Al via la mostra ‘Impressionismo tedesco. Liebermann, Slevogt, Corinth dal Landesmuseum di Hannover’ da domani ad Aosta

Parte domani la mostra Impressionismo tedesco. Liebermann, Slevogt, Corinth dal Landesmuseum di Hannover. L’esposizione aperta al pubblico ad Aosta sarà visibile fino al 25 Ottobre, presso il Museo Archeologico Regionale di Piazza Roncas.

Il progetto espositivo inedito viene proposto per la prima volta in Italia ed è il frutto della collaborazione istituzionale tra la Struttura Attività espositive e promozione identità culturale della Soprintendenza per i beni e le attività culturali della Valle d’Aosta e il Landesmuseum di Hannover (Germania), che vanta una delle collezioni di Arte tedesca dell’Ottocento e del Novecento tra le più celebri al mondo.

La mostra, curata da Thomas Andratschke, responsabile della sezione “Nuovi maestri” del Landesmuseum di Hannover, e da Daria Jorioz, storica dell’arte e dirigente della Regione autonoma Valle d’Aosta, si pone l’obiettivo di raccontare la storia dell’evoluzione dell’Impressionismo tedesco attraverso una prestigiosa selezione di dipinti, opere grafiche e sculture, provenienti dal Landesmuseum di Hannover e per la maggior parte mai esposti al di fuori della Germania.

Leonhard SANDROCK, Piroscafo nel cantiere navale, 1911, olio su tela (© Landesmuseum Hannover)

L’esposizione dei capolavori di Liebermann, Slevogt e Corinth rappresenta un’occasione unica di indagine, studio e valorizzazione di importanti artisti, poco noti al pubblico italiano ma di grande interesse, tenuto conto del fatto che gli Impressionisti tedeschi hanno spesso ritratto la natura e i paesaggi italiani. Partendo dal rapporto con l’Impressionismo francese, la mostra si sviluppa in ordine cronologico su tre aree tematiche: la prima sezione accoglie i pionieri della pittura paesaggistica tedesca fino al 1890, la seconda propone i capolavori dei tre più celebri Impressionisti tedeschi, Max Liebermann, Max Slevogt e Lovis Corinth, mentre la terza sezione presenta i loro successori, gli altri esponentidell’Impressionismo tedesco attivi fino al 1930.

L’impressioniamo: il movimento artistico e le nuove tecniche pittoriche

L’Impressionismo è la prima corrente artistica internazionale nella storia dell’arte europea, sorta in Francia intorno al 1870, che ebbe alla fine del secolo una grande diffusione negli altri paesi europei, in particolare in Germania, Belgio, Inghilterra e influenze significative anche sull’arte italiana. Con colori lucenti e passaggi di pennello leggeri e frammentati, l’impressionismo francese si oppone al cupo formalismo della pittura accademia ottocentesca.

La pittura impressionista tende al vero e si allontana dalla riproduzione di personaggi e scene storiche. Gli impressionisti percepiscono la realtà come qualcosa di mutevole. È proprio questo aspetto ad incuriosirli maggiormente. L’immagine che si presenta all’occhio impressionista, è determinata dalla forma dell’oggetto che stiamo osservando ma soprattutto dalla luce che lo colpisce. Le condizioni di luce, però, a secondo della giornata, stagione o condizione meteorologica, variano  così come l’impressione visiva.

Nasce dunque l’esigenza di una nuova tecnica pittorica rapida ed immediata per fissare sulla tela quell’immagine che rischia di dissolversi nel tempo. Niente più bozzetti su carta, disegni preparatori sulla tela e contorni precisi delle cose. A farla fa padrone è il colore non mescolato, steso direttamente sulla tela con rapidi tocchi, con pennellate veloci e apparentemente poco precise.Il pittore dell’Impressionismo si mette personalmente di fronte al soggetto che vuole rappresentare.  Già a partire dal 1820 molti artisti abbandonano il chiuso dei loro atelier per dipingere la realtà en plein air, a stretto contatto con la natura.

Le sezioni della mostra

In Germania le origini del movimento impressionista sono individuabili nella pittura realistica di paesaggio, la “realistische Freilichtmalerei”, che contrasta il gusto conservatore dominante all’interno del regno tedesco dell’imperatore Guglielmo di Prussia (“Kaiser Wilhelm”).

La prima sezione della mostra  analizza proprio la tradizione realistica della pittura di paesaggio in Germania tra il 1828 e il 1890, presentando opere dei pionieri dell’Impressionismo tedesco, quali Carl Blechen, Franz Lenbach e Hans Thoma.

Dal 1901 nell’ambito della Secessione di Berlino, Liebermann, Slevogt, Corinth sfidano la corrente accademica dominante. Nella veste di “pittori incisori”, Liebermann, Slevogt, Corinth, seguendo l’esempio dei francesi “Peintre-Graveurs”, diventano i maggiori rappresentanti dell’Impressionismo in Germania. Questo passaggio epocale viene presentato in mostra nella seconda sezione grazie ad una pregiata selezione di opere dei tre famosi artisti e degli altri paesaggisti tedeschi che aderiscono convintamente all’Impressionismo fino al suo definitivo declino con la fine della Repubblica di Weimar e la nascita del movimento artistico della “Nuova Oggettività” (“Neue Sachlichkeit”).

Max SLEVOGT, Il pittore a Capri, 1889, olio su cartone (© Landesmuseum Hannover)

Alla fine del XIX secolo artisti specializzati nella pittura di paesaggio di tutta Europa si trasferiscono in campagna e fuori dai centri urbani. Nello stabilirsi in luoghi ritenuti “pittoreschi”  creano vere e proprie colonie di artisti, che fino allo scoppio della prima Guerra Mondiale sono presenti in tutta l’area della Mitteleuropa. Tra le più famose ci sono la colonia francese di Barbizon, quella di Skagen in Danimarca e di Worpswede nella Bassa Sassonia.

Tra i fondatori della colonia tedesca di Worpswede, compaiono i nomi di Otto Modersohn e Hans am Ende. Accanto a questi pittori, nella terza sezione della mostra vengono presentate le opere di altri artisti significativi, tra cui l’Impressionista bavarese Max Feldbauer, Henrich von Zügel di Monaco di Baviera, Philipp Klein di Mannheim e lo scultore August Gaul.

Philipp KLEIN, Sulla spiaggia di Viareggio, 1906, olio su tela (© Landesmuseum Hannover)

La mostra di Aosta Impressionismo tedesco è corredata da un catalogo bilingue italiano-francese, riccamente illustrato, contenente i testi critici di Thomas Andratschke e Daria Jorioz, edito da Silvana Editoriale.

 

Per info e costi:

-Regione autonoma Valle d’Aosta. Assessorato del Turismo, Sport, Commercio, Agricoltura e Beni   culturaliSoprintendenza per i beni e le attività culturali.Struttura Attività espositive.  Tel. 0165.275937; u-mostre@regione.vda.it

-Museo Archeologico Regionale: tel. 0165.275902; http://www.regione.vda.it

Biglietti: Intero 6 euro, ridotto 4 euro. Ingresso gratuito per i minori di 18 anni.

Tessera Abbonamento Musei Piemonte / Valle d’Aosta. Abbonamento con la mostra Memorie di terra al Centro Saint-Bénin di Aosta dal 7 agosto al 29 novembre 2020: 10 euro intero, 6 euro ridotto

Orario di apertura: tutti i giorni, dalle 9.00 alle 19.00.

 

 

‘Capolavori della Johannesburg Art Gallery Dagli Impressionisti a Picasso’ in mostra al Forte di Bard

Capolavori della Johannesburg Art Gallery. Dagli Impressionisti a Picasso, a cura di Simona Bartolena, è la mostra che il Forte di Bard ospiterà dal 14 febbraio al 2 giugno 2020. In esposizione, una selezione di 64 opere dallo straordinario valore artistico, provenienti dalla Johannesburg Art Gallery, il principale museo d’arte del continente africano.

La collezione nel suo insieme conta oltre cento opere tra olii, acquerelli e grafiche, che portano la firma di alcuni dei grandi maestri della scena artistica internazionale tra Ottocento e Novecento, da Degas a Dante Gabriel Rossetti, da Corot a Boudin e Courbet, da Monet a Van Gogh, da Mancini a Signac, da Picasso a Bacon, Liechtenstein e Warhol, fino ai più recenti protagonisti del panorama artistico sudafricano, primo fra tutti William Kentridge. Una serie inaspettata di capolavori che permettono di percorrere un vero e proprio viaggio nella storia dell’arte del XIX e XX secolo, spaziando dall’Europa agli Stati Uniti, fino al Sudafrica.

L’esposizione al Forte di Bard inizia con un’opera di Antonio Mancini, un ritratto a Lady Florence Phillips, fondatrice della Johannesburg Art Gallery e prosegue con le opere dell’Ottocento inglese tra cui i lavori del grande protagonista del romanticismo britannico Joseph Mallord William Turner, dei Preraffaelliti Dante Gabriel Rossetti e John Everett Millais e di Sir Lawrence Alma-Tadema.

Un nucleo di opere francesi della seconda metà dell’Ottocento sono le protagoniste della sala successiva: in esposizione la veduta delle falesie normanne di Étretat di Gustave Courbet, un piccolo gioiello che ben rappresenta la fase più vicina ai barbizonniers di Camille Corot e opere di François Millet e Henri-Joseph Harpignie.

Il percorso continua con la straordinaria novità del linguaggio impressionista delle opere di Monet, Sisley, Degas e Guillaumin e con alcuni protagonisti della scena postimpressionista, artisti che seppero prendere le distanze dalla lezione di Monet e compagni, suggerendo nuove ipotesi espressive e nuove strade alle generazioni successive. Notevole spazio ha in mostra il pointillisme, lo stile nato dalla radicalizzazione delle teorie impressioniste, grazie alla presenza di due capolavori di Paul Signac (un acquerello e lo splendido La Rochelle), un paesaggio di Lucien Pissarro, figlio dell’impressionista Camille, in bilico tra nuove ricerche e memorie della pittura paterna, e un importante lavoro di Henri Le Sidaner.

Segnano, invece, il passaggio al XX secolo i disegni di due grandi scultori: Auguste Rodin e Aristide Maillol. L’arrivo nelle collezioni della Johannesburg Art Gallery di opere datate al Novecento è piuttosto tardivo grazie ad acquisizioni e donazioni successive. In mostra, al rigore del ritorno a una figurazione dagli accenti tradizionali di André Derain fanno da contrappunto l’approccio già avanguardista di Ossip Zadkine, in bilico tra sintesi cubista e recupero di una rinnovata solidità classica, e l’inconfondibile eleganza del segno di Amedeo Modigliani. Quattro grafiche e una significativa Testa di Arlecchino a matita e pastello raccontano la ricerca di Pablo Picasso.

Il percorso nelle avanguardie prosegue con la ricerca sensuale e luminosa di Henri Matisse, presente in mostra con tre notevoli litografie.
La collezione storica dedicata al secondo Novecento è frutto di acquisizioni e donazioni recenti e comprende, oltre che lavori di artisti locali, anche opere di europei e statunitensi. La mostra ne ospita quattro significativi esempi: un tormentato ritratto maschile di Francis Bacon, un intenso carboncino di Henry Moore, e due capolavori pop di Roy Lichtenstein e Andy Warhol.

L’ultima sezione della mostra è dedicata all’arte africana contemporanea che ricopre un ruolo importante nel percorso espositivo: una vera scoperta, un’occasione per incontrare una realtà pittorica ben poco nota al pubblico europeo.

La collezione della Johannesburg Art Gallery 

Aperta al pubblico nel 1910, la Johannesburg Art Gallery è il principale museo d’arte del continente africano e ospita una collezione di altissima qualità.

Principale protagonista della nascita e della formazione della collezione fu Lady Florence Philips. Nata a Cape Town nel 1863, si trasferisce a Johannesburg dopo il matrimonio con Sir Lionel Philips, magnate dell’industria mineraria. La galleria, finanziata da investimenti del marito e di alcuni altri magnati, nasce con l’obiettivo di dotare la sua città di un museo d’arte, convinta di voler trasformare quello che all’epoca era un centro minerario in una città improntata al modello delle capitali europee. La nascita di una galleria d’arte pubblica sarebbe stata inoltre un’opportunità di crescita culturale per tutta la popolazione oltre che fattore di prestigio per l’alta società locale.

Altra personalità che ebbe una parte rilevante nella fondazione del museo fu Sir Hugh Percy Lane, esperto d’arte e mercante anglo-irlandese. Già curatore per la Municipal Gallery of Modern Art di Dublino, fra i primissimi estimatori e collezionisti dell’Impressionismo francese, aiutò Lady Philips nell’impresa, consigliando possibili acquisizioni.

Fino dalla sua apertura, il museo presenta una selezione di opere di straordinaria qualità e modernità, un nucleo arricchitosi negli anni, grazie a nuove acquisizioni, lasciti e donazioni.

 

Impressionismo e Avanguardie. Capolavori dal Philadelphia Museum of Art a Palazzo Reale di Milano fino al 2 settembre

Quasi fosse l’apertura di un nuovo museo di arte moderna, per l’eccezionale periodo di 180 giorni, il Philadelphia Museum of art si trasferisce fino al 2 settembre a Milano nella magnifica cornice di Palazzo Reale con una selezione di 50 capolavori, un’occasione unica per ammirare opere dei più grandi pittori a cavallo tra Otto e Novecento nel loro periodo di massima espressione artistica in un allestimento studiato per valorizzare ogni singola opera. L’esposizione è promossa e prodotta da Comune di Milano-Cultura, Palazzo Reale e MondoMostreSkira.

Opere di artisti celeberrimi come Pierre Bonnard, Paul Cézanne, Edgar Degas, Edouard Manet, Paul Gauguin, Claude Monet, Vincent van Gogh, Camille Pissarro, Pierre-Auguste Renoir fino alle sperimentazioni di Georges Braque, Vasily Kandinsky, Paul Klee, Henri Matisse, Marc Chagall, Constantin Brancusi, Pablo Picasso, passando per il surrealismo di Salvador Dalí e Joan Mirò. A questi si aggiungono i lavori di tre grandi artiste: Mary Cassatt, Marie Laurencin, Berthe Morisot.

La mostra è curata da Jennifer Thompson e Matthew Affron, curatori del museo americano con la consulenza scientifica di Stefano Zuffi.

Il Philadelphia Museum of Art

Fondata nel 1681, Filadelfia si considerava sempre la prima e la più bella delle città degli Stati Uniti e nell’Ottocento era la più grande città nordamericana, i suoi commercianti facevano fortuna nel commercio, nelle navi a vapore, nelle ferrovie, nelle banche ed abbellirono la città, gareggiando per renderla la capitale culturale dell’America. La prima Fiera mondiale ufficiale negli Stati Uniti fu tenuta proprio a Filadelfia nel 1876 e fu visitata da più di 10 milioni di persone (il 20% della nazione), contribuendo a stimolare i ricchi americani a viaggiare in Europa, dove l’arte era al top nella loro lista della spesa. Ne è nato il Philadelphia Museum of Art, che ha aperto l’anno successivo, e possiede oggi una collezione di oltre 240.000 opere, rappresentative di oltre duemila anni di produzione artistica. Lo sviluppo del museo si deve a Fiske Kimball, direttore per trent’anni dal 1925, che dotò il museo di arredi originali di vari paesi e epoche, convinto di voler offrire ai visitatori un’esperienza vivida della storia di ogni forma d’arte. Un susseguirsi pressoché continuo di donazioni da parte di imprenditori illuminati e appassionati collezionisti ha arricchito negli anni il museo che ora possiede opere d’arte di ogni epoca e tipologia: dalle terrecotte e sculture giapponesi e cinesi a miniature, xilografie e sculture asiatiche, dai dipinti antichi, disegni e stampe italiani a una collezione di armi e armature, da oggetti di argento e porcellana a opere d’arte e design contemporanei, compresa una collezione di fotografia che consta di trentamila stampe in bianco e nero e a colori.

Le collezioni d’arte moderna e impressionista – ci raccontano Jennifer Thompson e Matthew Affron, conservatori del museo e curatori della mostra – sono uno dei fiori all’occhiello del Philadelphia Museum of Art. La loro peculiarità è che sono il risultato di donazioni, non solo di singole opere, ma di intere eccezionali raccolte caratterizzate dalla forte personalità dei collezionisti. Gli americani, ma in particolare gli abitanti di Philadelphia, sono stati tra i primi collezionisti dell’impressionismo, in gran parte grazie all’artista Mary Cassatt che ha a lungo abitato a Parigi e fatto da tramite tra i propri concittadini e i mercanti e gli artisti francesi. L’atmosfera intima e affascinante dei dipinti impressionisti era ideale per decorare le grandi residenze di questi imprenditori, che hanno poi donato le proprie opere al museo. Alexander Cassatt, fratello della pittrice e capo della Pennsylvania Railroad per primo acquistò opere di Manet, Monet, Degas e Pissarro, contagiando altri dirigenti che fecero a gara nell’acquisto di opere d’arte francesi. Frank Graham Thomson, successore di Cassatt, cercò di conoscere Monet, mentre la Cassatt lo portò nella galleria parigina di Paul Durand-Ruel, il più importante mercante d’arte impressionista dell’epoca. Thomson acquistò nel tempo dodici dipinti di Monet e altre opere impressioniste.
I primi dipinti impressionisti – proseguono nel racconto i due curatori americani – entrarono nella collezione del Philadelphia Museum of Art nel 1921, quando il W.P. Wilstach Fund consentì di acquistare dieci opere dagli eredi di Alexander Cassatt. Tra gli altri collezionisti che contribuirono a fare del museo una meta imperdibile per gli appassionati d’impressionismo negli Stati Uniti figura anche Samuel Stockton White III.

Édouard Manet in mostra a Milano dal 3 marzo al 25 giugno

Dal 3 marzo al 25 giugno 2017, Palazzo Reale di Milano ospiterà una grande mostra dedicata a Édouard Manet (Parigi, 1832- ivi, 1883), il più grande pittore francese nella storia dell’arte, considerato il precursore dell’impressionismo. Oltre cinquanta importanti capolavori trasporteranno i visitatori nella Parigi della metà dell’Ottocento, nella quale il maestro ha rivoluzionato completamente il modo di fare arte non solo per i soggetti “sconvenienti” ma per le innovazioni stilistiche, ponendo con la sua pittura a creare più di tutti una cesura con la tradizione artistica precedente aprendone le porte alla modernità.

L’evento, prodotto da Skira in collaborazione con il Musée d’Orsay, che avrebbe dovuto tenersi in autunno a Torino, si svolgerà dunque al Palazzo Reale di Milano. L’intento dell’esposizione è raccontare la trasformazione della Parigi fin de siècle attraverso le opere del grande pittore che si interessò di rappresentare gli eventi a lui attuali e i lati gradevoli e positivi della moderna vita parigina in quel tempo, gli anni definiti “bella époque”, caratterizzati dall’ascesa di quella borghesia moderata e conservatrice con il suo benessere economico e la vita spensierata da sfarzo che vide l’aggiunta di teatri, musei, ristoranti, casinò e soprattutto cafè, con la creazione di grandi viali e piazze, grazie all’intervento di Eugène Haussman, prefetto e urbanista francese, che realizzò lo sventramento del centro medievale della città, trasformando Parigi da città antica a metropoli moderna.

La mostra dal titolo al momento provvisorio Manet, la Parigi moderna comprende, accanto alle tele dell’autore, i capolavori di Cézanne, Renoir e Degas, protagonisti della vicenda dell’impressionismo la quale attraversa la storia dell’arte in una parabola che durò circa venti anni (1860-1880); in un allestimento grandioso, così come hanno preannunciato le curatrici Caroline Mathieu e Isolde Pludermacher.

Manet e la sua sfida all’arte accademica

Autore di opere provocatorie, avverso nei confronti dell’accademismo e acuto osservatore del vero, Manet si distinse nell’ambiente artistico parigino che vide il formarsi di un folto gruppo di giovani pittori antiaccademici: Societè anonyme des artistes, peintres, sculpteurs, graveurs, chiamati impressionisti, come Monet e Renoir, che si riunivano al Cafè Guebois esprimendo le loro idee su tutta la pittura dei secoli precedenti. Édouard Manet fu dunque l’anticipatore e il maestro della pittura impressionista, la quale si differenziava dalle altre per il modo di guardare la realtà esterna.

Figlio di un giudice, nacque a Parigi nel 1832. A diciassette anni, il padre lo avviò alla carriera di ufficiale di marina, attività nella quale egli dimostrò la sua inadempienza. La sua passione era la pittura la quale riuscì a seguirla dopo aver ottenuto il consenso paterno. Fu così che il giovane Manet iniziò la sua formazione. I primi anni furono i più difficili avvennero presso lo studio del celebre ritrattista francese Thomas Couture, dove Manet stette sei anni, nonostante il suo spirito ribelle nei confronti delle regole accademiche e del maestro con il quale si racconta dei loro scontri verbali.

Sulla scia dei pittori realisti dell’epoca, egli preferì rappresentare la realtà com’era e non nella forma astratta e idealizzata come imponeva l’Académie des beaux-arts. L’artista amava rappresentare ciò che l’occhio vede al di là del campo visivo, abolendo i canoni della pittura: come la prospettiva, la rappresentazione per volumi, il chiaroscuro. Egli creava figure bidimensionali racchiuse in contorni, rimeditando, da una parte, le stampe giapponesi, e, dall’altra lo studio del linguaggio tonale dai pittori veneziani del Cinquecento ai fiamminghi del Seicento, alla pittura degli spagnoli Velazquèz e Goya, per l’uso dei colori puri che fissa sulla tela.

Non è eccessivo attribuire l’invenzione dell’impressionismo all’esaltazione della pittura veneziana cinquecentesca. Giorgione, Tiziano, e le opere degli Spagnoli, infatti, influenzarono la definizione del suo stile quando egli passava la maggior parte del tempo al Louvre copiando e ammirando le opere durante i suoi numerosi viaggi in Europa, visitando Firenze, l’Austria, la Germania, il Belgio, l’Olanda, l’Italia.

Un’ulteriore tassello alla definizione della sua pittura fu dato dall’incontro dell’artista con Claude Monet, cambiando idea sulla modalità di lavoro abbandonando l’atelier e cominciando invece a dipingere il quadro en plein air, lasciando che il suo pennello seguisse la spontaneità, secondo una delle caratteristiche principali della nuova pittura.

Differenze tra Monet e Manet

Ma tra Monet e Manet esiste una sostanziale differenza: guardano in modo diverso la realtà. Se il primo è tutto concentrato sulle percezioni ottiche date dalla luce, importante per la percezione dei vari colori nella rappresentazione della realtà sensibile continuamente mutevole, cercando di fissare esclusivamente le proprie sensazioni nell’osservazione della natura, cogliendone l’attimo fuggente, cioè le sensazioni di un istante perché nell’istante successivo potrà generare sensazioni diverse, il secondo dimostra di ritrarre scene di ambientazione quotidiana sollevando scandalo e polemiche negli ambienti accademici, sia per i soggetti trattati sia per le tecniche impiegate, aprendo la strada della libertà espressiva.

Fu specialmente per Colazione sull’erba che, nel 1863, al “Salon ufficiale”, prestigioso appuntamento d’arte parigino, che scoppiarono le proteste, tanto che l’opera comparve solo al “Salon dei rifiutati”, un fatto mai avvenuto prima, aperto per l’esposizione delle opere rifiutate, sebbene il soggetto della gita all’aperto o del concerto campestre, era stato dipinto molte volte in passato da artisti come Giorgione e Tiziano, i riferimenti formali della sua pittura.

Tiziano, Concerto campestre, 1510-12, Louvre, Parigi
Manet, Colazione sull’erba, 1863, Musée d’Orsay, Parigi

L’opera in questione ritrae una scena all’aperto con due personaggi in abiti borghesi, una figura femminile sullo sfondo e una donna nuda in primo piano. Gli accademici e il pubblico dell’epoca considerarono l’opera “volgare” non tanto per la presenza del nudo, ma per il fatto che quel nudo rappresentava una ragazza del tempo, non l’immagine di una figura idealizzata, come una dea o un personaggio mitologico, secondo i dettami della tradizione. Infine i personaggi non partecipano alla colazione ma è come se posassero per una foto, dunque, come la riproduzione di un’immagine reale.

Tiziano, Venere di Urbino, 1538, Galleria degli Uffizi, Firenze

 

Ancora una volta a rimandare a una foto è l’immagine di una modella nuda in una posa sfrontata sul letto: l’Olimpia. Presentata al “Salon” del 1864, l’opera, ispirata alla Venere di Urbino di Tiziano, provocò la rottura con l’Accademia in modo più esplicito. Mentre tutte le Veneri e le dee erano state rappresentate con sinuosità, l’opera risultò di difficile comprensione e la nudità è ribaltata: il corpo della donna emerge con un bianco uniforme che contrasta vistosamente con lo sfondo nero, la posa con la mano sinistra premuta sul ventre, ricorda alcune immagini pornografiche del tempo, il fiore nei capelli e il fiocchetto al collo fanno pensare che sia una prostituta, infine le pantofole mettono in evidenza che per casa giace nuda e ciò è ulteriore elemento provocatorio e dà l’impressione dell’aspettativa.

Come in una fotografia, dunque, ad indicare propriamente lo “scrivere con la luce” – dalla combinazione dei due termini greci phòtos (luce) e graphìa (scrittura) – così come accadeva nell’antica tecnica che proprio in questo secolo conobbe i suoi sviluppi in chiave moderna, Manet descrive virtuosamente la realtà quotidiana fissando attraverso il colore quel particolare istante impresso nella sua mente con l’utilizzo di pennellate giustapposte dai colori puri, cioè non miscelati, compresi il nero e il bianco, differenziandosi in ciò dai pittori propriamente impressionisti che li ritenevano dei non colori, sviluppando un nuovo modo di esprimere in pittura.

Nel 1874, anno della prima mostra dei pittori impressionisti presso lo studio del fotografo Nadar, infatti, Manet non partecipò all’esposizione, anche se questi lo consideravano un maestro e avrebbero voluto che egli facesse parte del loro gruppo.

L’ultimo Manet

Nell’ultimo periodo della sua attività Manet era gravemente ammalato, a causa di alcune forme reumatiche mai curate. Due anni prima della sua morte egli eseguì il suo ultimo importante dipinto: Bar delle Folies-Bergères, un caffè-concerto animato da spettacoli musicali di cui l’artista ritrae la cameriera dietro il bancone in una visione realistica in quel gioco di riflessi dello specchio alle sue spalle in cui si nota l’animata folla del caffè e, più a destra, la sagoma di un uomo che sta di fronte alla donna e le chiede da bere, superando così definitivamente le leggi della prospettiva; senza perdere  il primo piano del volto della ragazza segnato dalla fatica e dalla frustrazione di questa ad attenersi a quelle regole.

Manet rifiutò di far parte dei pittori chiamati impressionisti, volendo più di tutto entrare con un riconoscimento ufficiale tra i grandi della pittura francese. Ci riuscì, ricevendo la Legion d’onore poco prima di morire a Parigi nel 1883 a soli cinquant’uno anni.

Fin dagli esordi realisti, la sua produzione artistica fu discontinua e ricca, comprendendo anche molti ritratti. Tutto questo sarà visibile in una grande esposizione a Palazzo Reale di Milano che rende omaggio a un grande artista della Parigi dell’Ottocento e padre spirituale dell’impressionismo.

‘Van Gogh Alive, The Experience’: a Roma fino al 27 marzo 2017

Dopo il successo ottenuto a Torino e a Firenze, Van Gogh Alive – The Experience  arriva a Roma, segnando una nuova tappa nell’ambito del progetto itinerante creato da ‘Grande Exhibitions’ che, dal 25 ottobre fino al prossimo 27 marzo, ha scelto lo storico Palazzo degli Esami a Trastevere, come luogo in cui ospitare la mostra interattiva dedicata all’affascinante opera del celebre pittore olandese.

Lo straordinario evento regala al pubblico un percorso di visita fuori dai canoni, per così dire, ‘tradizionali’, in cui lo spettatore è posto di fronte all’opera dell’artista. Qui, invece,  la visita si trasforma in una vera e propria esperienza multisensiorale che fa da ponte fra l’arte di oggi e di ieri. Una esibizione artistica-emozionale di 40 minuti si snoda tra grandi spazi delle sale del Palazzo in via Gerolamo Induno, che, dopo 20 anni di chiusura, ritorna a rinascere proprio grazie a Van Gogh.

Attraverso i più avanzati strumenti tecnologici e multimediali, il visitatore potrà così completamente immergersi nei vibranti colori usati dall’artista prendere letteralmente vita nella proiezione di 3.000 immagini fotografiche delle sue opere lungo pareti e colonne, soffitto e  pavimento delle sale del Palazzo in una realtà virtuale davvero immersiva grazie a SENSORY4™ : “un sistema multimediale unico – ha spiegato Rob Kirk, curatore per ‘Grade Exhibitions’- che armonizza motion graphic multicanale, suono surround di qualità cinematografica, con oltre 40 proiettori ad alta definizione per fornire immagini dettagliate e particolari in primo piano”.

Vang Gogh Alive è una mostra che incontra la tecnologia, un viaggio poetico dove immergersi a 360 gradi nei capolavori dell’opera pittorica del grande Maestro dai capelli rossi e gli occhi chiari, dove le linee e i colori vivaci riflettono la capacità espressiva del tragico mondo di Van Gogh. Un’esperienza multisensoriale, dunque, non solo per gli occhi ma che dà allo spettatore la sensazione di toccare con mano il blu intenso della Notte stellata al punto da diventare un tutt’uno con l’opera proiettata ad alta definizione oppure immergersi nelle immagini animate dei famosi mulini a vento, arricchito da musiche estremamente evocative come quelle di Schubert, Vivaldi, Bach e tante altre.

Van Gogh e la sua pittura “inquieta”

La pittura permise a Vincent Van Gogh (Groot-Zundert, Brabante, 1853 – Auvers-sur-Oise 1890) di trovare se stesso nel suo eterno conflitto interiore, il cui talento artistico gli fu riconosciuto soltanto dopo la fine di quella sua vita confusa e inquieta vissuta tra il mal di vivere e la follia, all’ombra del fratello minore Theo. Numerose immagini di citazioni tratte dalle sue lettere al fratello, importantissime, tra l’altro al fine di comprendere la difficile personalità del pittore originario dei Paesi Bassi, sono incluse nella mostra in un ‘excursus’ sulla sua vita privata assieme alle 800 opere che il Maestro ha composto in 10 anni di intenso lavoro, operando una profonda rivoluzione nella storia dell’arte. A partire dal 1880, quando tardi decise di dedicarsi alla pittura nella Parigi degli Impressionisti, fino al 1890, negli ultimi anni della sua vita vissuta tra Arles, Saint Rémy fino a Auver-sur Oise, luogo in cui si spense in una modesta camera d’albergo.

C’è tempo fino a marzo 2017 per immergersi nei colori e nello stile unico di Van Gogh all’interno degli 11 mila metri quadrati di Palazzo degli Esami di Roma.

 

 

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