‘Diverso’, l’inettitudine di un uomo di oggi raccontata da Roberto del Balzo

“Diverso” di Roberto del Balzo (La Gru Edizioni) è il titolo di un racconto di un giorno di lavoro, quello in cui il personaggio principale, Osvaldo Giustozzi, sceglie di dare le dimissioni. Queste otto ore sono il pretesto non solo per descrivere l’alienazione e i desideri di fuga dal posto di lavoro ma per riflettere sul senso ultimo dell’uomo, le sue passioni e rinunce. È una storia sulla frattura tra una vita imposta dalle convenzioni (lavoro, famiglia e amicizia) e la presa di coscienza della mancanza di libertà e di tempo e, in ultima analisi,
dell’impossibilità di essere veramente se stessi in questa vita.

Le dimissioni saranno per lui il primo passo per dare uno strappo tra sé e una vita sempre uguale che sembra non appartenergli più.
Osvaldo Giustozzi arrivato al giro di boa dei cinquant’anni sente l’impellenza di ritornare alla vita e liberarsi dalle catene che lo tengono legato a una scrivania tutto il giorno, obbligato a convivere con colleghi miseri e tristi, un coacervo soffocante di personaggi soggiogati dalla vanità e dalla voglia di emergere scavalcando tutto e tutti.

Il suo come quello di tanti altri è il primo passo, uno dei moventi che spingono le persone ad abbandonare un presente che stritola per tentare di ricostruire qualcosa dopo il nulla che li ha attraversati. Diverso è il percorso di questo sforzo di liberazione che alla fine mancherà, perché il passato e gli eventi prenderanno il sopravvento sulla voglia di futuro, che alla fine sarà “Diverso”.

“In quale punto della vita ci si perde? Quando si smarrisce il senso di quello che abbiamo fatto e di quello che ci rimane da fare? Ci facciamo trasportare dall’inutilità di mille cose senza curare più la nostra anima. Il lavoro e quella inutile voglia di mostrarsi, mostrarsi migliori di quello che siamo, sfoca tutto e non si riesce più a intravedere l’inizio e la fine nella nebbia dei momenti persi e mai più ritrovati.”

Osvaldo Giustozzi è un uomo all’apparenza decisamente mediocre. Ha condotto una vita modesta facendo un lavoro eternamente uguale a se stesso come redattore in una famosa rivista. Ogni sua giornata è scandita da una routine che non lascia scampo: dormire, lavorare e cercare nel tempo rimanente di dare un senso alla pochezza che lo circonda. Arrivato alla soglia dei cinquant’anni decide di dare le dimissioni senza pensare al futuro o alle conseguenze. Quello che doveva essere l’ultimo giorno di lavoro, le ultime otto ore passate in attesa di consegnare la lettera di dimissioni e andarsene, prenderà una forma inattesa, a tratti drammatica.

L’inettitudine di cui parla Roberto Del Balzo avvalendosi di un tocco di ironia, è quella incapacità di vivere, la paura della vecchiaia e della morte, della malattia che richiama alla memoria grandi classici, da Pirandello a Kafka, passando per Svevo. Osvaldo rappresenta la figura dell’inetto, del disadattato sempre in fuga da situazione i contesti mediocri, in primis attraverso le dimissioni e somiglia soprattutto al personaggio di Zeno Cosini, in quanto uomo moderno, figlio del decadentismo che vive in contrasto con la realtà e in una dimensione di irrazionalità ed esprime lo smarrimento della coscienza di fronte a una civiltà considerata in declino.

L’uomo decadente avverte l’impossibilità di entrare in reale contatto con gli altri, denuncia la disperazione, l’inettitudine e l’impotenza dell’ individuo di fronte alle scelte imposte dalla realtà. L’inconcretezza e la precarietà vengono allora riconosciute come basi della vita e la “malattia” è accettata come condizione normale, alla quale è possibile contrappore solo una lucida rassegnazione ad un destino di sconfitta. Tale coscienza della crisi viene affronta da Del Balzo che analizza la vita del suo protagonista e dei suoi rapporti sociali e lavorativi.

Gli atti di ribellione che mette in atto il protagonista sono davvero atti coraggiosi di chi non vuole omologarsi agli altri o prove dell’incapacità di adattarsi alla società che forse, in fin dei conti, non è tanto malvagia come si può pensare? Sembra essere anche questa la domanda che pone Roberto del Balzo tramite il suo antieroe, e in un momento in cui la letteratura italiana è parca, purtroppo, di storie scevre da ideologie e politicizzazioni, storie personali che analizzano la psiche nel mondo e nella società di oggi tutta lavoro e dipendenza tecnologica.

Un’opera prima di buona fattura quella di Roberto del Balzo, che non si perde in sterili retoriche, ma che cerca di affrontare il problema del “non sentirsi in sintonia con gli altri e con il mondo” a partire dal malessere che si cela nell’individuo.

L’autore

Roberto Del Balzo (Milano, 1965) è di origini napoletane. La scrittura è sempre stata il sottofondo della sua infanzia con il battito sui tasti della Olivetti Lettera 32 del padre giornalista ed è rimasta per sempre una passione, una passione da accogliere per farne vita, racconti, romanzi e altri progetti. Oltre alla scrittura c’è il suo quotidiano lavoro come direttore creativo in un’azienda di Milano.

“Una vita”: storia di un inetto

Italo Svevo

“Una vita” è il primo romanzo di Italo Svevo, pubblicato nel 1892 dall’editore Vram, inizialmente passato inosservato nel panorama letterario italiano forse perchè inizialmente  recava il titolo di “Un inetto”, per sottolineare meglio la psicologia del personaggio principale, oltre al pessimismo dello scrittore. Rifiutato dall’editore, Svevo pensa di modificarne il titolo richiamando quello  di un noto romanzo di Guy de Maupassant: “Une vie”.

Protagonista del romanzo è Alfonso Nitti, giovane intellettuale con aspirazioni letterarie, che trasferitosi a Trieste, trova impiego presso la banca Maller. Ricevuto successivamente un invito per partecipare al salotto letterario riunitosi in casa Maller e  guidato appunto dalla figlia del banchiere, Annetta, Alfonso pensa finalmente di poter mostrare le sue ambizioni ed elevarsi socialmente. Inizia una relazione amorosa con Annetta che si rivela una donna capricciosa che in parte ostacola la grande voglia di riconoscimento artistico del protagonista. Giunto però al momento centrale, il matrimonio con Annetta, Alfonso scappa per assistere alla madre malata e in parte fuggire a questa nuova vita e ritornare alla sua speculazione interiore. Quando Alfonso ritorna a Trieste, scopre ormai una situazione ben diversa da quella che pensava: Annetta sta per sposare un cugino. Alfonso chiede così di poterla incontrare e ricevere qualche chiarimento, ma all’appuntamento si presenta il fratello che lo sfida a duello. Ormai vittima della sua inettitudine, si suicida.

Come sottolineato inizialmente, nel romanzo la figura centrale che poi va a caratterizzare anche i romanzi successivi di Svevo, è l’inetto, colui che è  incapace di vivere con gli altri, dominato da un costante senso di inadeguatezza e che si mostra paralizzato al momento di compiere scelte importanti.

Svevo ha dichiarato apertamente di essere stato influenzato nella stesura del romanzo da A. Schopenhauer; infatti ritorna spesso nel romanzo il motivo della volontà individuale e della negatività della vita sociale. Sono le persone, non i fatti ad essere enigmatici secondo Svevo, imprigionate nella loro incapacità di maturare, di uscire dal loro isolamento borghese, soffocate dalla società. I protagonisti dei romanzi sveviani sono degli antieroi, resi ancori più tragici dalla squallore e dal grigiume dell’ambiente in cui sono immersi (Trieste infatti, che in quegli anni viveva una straordinaria fioritura intellettuale, è ridotta ad una cupa e uggiosa città, come l’animo di Nitti).

Svevo in questo suo romanzo rigoroso e meccanico, è bravissimo ed acuto ad intrecciare i motivi sociali con quelli psicologici, e sebbene, il romanzo risenta di una certa rigidità dovuta probabilmente alla mancanza di padronanza da parte dello scrittore nato ai confini della Slovenia, della lingua italiana è un chiaro esempio di opera letteraria d’avanguardia, in quanto si allontana dai canoni naturalistici ottocenteschi per indirizzare la propria attenzione verso la coscienza e i suoi meccanismi.

Una vita è in sintesi, la storia di un uomo dentro se stesso, continuamente assorto nel flusso delle proprie cadenze sensibili, di un mondo sociale che soffoca, di una solitudine che al contempo gli fa comodo ma gli arreca danno. Il vivere è un peso da dividere con gli altri, in una società malata che detta mode e desideri, mentre nulla calma lo spirito degli inetti. Alfonso è un uomo ricettivo che avverte la necessità di sopportare la vita di banca che lo assilla; è una figura paradossale e commovente che si illude a rincorrere sogni che lo salveranno dentro ingranaggi micidiali. In questo senso anche la seduzione, non basta più, Annetta è lo specchio di un mondo in cui Alfonso non sa stare.

Questo primo romanzo di Italo Svevo forse non è ai livelli di Senilità e de La Coscienza di Zeno, ma è comunque un’opera interessante in quanto ci mostra come lo scrittore intende discostarsi dal naturalismo francese e dal verismo, anche se non sa ancora bene quale stile adottare. Non è più un realista, ma sembra temere di addentrarsi in un territorio meno conosciuto. È importante sottolineare come in Una vita si trovino rade descrizioni degli ambienti e dei personaggi, solo sommarie indicazioni su tempi e luoghi e la trama è scarna, costellata dai soliloqui e dai pensieri del protagonista per il quale Svevo non mostra alcun pietismo.

 

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