Beneficenza, filantropia, carità, marketing. “Per fare il bene, bisogna conoscerlo”, diceva Manzoni

«Per fare il bene, bisogna conoscerlo; e, al pari di ogni altra cosa, non possiamo conoscerlo che in mezzo alle nostre passioni, per mezzo de’ nostri giudizi, con le nostre idee; le quali bene spesso vanno come possono». Il monito di Alessandro Manzoni ne I Promessi Sposi, è inequivocabile: il bene bisogna conoscerlo, non deve mai essere in coincidenza con i singoli propositi; nello specifico, Donna Prassede con il suo ‘far il bene’ si propone di raggiungere altri scopi.

Infatti, la sua nobile missione sarebbe quella di raddrizzare il cervello e mettere sulla buona strada Lucia. Di Lucia la nobildonna pensa: «Non che in fondo non le paresse una buona giovine; ma c’era molto da ridire: Quella testina bassa, col mento inchiodato sulla fontanella della gola, quel non rispondere, o rispondere secco secco, come per forza, potevano indicar verecondia; ma denotavano sicuramente caparbietà: non ci voleva molto a indovinare che quella testina aveva le sue idee». Nel suo proposito di far il bene, Donna Prassede parte da un’idea negativa di Lucia che le comporta una distorsione della realtà dei fatti, con conseguenziale agire non verso il bene ma verso il male. Difatti, è convinta che Lucia si sia messa su una brutta storia e non perde occasione per cercare di far dimenticare alla donna quel ‘partito sconveniente’ di Renzo.

Molti personaggi contemporanei, vip e influencers somigliano a Donna Prassede. Sono accomunati dall’esibizionismo e dalla presunzione:

«Le accadeva, quindi, o di proporsi per bene far più di quel che avrebbe diritto».

L’ultimo ironico sigillo al giudizio di Manzoni sulla mediocrità di donna Prassede è il seguente: «Di donna Prassede, quando si dice ch’era morta, è detto tutto‘.

Manzoni è molto abile a dare un ritratto impietoso di Donna Prassede, prototipo della falsità, dell’ipocrisia e dell’immoralità che non sarà mai inattuale. La caratterizza la vanità aristocratica, l’assenza di moderazione e un formalismo esteriore in aderenza ad una religione di facciata, non conosce la carità sincera. Ella si sente calata nei panni dei giusti e assume un atteggiamento ben lontano dal cuore. Il suo errore  umano è di pensare di essere nel giusto, ma così non è, i suoi pregiudizi alterano la realtà e si discosta enormemente dalla Morale.

Tuttavia è bene sottolineare che carità, filantropia e beneficenza non sono sinonimi, anche se parlano ambedue del medesimo oggetto, e cioè l’uomo e la donna nel bisogno, tenendo presente la vasta tipologia di bisogni e di povertà nelle diverse condizioni di vita. Conoscendo la forza dell’egoismo, per il quale è l’io che si pone al centro dell’attenzione ignorando l’altro, avvertiamo quanto sia difficile uscire da noi per correre in aiuto dell’altro.

Immaginiamo se poi chi dice di praticare la beneficenza, possa addirittura truffare e mettere in piedi un sistema di comunicazione nebulosa atto a far capire e al contempo a non far capire che chi compra quel prodotto griffato, spendendo il triplo, aiuta chi ne ha più bisogno, come i bambini. Poca chiarezza (deliberata) come modus operandi per pararsi il didietro e guadagnare sempre di più, consolidare il proprio status economico-sociale e ostentando ricchezza e volgarità. Si chiama marketing ma viene spacciato per beneficenza da chi si pone come modello per i giovani di oggi.

Perlopiù è la compassione che ci fa accorgere dell’altro e ci fa sensibili alle sue esigenze e ai suoi bisogni; nasce allora dal cuore quella filantropia (= amore per l’uomo), che ci porta a fare anche belle cose in aiuto di chi è nel bisogno. Tale filantropia è già da sola un grande contrassegno dell’umanità dell’uomo, e merita di essere in ogni caso incoraggiata e sviluppata. Il cristiano fa altrettanto e ancora di più, perché sa di trovarsi non solo dinanzi ad un suo fratello per fede e per destinazione, ma dinanzi ad una presenza “mascherata” del suo Dio. .

Per questo una delle caratteristiche della comunità cristiana delle origini era la perseveranza nella carità e nella comunione dei beni (At 2,44-45).

Concetto sicuramente estraneo a chi, dopo essere stato beccato, pensa di poter riacquistare credibilità. parlando di errore di comunicazione, quando si è le regine dei social, e donando un milione di euro ad un ospedale. Guardiamo allo “star basso” di Lucia, non alla superbia, all’ignoranza e all’altezzosità di chi non si “accontenta” di fare milioni grazie al disagio e alla superficialità giovanile (e non solo), ma che entra a gamba tesa anche su questioni politiche avventurandosi in pistolotti moralistici indigesti e slogan mo’ di maestro di vita.

 

Donna Prassede, per fare il bene bisogna conoscerlo – Elio Ria | Scrittore Salentino

Lo Zan, Fedez e il tiro all’opinione

Tra Fedez e Pillon, tutti a grugnire intorno alla proposta di legge del deputato PD. In democrazia, più si rispetta la diversità, meglio è. Nella finta democrazia liberale, invece, funziona come nella Fattoria degli animali di Orwell: c’è sempre qualcuno che vuol essere più uguale degli altri.

Il diritto liberale funziona così: ogni minoranza deve poter chiedere e, prontamente, da parte della maggioranza esserle dato. Norme, soldi (4 milioni di euro per centri di assistenza a vittime delle violenze di genere), visibilità, riconoscimento sociale. Si sviluppa ad abundantiam, per proliferazione.

Non è una critica, è una constatazione. Tutto quel saltare di nervi, poi, per gli incontri nelle scuole abbinate a una futura Giornata nazionale contro le varie fobie, pare, suvvia, un tantinello sfasato: con tutta l’orgia di materiali di varia natura di cui un ragazzino può ingozzarsi quando gli pare e piace, guardando una qualunque serie su Netflix, o navigando solitario in cameretta sul telefonino (che certi disastrati genitori gli danno in mano quando ancora non sa la differenza fra il coso e la cosina), il terrore che imparino dalla maestra la legittima esistenza degli omosessuali o dei trans suona, diciamo, leggerissimamente fuori dal mondo.

Secondo i seguaci di Fedez, la proposta (già passata alla Camera, bloccata in commissione al Senato dalla Lega) non mette affatto a rischio la libertà di manifestare un’opinione diversa o critica su matrimonio gay o utero in affitto, anche perché è stata munita di un’aggiunta, la cosiddetta “clausola salva-idee”, che salvaguarda la libera espressione di punti di vista purché non vengano “a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti”.

L’ambiguità, in effetti, c’è. Ma come in tutte le pandette, del resto, specie in Italia. Sarà ulteriore lavoro per i giudici nonché per i giornalisti, ghiotti di casi dell’offeso di turno che schizza in tribunale non appena sente un prurito alla propria personale fobia.

Ora, posto che non è in discussione punire chi discrimina un qualsivoglia cittadino a prescindere dalla categoria o dall’appartenenza (se dimostro, per esempio, che pur avendo i titoli mi scarti al lavoro perché non gradisci con chi mi accompagno, vai sanzionato per violazione della basilare uguaglianza, non per altro), specificare, settorializzare, parcellizzare reati di comportamento che dovrebbero valere per tutti è una battaglia che non dovrebbe sfiorare nemmeno un’aula di giustizia, perché è culturale e politica.

Tramite il Dl Zan i promotori intendono far avanzare la loro linea, e ci sta. Ma qua il problema non è il singolo comma del dettato legislativo, è che non dovrebbero proprio esistere i reati di opinione. Chiunque dovrebbe poter sostenere la propria, fosse anche la più indecente, a patto che non agisca per imporla a nessuno.

Si poteva benissimo pensare a giornate celebrative o centri anti-violenza o a inasprire le aggravanti, senza alimentare la dinamica opinionicida dell’iper-regolamentazione fobica.

La legge Zan non proteggerà nessuno, con buona pace di Fedez che non sa nemmeno di cosa parla. Al meglio, non cambierà niente; al peggio, rafforzerà le parti politiche che li discriminano. La legge introduce aggravanti, cioè pene appesantite per reati che già esistono. L’idea che inasprire le pene faccia diminuire il crimine è una delle numerose credenze intuitive ma false, ormai ampiamente smentite dagli studi. Per amor di brevità, citiamo solo la posizione del National Institute of Justice, l’agenzia di ricerca del Dipartimento di Giustizia americano:

“Le leggi pensate per ridurre il crimine concentrandosi principalmente sull’inasprimento della pena sono inefficaci, in parte perché i criminali non conoscono le sanzioni specifiche per i crimini. Pene più severe non correggono i condannati, e il carcere può aumentare la recidiva”.

Inoltre, tralasciando l’ipocrisia e la pochezza intellettuale di alcuni politici che dicono di “stare” con il rapper (fatto che ci dice che la politica ormai è quasi deceduta), il paladino dei trans e dei lavoratori Fedez, “dimentica” quelli di Amazon, multinazionale di cui è sponsor, come dimentica quella canzone in cui ironizzava sull’outing di Tiziano Ferro (uno che sa cantare), o le sue bordate sui carabinieri. L’impressione è che al cantante munito di autotune non interessino davvero i diritti civili, ma consolidare la sua immagine pubblica di influencer, magari sollecitato dalla moglie che ha brandizzato la propria famiglia, facendosi ulteriore pubblicità e “dimostrando” di non essere solo un artista (?) ma un artista impegnato, come si conviene oggi.

 

Fonte  Alessio Mannino

La penosa situazione del Libro in Italia

Madame Bovary si può dire muoia letteralmente di buone letture. Oggi non c’è pericolo, non perché l’eccesso di zelo in amore non continui a mietere vittime, ma perché di buone letture in giro se ne vedono ben poche. Molto si è parlato – anche troppo – di crisi del libro e crisi della lettura. Stracciarsi costante di vesti e capelli: bisogna incentivare alla lettura, si organizzano le giornate del libro, i festival e le fiere e le campagne pubblicitarie e io leggo perché e tu perché non leggi e quanto è bello leggere e come fanno bene i libri… Diciamoci la verità, una volta tanto: si legge poco perché i libri nuovi fanno perlopiù schifo e i libri vecchi quasi nessuno li vuole toccare, poiché la scuola instilla il terrore verso i classici. Altre spiegazioni sono importanti ma secondarie. Tutti se la prendono con chi non legge ma pochi con gli scrittori che scrivono coi piedi e con gli editori che pubblicano immondizia.

Una situazione del genere è ancor più paradossale, a ben guardare, se si considera che il libro non ha mai goduto di buona fama come oggi. Tutti vogliono pubblicare tanto che in molti pagano per farsi stampare, c’è chi si fa scrivere il libro dal ghost-writer e chi si inventa di tutto pur di riempire un tomerello di pagine. 70mila novità editoriali l’anno solo in Italia: settantamila, un numero che fa paura. Togliendo domeniche e festivi, fa più di duecento nuovi libri al giorno. Lì dove i lettori sono pochi (solo il 40% degli italiani legge almeno un libro l’anno) e chi legge frequentemente è solo un pugno di persone, si pubblicano duecento titoli al giorno.

E chi li leggerà mai? Infatti la stragrande maggioranza finisce al macero senza neppure una copia venduta. Ginevra Bompiani ha già lasciato detto che “letteratura oggi è solo narcisismo”, e non altrimenti si spiega come si possano scrivere tali e tanti libri, ben sapendo che non saranno letti. L’intero mondo del libro è una contraddizione così grande da doverla studiare seriamente, per capire che senso ha oggi in Italia quell’oggetto che per secoli è stato l’unico mezzo di trasmissione e conservazione del sapere. Sette punti per constatare lo stato pietoso del libro in Italia.

Il rapporto di una società con il libro andrebbe studiato dagli psicanalisti. Sarebbero gli unici a poterci forse spiegare come il libro si sia potuto trasformare in feticcio, tanto odiato e tanto adorato. Il libro più venduto su Amazon nelle ultime settimane è un volume di Giulia De Lellis (influencer e volto di Uomini e Donne, una che ha dichiarato di non aver mai letto un libro in vita sua) che uscirà a settembre per Mondadori: in cima alle classifiche ancor prima di essere pubblicato.

Tutti scrivono libri, anche chi non legge e in molti casi chi non ha nulla da dire. Pubblicano i cantanti, i giornalisti, i politici, i calciatori, gli attori, e le case editrici fanno a gara per accaparrarseli. Ma se i lettori in Italia sono specie protetta, perché tutti si affannano a scrivere? Si narra che Vittorio Emanuele II disse che “un mezzo sigaro e una croce da cavaliere non si negano a nessuno”; oggi non si negano un selfie e la pubblicazione di un libro. Come il titolo di Cav. e la spilla al bavero conferivano tono e status, oggi il libro assolve alla frustrante funzione sociale. Frustrante sì, perché non c’è da esultare molto nel sapere di aver scritto un libro inutile che presto sparirà dalle librerie, letto da persone che non avevano di meglio da fare e che se ne dimenticheranno subito. Tanto più che, se questi non leggono, ma chi è il pazzo che li fa scrivere?

Non vogliamo giungere fino all’estremismo di Carmelo Bene che, a proposito dell’Ulisse di Joyce, disse:

Mi auguravo nel mio candore, giovanissimo, che dopo questo libro – dico: finalmente nessuno più scriverà; finalmente si ripubblicheranno i classici, come si deve; finalmente la gente in Italia rileggerà i classici. Invece no, c’è stata un’inflazione editoriale.

Però ci sarebbe da darsi una regolata, in un paese dove l’ignoranza della tradizione culturale, dell’origine linguistica e delle radici storiche è così radicale. Roberto Cotroneo recentemente notava come nel film JFK a un certo punto si chieda a un avvocato se abbia letto Shakespeare e questo risponda piccato, quasi indignato. Ovvio che ha letto Shakespeare: è un avvocato americano. Come sarebbe ovvio per un francese aver letto qualcosa di Flaubert, Stendhal o Zola; per un tedesco Goethe, Hӧlderlin o Mann; mentre per un italiano, chissà perché, aver letto Dante, Galileo, Leopardi o Manzoni è casualità più unica che rara. In questo la sedicente industria culturale non aiuta per niente. La scuola poi, se può fare qualcosa per dissuadere dalla lettura, lo fa benissimo.

Altra faccenda è quella strettamente intellettuale: il deperimento dell’interesse culturale e l’atrofizzazione del cervello collettivo che possiamo genericamente imputare a omogeneizzazione sub-culturale, digitalizzazione e disintermediazione. Un mondo in cui il virtuale era raccolto unicamente tra le pagine di carta dava per forza consuetudine con i libri e col linguaggio scritto; oggi che il virtuale alberga tra i tocchi di uno schermo, la parola perde centralità a tutto vantaggio dell’immagine. Mutuando l’opera One and Three Chairs di Kosuth, dalla sedia materiale siamo passati alla sua definizione scritta e oggi alla sua fotografia: nulla più che l’immagine del mondo, la sua raffigurazione mimetica nell’incapacità di definirlo o di ricrearlo con la fantasia.

Nessun piagnisteo sulla tecnologia, però: nulla vieta di usare lo smartphone per cercare informazioni di alta cultura; se lo si usa per giocare a giochini dementi e traccheggiare su Facebook lo smartphone ha poche colpe. Stupido è chi lo stupido fa. Siano invece lodati YouTube e Google che mi hanno permesso di ascoltare interviste e conferenze e di cercare autori, libri e articoli che qualcuno non avrebbe mai conosciuto altrimenti.

Certo però c’è un problema di attenzione nelle ultimissime generazioni, diversi studi ne denunciano la capacità di concentrazione drammaticamente bassa. Ma è pur vero che è oggettivamente difficile oggi leggere certi cari vecchi libri.

Si riporta di alcuni bambini che, avendo tra le mani libri illustrati, fanno per allargare le immagini con le dita. Non sanno che la carta non si zooma, che non viene verso di te ma devi tuffartici dentro, che non la puoi scorrere ma solo assorbire lentamente, che non è interattiva ma statica e monodimensionale. In una parola, è eterna. Quei bambini difficilmente leggeranno libri, perché questi parleranno loro di un mondo che non conoscono, alieno e noioso. Tutte le rivoluzioni comportano vittime: la rivoluzione digitale uccide il libro. Non è colpa di nessuno in particolare, è un intero mondo a cambiare.

È arcinoto che i grandi editori un tempo pubblicavano robette per fare soldi e autori di spessore per prestigio e mecenatismo: Mondadori pubblicava romanzi popolari per foraggiare i Meridiani e Lo Specchio, Livio Garzanti una buona dose di ciofeche ma anche Gadda, Arbasino, Parise.

Uno scafato lettore oggi si trova in grande difficoltà di fronte agli editori: “chi ha tradito, tradirà” dicevano certi fascisti. Come avere fiducia in Rizzoli dopo che ha pubblicato gli imprescindibili libri del Signor Distruggere, del Terrone Fuori Sede e di Ibrahimovic? Come affidarsi a Mondadori se pubblica i libri di Luì e Sofì, che scopro essere degli youtuber, e della già citata De Lellis? Passino i libri popolari, ma qui sembra proprio che si stia raschiando il fondo del barile. Lo facessero per mettere al sicuro il bilancio e poter pubblicare scrittori da novanta lo capirei benissimo. Il problema è che mancano gli scrittori da novanta, e quando ci sono è quasi impossibile accorgersene, visto che appaiono per un attimo soltanto, come il fotogramma di un film, nel flusso editoriale che ci sommerge di volumi e spedisce tutti al macero.

Generalizzare è un male, ci sono editori che non sbagliano un colpo come Adelphi, il Saggiatore, Laterza, Raffaello Cortina e altri. La grande editoria però, quella che riempie i banchi all’ingresso delle librerie, è in quelle condizioni lì. Per qualcuno è normale che sia così, dal momento che la letteratura evidentemente non interessa più nessuno.

Solamente non è vero: basta pensare a quanto hanno inciso l’immaginario collettivo scrittori contemporanei come Roth, Houellebecq o Camilleri, o ai milioni di ragazzini stregati da Harry Potter. La letteratura sortisce sempre un effetto conturbante: bisogna avere però qualcosa da dire e bisogna dirlo bene.

La critica non sappiamo più cosa sia e non ci aiuta per niente, anche perché scrittori di dubbia qualità recensiscono amici che hanno pubblicato con l’editor amico in comune per l’editore che stampa i libri di entrambi. Più che esercizio di critica è uno scambio di favori dominato dal do ut des preventivo: ti elogio, così ti sentirai obbligato a elogiarmi anche tu.

Le riviste culturali sono stramorte, le terze pagine dei quotidiani sono la gazzetta ufficiale dell’editoria, programmi in tv e radio sono rarissimi e di siti in grado di reggere il compito ce n’è pochi. In buona sostanza oggi si fa letteratura senza critica, cioè senza qualcuno che concepisce e interpreta i canoni attuali e spiega ai lettori su quali vie si inerpica la letteratura e cosa hanno da dire i nuovi artisti. E non può essere altrimenti, essendo tutti amici e amici degli amici: come si può fare critica onesta a queste condizioni?

Basta osservare il Rotary Club delle lettere, quel circolo magico fatto di Feltrinelli, Einaudi, Repubblica e Rai Tre. Ecco allora Alberto Asor Rosa (Einaudi) che recensisce sulla Repubblica il libercolo di poesie dell’amico Scalfari (Einaudi) e Corrado Augias (Einaudi e Repubblica) che invita a Quante storie su Rai Tre quasi solo collaboratori del suo stesso giornale. Elogi sperticati nel massimo cortocircuito di un mondo chiuso e impermeabile. Nel paese in cui le lettere sono un Fort Apache da difendere coi cannoni, guai a dire che il re è nudo. Attendiamo il ragionier Fantozzi che possa urlare “questa editoria è una cagata pazzesca”.

Alla fine nessuno controlla. Tanto, come ancora notava il buon Cotroneo, le case editrici devono pubblicare così tanti libri che non hanno neppure il tempo di leggerli tutti, si affidano alla fama degli autori e alla bontà di eventuali recensori, che non hanno nemmeno loro il tempo di leggerli e seppure dovessero stroncarli nessuno li ascolterebbe. Quando non riciclano autori rodati, gli editori cercano senza sosta esordienti da confezionare con abile marketing per garantirsi un pacchetto di copie da piazzare. In libreria è tutto un “caso editoriale” e una “rivelazione dell’anno” e un “esordio folgorante”, quando in realtà si tratta di fetecchie ineguagliabili.

Il risultato è presto detto. Un lettore entra in libreria, è sopraffatto dai nuovi titoli, da nomi mai visti prima e non ha mappa e bussola per orientarsi. Alla fine si perde tra i tomi presentati come le chincaglie di Tiger, trattati alla stregua delle magliette di H&M, e, spaesato, se ne va.

Le nuove uscite sono per la maggiore maschiofobiche. Come fossimo nel ‘700 – i trattati all’uomo e i romanzi alle donne – gli scaffali delle librerie traboccano di libri con donne protagoniste scritti da donne per un pubblico di donne. Quelle montagne di libri dai colori pastello, in copertina la foto di una donna in un paesaggio desolato, con titoli che paiono presi a caso dai Baci Perugina… Per entrare in certe librerie un uomo deve lasciare il testosterone all’ingresso, insieme al cane e all’ombrello. Le rare novità meno femminee spesso consistono nel mistero in monastero o nel noir, che ormai allappa più di un salame.

 

Alessio Trabucco

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