‘Anna’: l’apocalisse degli adulti di Ammaniti

Anna (Einaudi, 2015) è il settimo romanzo di Niccolò Ammaniti, scrittore romano giunto alla notorietà nel 2001 con il successo di Io non ho paura, e vincitore del Premio Strega nel 2007 con Come Dio comanda, libri che furono entrambi trasposti al cinema dal regista Gabriele Salvatores.

Nel delineare le caratteristiche principali che accomunano tutte le storie di Ammaniti, la penna esperta del critico letterario Alberto Asor Rosa ha scritto che «L’infanzia e l’adolescenza s’impongono fino a produrre un atto di solidarietà fra simili/uguali» (Dall’Introduzione all’edizione 2014 della raccolta di racconti Fango).

Bambini e adolescenti: personaggi preminenti nelle opere di Ammaniti, detentori di una prospettiva unica in cui l’autore ama da sempre calarsi, divengono nell’ultimo romanzo i protagonisti indiscussi di un singolare scenario da cui la realtà degli adulti è scomparsa lasciando solo un’ombra da ricercare con malinconica nostalgia. Anna si ambienta infatti in un mondo post-apocalittico in cui una terribile epidemia ha sterminato l’umanità, risparmiando però i minori di quattordici anni. “La Rossa”, questo è il nome della spietata malattia, pur essendo stata contratta dall’intero genere umano, rimane silente nei bambini, non provocando sintomi né danni, fino al periodo fatale rappresentato dal sopraggiungere della pubertà.

Anna: trama e contenuti del romanzo

Il romanzo segue le vicende di Anna, la protagonista, e del suo fratellino Astor, persi tra i miseri resti di quella che era un tempo la casa della loro famiglia, lande desolate, città distrutte e luoghi invasi da un’aura inquietante e surreale. È in questo macabro contesto che la sopracitata osservazione di Asor Rosa, senza dubbio valida per i titoli precedenti, non può più applicarsi alla trama e allo sfondo narrativo di Anna: la solidarietà fra simili è infatti pesantemente inghiottita da uno spirito primitivo di sopraffazione; i bambini che si aggirano tra le rovine della civiltà non aspirano a creare un reame idillico dove far regnare la proverbiale innocenza infantile, bensì lottano instancabilmente tra loro, si associano in bande di teppisti senza scrupoli o in misteriose sette fondate su un misticismo vacuo, strappano agli altri tutto ciò che possono servendosi del furto e dell’inganno.

Ciò che rende il romanzo Anna interessante è proprio l’immagine non stereotipata e non mitizzata dell’infanzia che in esso viene proposta. Un’immagine cruda, impietosa, sconvolgente ma molto più realistica degli scenari edenici e fiabeschi a cui la letteratura ci ha spesso abituato, come nel caso esemplare del castello misterioso descritto ne Il grande Meaulnes di Alain-Fournier. Ammaniti introduce quindi un elemento controverso capace di sfidare il gusto del pubblico e gli schemi della mentalità comune, una scelta importante per uno scrittore di grande successo internazionale inevitabilmente obbligato a confrontarsi con le logiche commerciali. Tale scelta si concretizza in maniera particolarmente efficace grazie alle descrizioni molto aspre e al linguaggio violento e diretto che da sempre animano lo stile di Ammaniti, uno stile che la critica ha talvolta considerato eccessivo in senso sgradevole proprio a causa dell’indulgenza sui dettagli macabri.

Anche l’inclusione della componente fantascientifica e l’ambientazione post-apocalittica meritano una riflessione. Si tratta di elementi tutt’altro che innovativi, ben presenti nella narrativa precedente (l’esempio più vicino è senza dubbio La strada di Cormac McCarthy), ma soprattutto nel cinema americano, che da decenni propone al pubblico scenari catastrofici ormai familiari incentrati sull’estinzione del genere umano. Nel romanzo di Ammaniti, tuttavia, il tema apocalittico sembra porsi come il punto di arrivo di un percorso coerente che si è delineato nelle opere precedenti attraverso lo sguardo disincantato dell’autore rivolto a una società allo sbaraglio e orientata verso l’autodistruzione. Non è un caso che, già nel 1996, il più esteso dei testi pubblicati nella raccolta Fango si intitolasse L’ultimo capodanno dell’umanità, titolo in apparenza ingannevole, perché l’esplosione descritta nel racconto non colpisce l’intero pianeta, ma soltanto un complesso di palazzine a Roma, ma di fatto calzante, in quanto l’umanità che la storia mette caoticamente in moto non è altro che un emblema universale di annientamento collettivo.

Alle immense megalopoli del cinema americano, distrutte da invasioni aliene e catastrofi nucleari, Anna contrappone una Sicilia spaventosamente inedita, abbandonata gradualmente a sé stessa con la fine della civiltà degli adulti, e dominata sempre più dal mondo rurale e selvaggio che varca a poco a poco i limiti artificiali delle città.

Difficile è comprendere il valore che nel romanzo ricoprono la speranza e la voglia di rinascita, che pur essendo presenti nei pensieri della protagonista e nelle illusioni diffuse tra la popolazione sopravvissuta, non riescono mai a concretizzarsi o a trovare un appoggio razionale degno di credibilità. Se da un lato i nomi di Anna e Astor, entrambi con l’iniziale A, sembrano richiamare l’idea di un nuovo inizio per il mondo, dall’altro la forza dell’epidemia appare incontrastabile, e i segni del morbo rimangono dietro l’angolo, in attesa di manifestarsi con l’inizio dell’adolescenza, l’età dove si entra nella “vita reale”, che invece diviene l’età dove si incontra la morte. E qui, in questo senso di inesorabile sconfitta, in questa angoscia che, per la prima volta in un romanzo di Ammaniti, supera di gran lunga l’ironia, si colloca forse il vero messaggio dell’opera, del tutto implicito e velato in un nichilismo senza uscita, eppure deducibile nella sconfortante conclusione della trama: oltre la speranza di salvezza, la possibilità di un riscatto, e persino oltre la sopravvivenza, ciò che conta sono i legami, la condivisione, il vivere insieme conservando intatti i sentimenti.

‘Quattro soli a motore’, di Nicola Pezzoli

Quattro soli a motore (Neo edizioni, 2012) di Nicola Pezzoli è il primo libro della saga dedicata a Corradino, il quale è stato seguito da Chiudi gli occhi e guarda (2015) e dal recentissimo Mailand (2016). Come la maggior parte dei romanzi che ruotano intorno alla vita di una singola persona, si classifica pienamente all’interno del genere di formazione.

Quattro soli a motore: “Corradino c’est moi. Corradino ce n’est pas moi”

Iniziamo col dire qualcosa di assurdo: Quattro soli a motore presenta uno degli incipit più robusti mai letti ma, al contempo, fonda molta della sua forza narrativa su una “truffa”. Proprio così, una truffa, ma di quelle che, da un lato, si “sciolgono” e si giustificano solidamente all’interno del testo, rendendosi così coerente al lettore; e dall’altro si “perdonano”, poiché quando ci si accorge di questa truffa (che tante aspettative ha creato nel frattempo) si è già immersi in una lettura che assorbe. Per capire di che tipo di truffa parliamo, è bene leggere la prima parte dell’incipit:

Se non vi piace Corradino, chiamatemi come vi pare. Solo vi prego non chiamatemi Scrofa. Non è giusto chiamare Scrofa un ragazzino di undici anni. Tanti ne avevo nel 1978, l’estate che divenni un assassino. Quell’anno accaddero cose che ancora mi fanno tremare e che adesso proverò a confidarvi. Possano perdonarmi le anime delle persone che ho ucciso. Perché una parte di me continua a pensare che i fatti si sono svolti così, che non si è trattato di pure coincidenze, e nessuno mi convincerà mai del contrario.

Da lettori ci si aspetta qualcosa di sconvolgente quando l’autore ci fa avvicinare, senza mezzi termini, alla possibilità che un bambino di undici anni di nome Corradino sia un assassino. Oltre a questo fatto, in queste poche righe aleggia una sensazione di oscurità (rinvenibile in tutto il romanzo) che è difficile togliersi di dosso. “Non è giusto chiamare Scrofa un ragazzino di undici anni” rimanda a un senso di giustizia universale infranta, mentre “possano perdonarmi le anime delle persone che ho ucciso” ha molto il sapore di un peccato da espiare. E così è, se si pensa all’educazione cattolica “da paese” impartita al protagonista.

Ma poi, nel prosieguo della storia di Quattro soli a motore, scopriamo che non c’è stato alcun assassinio; che il piccolo Corradino, in quell’estate del ’78, si è ritrovato a odiare alcune persone, con la morte delle quali niente ha avuto a che fare se non l’aver desiderato la loro fine in un taccuino rosso sottratto sette anni prima a una “cugina della nonna”. Ma allora perché, nonostante questo palese “tradimento” di quel filo rosso della fiducia che lega dalle prime righe autore e lettore – e che deve necessariamente continuare a essere integro fino all’ultima parola – non si può affermare che Pezzoli sia un millantatore e un bugiardo, relegandolo fra gli scrittori di cui non ci si può fidare?

La risposta è semplice e, al contempo, perfettamente s’inquadra nella tecnica stilistica del romanzo di formazione, o meglio in quella parte del romanzo di formazione che riguarda l’infanzia di un personaggio: l’immaginazione di un bambino, il suo modo di vedere il mondo intorno a sé e d’interrogarsi sugli eventi (soprattutto gli eventi ultimi e i casi limite, come appunto la morte) hanno la capacità di modificare strutturalmente le esperienze vissute e i ricordi legati a quelle stesse esperienze. Tornando anche trent’anni dopo sui medesimi fatti vissuti – con la consapevolezza e la Weltanschauung di un adulto che ormai ha imparato a razionalizzare, a darsi risposte sensate e coerenti col sistema-mondo – resta sempre quel senso di inspiegabilità, ineluttabilità e mistero intorno agli eventi che maggiormente hanno segnato l’infanzia.

E allora l’aver “predetto” le morti di persone odiate diventa de facto l’aver “causato” quelle stesse morti. Come si legge in questo passo relativo alla morte accidentale della zia Trude:

Di nuovo io solo con lei e le sue pupille sgranate e la sua faccia viola e l’espressione terrorizzata e attonita, ma pur sempre cattiva, io che avevo provocato la sua morte, io che l’avevo odiata d’un odio profondo, e che non riuscivo a dispiacermene abbastanza, se non per il terrore della condanna eterna della mia anima.

In Quattro soli a motore il rapporto di un bambino con la morte è qualcosa di paradossale, un concetto ancora evanescente, un mix di altri concetti altrettanto volatili (quel posto “magico” chiamato paradiso, lo strano timore associato alla parola “Dio”, l’impossibilità di un’ulteriore esistenza ecc.). Qualcosa d’inspiegabile appunto ma che – lo si percepisce già dalle lacrime dei vivi, dalle parole sbocconcellate e dagli sguardi di terrore dei genitori che provano a dare ragione di qualcosa di ultimo come la morte – non ha e non può mai avere un valore positivo, ma anzi è la negazione di tutto ciò che è. E allora quanto immani devono essere il senso di colpa, di terrore, di disperazione, per un bambino di undici anni, che si accompagnano alla consapevolezza (immaginata, ma non per questo meno reale nella sua mente) di essere stato la causa di ben tre morti, avvenute tutte in rapida successione, di altrettante persone odiate?

Ma le nebbie quasi-oniriche della fantasia e del mistero non avvolgono solo la dipartita improvvisa di questi personaggi. Tutto viene (ri)visto, anni dopo, attraverso gli occhi di un bambino cresciuto. Così la famiglia diventa il luogo della non-sicurezza (laddove la figura del padre – che generalmente funge da guida nell’esistenza – è sempre connessa col dittatore argentino Videla, mentre quella della madre – il simbolo, di solito, della purezza d’animo – è sporcata da un alcolismo imperante), le prime cotte sono vissute con terribile disincanto, il circondario del ristretto paesino di Cuviago è luogo di insidie e di limiti. Villa Kestenholz – la terribile residenza dell’altrettanto terribile padrone di casa (un fantasma ultracentenario nei pensieri del piccolo Corradino), il luogo di finis terrae, il non plus ultra, ciò che è al di là delle colonne d’Ercole – si rivela poi una casa come le altre, che nasconde solo un vecchio prossimo alla morte tormentato dalla perdita dei figli durante la prima guerra mondiale. Così la fantasia di un bambino costruisce un mondo a parte, inesistente, ma comunque vivido e lucido, in grado di condizionare tutto il resto.

Con Quattro soli a motore, Pezzoli riesce in questo suo intento di voler indagare quel periodo storico di un individuo in cui si formano la sua personalità, i suoi incubi ricorrenti, la sua morale – tutti elementi che, variati ed evoluti, torneranno e ritorneranno sempre nella vita. L’infanzia contiene in sé il fascino perverso di un carattere in germe: tutto ciò che in questo momento va storto tende a ripresentarsi, se non curato tempestivamente, nella vita adulta: è questa la terribile realtà che sta dietro a quello che, generalmente, è considerato il periodo più “tranquillo” della vita di una persona ma che, in realtà, nasconde la potenza (in senso aristotelico) del disastro esistenziale. E riuscire a raccontare con questa fermezza di spirito quel periodo è qualcosa che merita decisamente un inchino… nonostante la “truffa” (pur ardita) che vi sta dietro.

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