola risiede nell’abilità del regista di far credere che ad essere preso di mira è sempre qualcuno altro, non lo spettatore che lo guarda, e per questo che Zalone frega e scontenta tutti.

Tolo Tolo, come molti si aspettavano non parla di immigrazione e integrazione, bensì di emigrazione e convivialità, concetti pressocché sconosciuti ad intellettuali ed artisti nostrani. Facendo la spola a velocità massima tra opposto estremismi e centrismi, Zalone prende di petto argomenti attuali e spinosi ricorrendo anche al citazionismo e a riferimenti della storia del cinema non comprensibili o conosciuti da tutti: si va da Esther Williams a Pasolini, da Bertolucci a Spielberg, passando per Mary Poppins.

Trama del film di Zalone

La storia è quella di un imprenditore delle Murge che scappa in Kenya per sfuggire ai tormenti procuratigli dalla ex moglie, Equitalia e creditori vari, dove si improvvisa cameriere in un resort esclusivo, perché secondo lui, che ha rifiutato il reddito di cittadinanza per aprire un sushi restaurant, in Africa “è possibile continuare a sognare”. Lì incontra Oumar, cameriere con il sogno di diventare regista e la passione per quell’Italia conosciuta attraverso il cinema di Pasolini.

All’improvviso in Africa scoppia la guerra e i due sono costretti a emigrare, anche se Checco non punta all’Italia ma ad uno di quei Paesi europei che sono paradisi fiscali. A loro si uniranno la bella Idjaba e il piccolo Doudou (“come il cane di Berlusconi”)

Tolo Tolo è un road movie alla rovescia dove il burattinaio Zalone ne ha per tutti ma non parteggia per nessuno, e dove i politicamente corretti godono a vedere messi alla berlina i pregiudizi d’una volta; e i politicamente scorretti godono a vedere essere presi in giro i nuovi tabù intoccabili in un linguaggio senza veli. Così ognuno ride alle spalle dell’altro.

La sua satira dei pregiudizi degli italiani regge su una semplice ma efficace trovata: fa parlare un ragazzo d’oggi con le parole ingenue di pochi decenni fa, quando quei modi di dire e di pensare erano senso comune e lessico quotidiano, non solo al Sud. Sulla stessa lunghezza d’onda è la sua comicità fondata sui doppi sensi, come si usava nelle comitive di una volta e che oggi appare irriverente. Zalone è un finto ingenuo e triviale che non vuol convincere né fustigare nessuno, né propinare ideologie “corrette”, solo seminare qualche dubbio e strappare risate.

Non a caso in Tolo Tolo gli sfruttati neri sono perseguitati, ma non di rado si trasformano in sfruttatori; i politici italiani sono macchiette viventi, ma i poliziotti locali prendono mazzette più degli evasori nostrani; il Mussolini che è rimasto nelle nostre vene  è grottesco, ma purtroppo è vero anche che i trafficanti estorcono 3000 dollari a testa ad adulti e bambini per la pericolosa traversata; sul molo dove attraccano i barconi si fronteggiano a pari merito di sgradevolezza i tifosi del “cacciateli via” e quelli del “restiamo umani”.

Si può vivere insieme per fronteggiare problemi comuni (guerra, tasse, terrorismo, ex mariti o ex mogli) e abitudini universalmente riconosciute (come la “gnocca”) e non perché qualcuno ci viene a dire che bisogna stare tutti nella stessa casa, per costrizione oppure per contaminazione, ricordando sempre che molto spesso la realtà è una fake news.

 

Il caso Rolling Stone e la banalità del bene, la nota rivista rotola e finisce gambe all’aria

La rivista Rolling Stone ultimamente è balzata agli onori della cronaca per una campagna, con tanto di manifesto, contro l’italica cattiveria, personificatasi sotto le demoniache sembianze di Matteo Salvini.
Nel documento, scritto con toni a metà tra l’apocalittico e il moraleggiante, si vaneggia un richiamo ai valori di civiltà e convivenza, infarciti di richiami all’abbandono di paure ancestrali, già sperimentate nel corso della storia. Ora, tralasciando il fatto che questi signori possano conoscere veramente o meno la storia, fa sorridere come essi si sentano inconfutabilmente dalla “parte giusta della barricata”.

Leggendo il testo in questione, sembra che sia in corso un ritorno alla barbarie e all’età della pietra. Ciò aiuta a comprendere come siano spaesati e furenti tali soggetti, pronti ad accanirsi su un uomo che è in carica da poche settimane, descrivendolo come un criminale della peggior risma.

Dov’erano lor signori, piuttosto, quando l’onorevole – e venerabile – Mario Monti affamava gli italiani in nome dell’austerity imposta da Bruxelles; oppure quando il “Rottamatore” andava in giro per l’Europa a lustrare le scarpe dei suoi pari, riducendo l’Italia ad un magazzino? Lì non si sono sentiti in dovere di alzare la voce per difendere i più deboli, in un paese che colava – e ancora rischia di andarci – a picco?
Attenzione particolare, inoltre, merita l’elenco delle “grandi firme” che hanno sottoscritto il documento. Oltre alla più che scontata presenza di Fabio Fazio(so), per esempio, troviamo gente del calibro di Ernia e di Emma Marrone, personaggi che hanno sempre fornito un contributo imprescindibile alla cultura nostrana, e che rende bene l’idea della autorevolezza dei soggetti scesi in campo per questa battaglia di civiltà.

Come se non bastasse, a rendere ancor più comica l’iniziativa, è stato l’episodio che ha visto protagonista il direttore del tg di La7, Enrico Mentana. Egli, come ha spiegato sui social, era stato contattato dal direttore di Rolling Stone, che gli aveva proposto di diventare firmatario del documento. Ma, nonostante il diniego ricevuto dal re delle maratone tv, è stato inserito comunque nella ambitissima lista dei buoni. Mentana ha così chiarito di non voler prendere parte a prese di posizione solo per ottenere un poco di pubblicità gratuita in più. Da ultimo, magistralmente, ha ricordato a queste teste vuote che Salvini è ministro poiché è stato legittimamente eletto dalla maggioranza del popolo, dando, così, una lezione di saggezza e di democrazia a chi democratico lo è solo quando prevale la sua idea.

Per concludere è spendibile per questi banali “filantropi”, fedeli perlopiù al modello liberal a stelle e strisce, una citazione del filosofo francese Alain De Benoist: “L’immigrazione è un fenomeno padronale. Chi critica il capitalismo approvando l’immigrazione, di cui la classe operaia è la prima vittima, farebbe meglio a tacere. Chi critica l’immigrazione restando muto sul capitalismo, dovrebbe fare altrettanto”. È bene che tengano a mente queste parole in futuro, prima di aprir bocca.

 

Andrea Salerno

Il nuovo patetico monologo di Roberto Saviano

Volto sfatto, distrutto, espressione funerea, sospiri, toni melodrammatici, alla Barbara D’Urso: non manca proprio nulla, la sceneggiatura è pronta e il nuovo video-messaggio di Roberto Saviano può essere registrato e diffuso dai media. Il nuovo nemico diabolico da combattere è il neoministro dell’interno Matteo Salvini, reo di aver messo in dubbio la bontà disinteressata delle Ong che operano nel mar Mediterraneo. Un discorso tutto incentrato sulla difesa delle persone che salvano vite nel cimitero del mar Mediterraneo. E quel fanfarone e maleducato di Salvini, privo di capacità di analisi, comprensione e conoscenza del diritto del mare non può permettersi di usare parole disgustose (ovvero vice-scafisti) e mettere in discussione l’eroismo di queste anime belle.

Saviano invita dunque tutti gli uomini e le donne delle istituzioni alla disobbedienza nei confronti del neoministro scellerato e violento che «vuole far annegare le persone». Che dire? Bravo il nostro Roberto: gran bel discorso, davvero commuovente. Peccato che, come al solito, sia fazioso, incompleto e pieno di parole-donnola, quei termini vuoti e assertivi che nel linguaggio pubblicitario vengono usati per abbindolare il consumatore. Peccato faccia uso di un linguaggio tipicamente televisivo che non lascia spazio al ragionamento e in cui, direbbe Neil Postman, «non c’è nulla da dibattere, nulla da confutare, nulla da negare. Ci sono soltanto delle emozioni da provare». Un linguaggio perfetto per un film, per un racconto, per uno spot pubblicitario, per un monologo teatrale: non di certo per informare. Per informare o, come nel caso specifico, mettere la democrazia in guardia da qualcuno, le asserzioni, i commenti lacrimevoli, le vaghe accuse di dire bugie non bastano. Servono dimostrazioni, prove, argomentazioni. Ma, come scriveva Nietzsche, «Asserire è più sicuro che dimostrare. Un’asserzione fa più effetto di un argomento, almeno per la maggior parte degli uomini: l’argomento infatti suscita sfiducia. Per questo motivo gli oratori popolari cercano di garantire con asserzioni gli argomenti del loro partito».

Questo Saviano lo sa benissimo e sfrutta al meglio le sue doti da oratore “popolare”. Oltre al linguaggio da oracolo, cosa non va nel discorso di Saviano? Non è assolutamente vietato e sbagliato dubitare delle parole e dell’operato degli uomini all’interno delle istituzioni, quindi non è questo il punto: non siamo qui a difendere Matteo Salvini in quanto tale. Il monologo di Saviano è tutto incentrato sulla convinzione che Salvini voglia far morire la gente in mare: asserzione forte, che va a scuotere l’emotività, ma assolutamente priva di fondamento e diffamante, visto che è una libera interpretazione della frase del leader leghista: «Stiamo lavorando e ho le mie idee: quello che è certo è che gli Stati devono tornare a fare gli Stati e nessun vice-scafista deve attraccare nei porti italiani». Saviano si agita e esorta a non credere al fango che ha ricoperto le Ong. Esorta, praticamente, ad ignorare le varie inchieste sui contatti tra trafficanti di uomini e Ong italiane e straniere, a non dubitare che dietro a queste organizzazioni ci sia un giro di soldi (sulla pelle dei migranti), a non dar retta ai canali d’informazione che si discostano dal frame dei media di regime e che non usano come fonti d’informazione solo le agenzie di stampa delle Ong e che non confondono appositamente la Guardia Costiera Libica con la Milizia di Zawiya. Con le sue inferenze, Saviano questo invita a fare. Rimane quindi un solo dubbio da sciogliere: capire se siano peggio i suoi monologhi lacrimevoli o le sue foto con la mano davanti alla bocca.

 

Alessandra Vio

Tony Iwobi e il razzismo degli antirazzisti, ipocriti quanto l’ideologia che sostengono

Un giovane nigeriano proveniente da una famiglia modesta giugne in Italia nel 1976 con un permesso di soggiorno per motivi di studio. È uno dei primi immigrati provenienti dall’Africa nera a giungere nel Bel paese, all’epoca sull’orlo di una guerra civile, dilaniato da attentati, violenze e manifestazioni squadriste da parte dell’estrema destra e dell’estrema sinistra. Testardaggine, volontà di emancipazione e di riscatto sociale e tanta ambizione, questi i moventi che spingono il giovane Tony Chike Iwobi a svolgere qualsiasi lavoro, muratore, stalliere e idraulico, pur avendo in mano una laurea in Scienze informatiche conseguita negli Stati Uniti. Si trasferisce nel profondo settentrione, nella provincia di Bergamo, dove viene assunto dall’Amsa in qualità di operatore ecologico, ma pochi mesi dopo viene promosso agli uffici divenendo impiegato. Cambia tanti lavori, non più umili, ricoprendo mansioni di responsabilità presso aziende italiane e svizzere, continuando allo stesso tempo ad arricchire il suo profilo lavorativo con corsi di specializzazione seguiti in Italia e all’estero.

Nel 1993 si iscrive alla Lega Nord, all’epoca movimento politico a carattere regionale mirante alla secessione delle regioni settentrionali dal resto d’Italia e ad una rivoluzione fiscale basata sul federalismo. Come nel mondo del lavoro, ugualmente Iwobi colpisce e fa carriera anche nella politica, soprattutto quando il partito inizia a perdere i suoi caratteri originari per tentare di diventare una forza nazionale facendo leva sull’euroscettiscismo, sulla minaccia dell’immigrazione incontrollata e sulla difesa dei valori e dell’identità cristiana del Vecchio Continente dal relativismo culturale del liberalismo e dall’estremismo islamico. Il colore della pelle di Iwobi non è mai stato un problema per quello che viene descritto come il principale partito xenofobo del paese, sia in Italia che all’estero, ma anzi viene visto come un elemento di forza: Iwobi raffigura lo straniero che ce l’ha fatta, partendo dal nulla e aiutato solo dalle sue capacità, che si è integrato e ha accolto positivamente valori, costumi e tradizioni del paese in cui ha scelto di vivere, l’immagine perfetta per un partito che viene periodicamente accusato di propagandare idee razziste ed alimentare tensione sociale tra le comunità etniche e religiose presenti nella nazione.

Dal 1993 al 2014 è ininterrottamente consigliere comunale a Spirano, una piccola città del Bergamasco, un decennio nel quale le sue posizioni politiche, specialmente sull’immigrazione, raccolgono l’attenzione dei leader del partito e nel 2014 viene designato responsabile federale del Dipartimento Immigrazione e Sicurezza della Lega Nord su iniziativa di Matteo Salvini. C’è Iwobi dietro alcuni slogan di successo utilizzati dal partito, diventati dei veri e propri tormentoni elettorali, come ‘Aiutamoli a casa loro!‘ e ‘Stop invasione!‘ e al programma riguardante la regolamentazione dell’immigrazione dai paesi extraeuropei, basato sull’applicazione di misure per la selezione e la scrematura delle richieste di permessi umanitari e di soggiorno, sul rimpatrio di tutti quegli immigrati clandestini sbarcati in Italia negli ultimi anni le cui domande d’asilo sono state rifiutate, sulla chiusura dell’accesso ai migranti economici.

L’elezione di Iwobi a senatore della Repubblica italiana – il primo di colore in assoluto – alle recenti elezioni ha scatenato l’ira e l’ironia sui social network, tra i politici e tra il panorama dei vari antirazzisti riciclatisi pseudo-intellettuali dell’ultima ora per deridere la sua candidatura con la Lega Nord. Il clamore suscitato dall’evento ha persino attirato l’attenzione di importanti media globali, come The Guardian, El País, Independent e Times, che ne hanno tratteggiato una breve biografia e raccontato le motivazioni della sua affiliazione ad un partito anti-immigrazione. Addirittura il calciatore Mario Balotelli ha provocatoriamente chiesto, via Instagram, a Iwobi se si fosse accorto d’essere nero; l’ex ministro dell’integrazione Cécile Kyenge ha dichiarato, invece, che l’evento non intacca minimamente la natura razzista della Lega, mentre su Facebook impazzano immagini satiriche che comparano l’accoppiata Iwobi-Salvini alla DiCaprio-Jackson del film Django Unchained.

Un negro di casa come Stephen, lo schiavo domestico della tenuta di Calvin Candie, così la superiore satira liberal ai tempi di Facebook ha dipinto Iwobi, ossia un fratello che – ripercorrendo il pensiero di Malcolm X – si è svenduto ai bianchi, di cui appoggia lotte e rivendicazioni nella convinzione che ciò lo aiuterà ad essere accettato nella società bianca. È proprio in questi momenti che emerge il vero volto delle nuove sinistre occidentali, affiorate nel dopo-guerra fredda come le più importanti manifestazioni politiche della nuova élite borghese globalista; sinistre che hanno vergognosamente abbandonato ogni riferimento al proletariato e alla difesa della classe operaia.

Da anni la propaganda di una certa sinistra martella l’opinione pubblica sulla necessità di una politica fortemente immigrazionista, tuonando slogan come ‘Faranno i lavori che gli italiani non vogliono più fare!‘ o ‘Ci pagheranno le pensioni!‘. Flussi migratori costanti e continui nel tempo come un rimedio alla denatalità e alla carenza di manodopera dequalificata a basso costo, anziché politiche incentrate sull’aiuto alle famiglie e su una reale alternanza scuola-lavoro, questo propone la sinistra, accusando poi di razzismo chiunque ritenga che l’afflusso di milioni di persone provenienti da contesti culturali profondamente differenti – senza un’adeguato meccanismo di integrazione nella società e nel mondo del lavoro, possa alimentare tensioni sociali, il mercato del lavoro nero e la criminalità.

L’assenza di un modello d’integrazione o, meglio, l’assenza di una reale volontà di integrare gli immigrati, ha portato alla proliferazione di ghetti etnici, di no-go zones, all’esplosione della microcriminalità e a sempre più frequenti rivolte razziali. Scenari di disordine ed anarchia che da decenni irrompono nella quotidianità di Francia, Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania e Svezia, mai apparsi in Italia, ma a cui il paese dovrebbe iniziare ad abituarsi a meno di un cambio di rotta nel modo di pensare l’integrazione e la convivenza tra etnie e culture. La risposta dei partiti e dei centri sociali di sinistra all’omicidio di Pamela Mastropietro ad opera di un gruppo di nigeriani legati al sottobosco malavitoso di Macerata è stata un corteo antifascista ed antirazzista nel quale i manifestanti hanno lanciato invettive contro i partiti di destra, l’intolleranza e le forze dell’ordine. Un episodio che dovrebbe far riflettere sulla totale alienazione della sinistra dalla realtà e che spiega l’emorragia di voti dal Partito Democratico a partiti anti-sistema come Lega Nord e Movimento 5 Stelle. Iwobi è solo uno dei tanti nuovi italiani che ha preso atto dell’insensatezza delle politiche open borders e refugees welcome sostenute dalle nuove sinistre occidentali, che hanno soltanto esacerbato un clima già teso a causa della decennale crisi economica e delle tensioni inter-etniche causate dal fallimento dei progetti multiculturalisti in salsa anglosassone e scandinava.

Confindustria, Tito Boeri, Emma Bonino, Laura Boldrini, Paolo Gentiloni, Alessandro Cecchi Paone, Roberto Saviano, tanti coloro che hanno pubblicamente dichiarato di vedere l’immigrazione come una soluzione ai problemi demografici e lavorativi del paese. Nell’immaginario della sinistra l’immigrato ideale dovrebbe costruire famiglie numerose per ripopolare l’Italia (in pratica una sostituzione etnica, ma guai a dirlo) e fare lavori umili, precari e sottopagati come raccogliere pomodori nelle piantagioni del Sud Italia – citando la Bonino, e ovviamente essere ideologicamente allineato a sinistra.

Alla luce di queste cose è facile comprendere perché contro Iwobi sia stata lanciata una campagna denigratoria, oltre che razzista: lo straniero che si integra e non si accontenta dei lavori che gli italiani non vogliono più fare, ma che attraverso le sue capacità si eleva socialmente e vede nell’accoglienza indiscriminata un male per tutti quegli stranieri onesti che a fatica hanno ottenuto dei meriti, è scomodo, non è stato manipolato dal miraggio dell’antirazzismo, quindi è un suffragio perduto.

No, Iwobi non è un negro di casa, e neanche di cortile, è molto più italiano e fiero di esserlo di tutti quelli che si stanno divertendo a denigrarlo, a ritenerlo un burattino dell’uomo bianco ed un venduto, e il suo ‘Aiutamoli a casa loro!‘ non è un’offesa, ma quello che l’Occidente dovrebbe finalmente iniziare a fare dopo anni di politiche neo colonialiste ed imperialistiche nel Sud globale che hanno portato al saccheggio di risorse naturali, al sostegno verso sanguinose dittature militari e a guerre per procura volte all’accaparramento di metalli rari e preziosi che sono alla base dell’odierna crisi migratoria.

 

L’intellettuale dissidente

Affinità elettive

Forse non tutti ricorderanno che…
Nella giornata delle dimostrazioni antifasciste organizzate dal Pd nella città di Como, ci preme riportare alla memoria quale sia stato l’unico uomo politico italiano ad aver esaudito in anticipo i desideri più o meno confessi degli attuali movimenti anti-immigrazionisti di stampo neofascista e leghista: Romano Prodi, il cui governo, vent’anni fa, dispose un blocco navale volto a respingere i frequenti sbarchi, allora provenienti dalle coste albanesi. Fu così che una corvetta della Marina Militare Italiana speronò e affondò un barcone di disperati che fuggivano dalla guerra civile imperversante nei luoghi d’origine. Risultato? 81 morti e 27 dispersi.

“Divorzio all’islamica”, di Amara Lakhous

Divorzio all’islamica a viale Marconi (E/O, 2010) è il secondo romanzo in italiano dello scrittore, antropologo e giornalista algerino Amara Lakhous. Il primo è stato pubblicato, sempre da E/O, nel 2006, ed è il famosissimo Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio. Proprio come la sua prima opera in italiano, anche questo testo si concentra su tematiche fondamentali della nostra Italia multiculturale, quali l’integrazione, i pregiudizi razziali e religiosi, le difficoltà degli immigrati. E lo fa, ancora una volta, mescolando i punti di vista, alternando le narrazioni fra personaggi italiani e stranieri, smascherando molti dei pregiudizi (e questo è il punto di forza dell’autore Lakhous) che anche gli stranieri nutrono verso gli italiani.

Divorzio all’islamica vs divorzio all’italiana

La narrazione di Divorzio all’islamica è divisa fra due punti di vista (a differenza di Scontro di civiltà, in cui ogni capitolo era dedicato a un personaggio diverso, ma tutti riguardavano comunque l’affare dell’ascensore e l’omicidio del Gladiatore), quello di Christian/Issa e quello di Safia/Sofia.

Christian è un poliziotto siciliano che viene reclutato dai servizi segreti italiani per smascherare una cellula terroristica legata ad Al-Qaeda e che opererebbe, secondo le informazioni, attorno a Little Cairo, una delle tante attività gestite da immigrati per immigrati in cui è possibile telefonare all’estero, fare fotocopie e seguire programmi locali come Al-Jazeera. Christian dunque deve fingersi Issa, un immigrato tunisino, e infiltrarsi nella comunità islamica di viale Marconi. Questo almeno ufficialmente: nella realtà si scopre che il capitano Giuda (nome in codice del comandante dell’operazione) ha messo in scena una grande farsa per “testare” le abilità d’infiltrazione di Christian e di altri agenti, così da poter creare una vera e propria task force per future operazioni.

L’altra scena è dedicata alla situazione familiare/esistenziale di Safia (che tutti chiamano Sofia), un’immigrata egiziana che ha sposato, suo malgrado, un uomo molto osservante della religione musulmana (sebbene poi quest’uomo si faccia chiamare Felice e lavori come pizzaiolo in un ristorante gestito da italiani). Il divorzio all’islamica è proprio quello fra Sofia e Felice. La donna, ripudiata già due volte per motivi futili, viene verso la fine del libro ripudiata una terza volta durante una discussione altrettanto futile: Sofia, di nascosto dal marito, persegue infatti il suo sogno di lavorare come parrucchiera ma, quando il marito scopre i soldi che lei conserva per dare una mano alla famiglia rimasta in Egitto, la ripudia. Secondo le leggi islamiche, dopo il terzo ripudio il divorzio è ufficiale. Per far sì che la coppia si ricongiunga, la donna deve sposare un altro uomo musulmano e consumare il matrimonio; solo a quel punto potrà tornare dal marito.

Le due storie si intrecciano quando Issa, nel suo tentativo d’infiltrazione, entra separatamente in contatto con Felice, col quale stringe una sorta di amicizia, e con Sofia, della quale si innamora. E dopo il divorzio è proprio Felice a proporre Sofia in sposa a Issa, generando problematiche relative alla situazione familiare di Christian/Issa (che ha moglie e figli a Mazara del Vallo).

E poi? Ecco, qui la narrazione finisce, e questo è proprio il momento adatto per trattare il punto debole (debolissimo) di questo romanzo: sembra che manchi il finale, o meglio sembra che ci sia un buco nella trama relativo al finale. L’ultimo capitolo, dedicato a Issa, vede infatti l’emersione della farsa relativa all’indagine. Il libro si conclude in questo modo:

«Giuda, mi pare di avertelo già detto: sei un vero bastardo!».
«Lo so. Per questo mi faccio chiamare Giuda e non Issa come te! Insomma, che mi dici? Vuoi lavorare con me?».
«Ci devo pensare».
«Dicono tutti così prima di accettare! Però devi far presto, tunisino. Siamo in piena guerra al terrore».
«War on Terror? Ma non diciamo minchiate!».

“E allora? Allora niente” (citando la frase ricorrente di Sofia). Il testo non ci dice niente di più sulla vita di Sofia e Felice (si riconcilieranno, o lei tornerà donna libera in una comunità italiana?); non ci dice niente su come si comporterà in futuro Christian/Issa (che, per questo lavoro, ha tradito la moglie e commesso più di un reato); non ci dice niente sugli altri personaggi, che più che personaggi veri e propri sembrano caricature stereotipate (ma questo, almeno, rientra forse nelle intenzioni dell’autore).

Se quello che sembra un enorme buco di trama (o una grande fretta di concludere la narrazione, nonostante i cinque anni di progettazione del libro, come si legge dopo l’ultima battuta: 2006-2010) è un elemento decisamente negativo del romanzo (e non si riesce a pensare a qualche altro elemento metanarrativo, come ad esempio il voler mostrare l’incertezza del periodo storico, o il voler lasciare il finale aperto), tanti sono quelli positivi. Come già in Scontro di civiltà (e il paragone è inevitabile), Lakhous snocciola, fra una narrazione e l’altra, descrizioni interessanti di due tipi: 1) sociale; 2) culturale.

Il primo riguarda lo spaccato sociale che investe gli immigrati italiani. Lakhous ci porta nei luoghi della mancata integrazione, come la pizzeria dove i camerieri sono italiani ma i pizzaioli e i lavapiatti sono immigrati (così che i clienti non possano entrare in contatto con i secondi); ci porta nei luoghi dello sfruttamento dell’immigrato, come la casa dove vivono, in nero, una decina di persone in condizioni igieniche pessime (e qui l’autore fa il paragone azzeccatissimo con gli studenti universitari); ci porta nei capannoni industriali riciclati a moschee, fra le strade di una Roma che ancora non accetta il diverso. E lo fa con estremo disincanto, come se il sogno di una società multietnica fosse svanito prima di realizzarsi.

Il secondo tipo di narrazione viene messa in bocca a Sofia, la quale racconta, da immigrata, le differenze religiose e culturali fra il mondo musulmano e quello cristiano, fra il Medio Oriente e l’Occidente più vicino. E Sofia racconta delle tradizioni e delle contraddizioni di un Islam spesso male interpretato e che, perciò, crea attriti e frizioni con un cristianesimo a sua volta molto “personalizzato”. Racconta degli episodi di razzismo e xenofobia in cui s’imbattono molti immigrati quotidianamente, racconta dei dubbi che l’apertura alla modernità necessariamente porta (perché la poligamia è solo maschile? Perché le donne devono portare il velo? Perché la circoncisione maschile è accompagnata da festeggiamenti mentre quella femminile è turpe e vergognosa?). Sofia, reietta nella società musulmana, trova in quella occidentale (più tollerante, almeno in superficie, nei confronti delle donne) una sorta di via di fuga.

Ed è nelle parole di Sofia che si trova il compimento di questo (pur dimidiato) bel testo:

In Italia non c’è futuro! Queste parole mi preoccupano molto. Penso automaticamente a mia figlia Aida, al suo futuro. Gli italiani lasciano l’Italia per cercare fortuna altrove! Ma noi immigrati veniamo qui per lo stesso identico motivo! E allora? Allora niente. C’è qualcosa che non funziona. Un paese per turisti, non per lavoratori. Giulia ha detto: L’Italia è come Montecarlo!. Mi incuriosisce molto questo paragone. A Montecarlo ci sono i casinò, dove si gioca d’azzardo. Mi viene spontaneo chiedere: l’immigrazione non è in fin dei conti una forma di gioco d’azzardo? Vincere tutto o perdere tutto?

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