Trilussa, poeta vernacolare e iniziato alla Massoneria

Trilussa, pseudonimo di Carlo Alberto Salustri (1871 – 1950) fu, nella sua vita, poeta ed iniziato.

Trilussa è una delle figure più rocambolesche che si possano incontrare in un’indagine che scandagli i cammini paralleli di Letteratura e Massoneria. Il poeta romano, infatti, fu un massone che mai ricevette iniziazione massonica. Ciò rende ammaliante l’intera costellazione delle sue vicende. Mai compiacente osservatore delle cose italiane, aveva sempre offerto un loro ritratto ironico. Emblematica la sferzata al regime fascista (senza mai, però, sfociare nell’invettiva).

Nonostante l’atteggiamento sui generis – sempre al di sopra delle parti, e fedele solamente a Donna Poesia – il Paese lo vede di buon occhio e lo nomina senatore, senza che questi, però, perda il suo approccio distaccatamente ironico nei riguardi della vita. L’approccio della mente superiore, che vive e vede il mondo, ma mai perde la consapevolezza della caducità delle cose. La poesia in vernacolo, poi, consentiva margini più ampi alla satira, rispetto a quella in lingua. Col registro di cui fece uso, Trilussa immortalò nel migliore dei modi un mondo che viveva, pulsava.

Non trova, nelle istituzioni umane le doti etiche che dovrebbero essere patrimonio comune, ricordando, con tale critica universale, lo spirito massonico, al di là degl’ironici sonetti Li frammassoni de jeri e Li frammassoni d’oggi, in cui non si scaglia contro l’essenza dell’Istituzione ma contro gli uomini che ne fanno parte. Talvolta, questa tensione Trilussa all’universalità, che sfocia nel riconoscimento e nell’aspirazione all’uguaglianza, tracima dalle piccole cose quotidiane alle questioni di peso più considerevole e tragico, come la guerra. Nel 1915, in Fra cent’anni, Salustri, riguardo alla Grande Guerra, ammonisce, riferendosi ai soldati morti, tutti ugualmente straziati dal combattimento:

“E diranno fra loro: – Solo adesso

ciavemo per lo meno la speranza

de godesse la pace e l’uguajanza

che cianno predicato tanto spesso!”.

Il pessimismo di Trilussa

Al momento della morte, dunque, tutti diventeranno uguali, accomunati da quella grande “Livella” ch’è il Tristo Mietitore. Ed il discorso sulla caducità delle cose, sulla vita che altro non è che un gioco fatuo, viene chiuso nella deliziosa, e amara, La bolla de sapone:

“Lo sai ched’è la Bolla de Sapone?

L’astuccio trasparente d’un sospiro”.

Un ‘pessimismo’, quello di Trilussa che non è affatto distruttivo ma, anzi, diviene una presa di coscienza della vicenda umana, di un pánta rêi che non è mai chiuso nichilismo, ma cela la speranza del riscatto finale dell’Uomo. Una speranza covata anche dalla Massoneria, che spinge i suoi iniziati a non smettere mai di lavorare e studiare “per il bene e il progresso dell’Umanità”. Non si può certamente affermare la distanza di Trilussa dall’Ordine, neppure prendendo in considerazione l’ironia dei sonetti dedicati alla Libera Muratoria “di ieri e di oggi”, in cui più che un’aggressione all’Istituzione emerge l’amarezza per l’azione fascista. Mentre la satira dei sonetti massonici va a colpire gli uomini e non il pensiero massonico, negli scritti contro il Fascismo, vi è uno scagliarsi più contro il pensiero che non alle persone: come dimenticare il geniale attacco al “dittatore” in Nummeri ?

Del 1911 è il primo sonetto de Li frammassoni de jeri, in cui Trilussa denuncia il fatto che i massoni non seguono più i lavori come dovrebbero, e che ad assistere alle attività del Tempio non è rimasto che il Grande Architetto, mettendo in mostra l’inadeguatezza della struttura umana e giammai l’Istituzione:

“Pe’ questo so’ chiamati muratori

e er loro Dio lo chiameno Architetto…

Ma poco più j’assiste a li lavori”.

Il secondo sonetto, del 1912, vede il poeta romano evidenziare l’ambizione personale dei singoli che sopraffa il sentimento che dovrebbe animare i massoni. Tuttavia, quasi li giustifica, non vedendoci chissà quale male nel “moderno” pensiero. Proprio l’aggettivo “moderno”, che fa da contraltare ad “antico”, serve a ribadire, a mostrare che, se vi è il germe di cambiamento, esso è tra gli uomini:

“è un modo de pensà tutto moderno

e in questo nun ce trovo ‘sto gran male.

 

Se er frammassone cià li tre puntini,

er prete cià er treppizzi, e m’hai da ammette

che armeno in questo qui je s’avvicini”.

Dopo la fine della seconda guerra mondiale, con la caduta del Fascismo e la liberazione è tutto un fiorire e rifiorire di attività anche artistiche e culturali. Anche le porte del Tempio si riaprono, ed i Lavori tra le Colonne riprendono con convinzione.

È a questo punto che Trilussa cede alle sollecitazioni degli amici massoni, e chiede l’affiliazione che viene quindi accettata, ma che, purtroppo, non verrà mai messa in pratica ritualmente a causa della morte del poeta. Vi sono tutti gli elementi per pensare che la sua sia stata una richiesta ben cosciente, e sostenuta da una buona cultura in fatto di cose massoniche, e dalla sicurezza della buona fede di chi lo invitò.

Nonostante la mancanza dell’ultima mossa (l’iniziazione), Trilussa, vero e sincero uomo libero per definizione, che di Libertà, Uguaglianza e Fratellanza aveva costellato la sua vita e la sua opera, non può non essere considerato, dunque, un Figlio della Vedova, un vero e proprio ‘iniziato’.

 

Calvino e quel suo Barone rampante-‘Iniziato’

Il Barone rampante e l’aspetto massonico. Scrivere di Italo Calvino (1923 ˗ 1985) è sempre una fatica ingrata. L’estasi delle sue pagine è inversamente proporzionale alla difficoltà del misurarsi col suo genio inarrivabile. Quale scrittore non sogna la sua agilità stilistica, e la sua capacità di aggettivazione accurata e mai pedante? Quale uomo di lettere non brama la sua maestria nell’essere ostico in proposizioni semplici, e facilmente godibile in periodi quasi interminabili? Questa, la sua caratteristica più gustosa: una padronanza invidiabile della parola scritta, grazie alla quale l’autore si misurava col foglio bianco, intagliando fini ghirigori di alto pregio, in una resa tale da far apparire l’impresa quasi facile. Prolifico ed estroso, Calvino ha costellato la letteratura italiana di capolavori di indiscutibile fama, pregni di simboli ed insegnamenti iniziatici affatto trascurabili.

Figlio e nipote di massoni (Libero Muratore era stato suo nonno, Giovanni Bernardo; e la stessa strada la percorsero suo padre, Mario, e suo zio Quirino), Calvino ebbe modo di assorbire l’insegnamento iniziatico di una Massoneria che più volte trasparì dai suoi scritti. Uno dei casi più espliciti, e comunque uno dei più particolari, è il romanzo del 1957: Il barone rampante.

Il Barone rampante: una storia di ribellione tra fantasia e elementi massonici

Parte integrante della trilogia I nostri antenati, insieme con Il visconte dimezzato (del ’52) e Il cavaliere inesistente (del ’59), il romanzo tratta la bislacca esistenza di Cosimo Piovasco di Rondò, giovane barone appartenente ad una nobile famiglia decaduta. La scena è narrata dal suo fratello minore, Biagio, che descrive la rigida famiglia, il paese immaginario della storia (Ombrosa), e tutte le vicende, con accuratezza e generosità di particolari. Tutto comincia quando, con un gesto di ribellione all’inflessibile autorità del padre,  Cosimo (detto anche “Mino”) rifiuta di mangiare un piatto di lumache, allontanandosi, piccato, dal desco paterno, per sparire in cima agli alberi del vasto giardino di casa, e per non rimettere mai più piede a terra. Durante la sua intera vita tra i rami, Mino non si fa mancare alcuna esperienza, ed anzi, la sua esistenza è densa d’avventure d’ogni sorta. S’innamorerà di Ursula, vivrà tra duelli, battute di caccia, beffe, e peripezie, serbando, per la vecchiaia una fine scenografica.

Nella vita del protagonista del Barone rampante (ed in quella del narratore), non manca l’elemento massonico. Ci confida, infatti, Biagio, iniziando il Capitolo XXV, e ragionando delle questioni segrete del fratello:

“Io non so se a quell’epoca già fosse stata fondata a Ombrosa una Loggia di Franchi Muratori: venni iniziato alla Massoneria [. . . ] dopo la campagna napoleonica [. . . ] e non so dire perciò quali siano stati i primi rapporti di mio fratello con la Loggia”.

Da questo punto, il narratore del Barone rampante vola con la memoria ad un particolare episodio: due spagnoli, giunti ad Ombrosa, incrociano la loro strada con quella di Cosimo. Ne nasce un diverbio. Uno dei due sfodera la spada, sfidando a duello il protagonista, e raggiungendolo sugli alberi. Nella foga dell’attimo, Mino apre la sfida al grido massonico di “A Gloria del Grande Architetto dell’Universo”. Il ‘terreno’ dello scontro è scomodo, ma i due tirano di spada senza problemi, e senza reverenza. Dopo un tiro mancino dello spagnolo, a spuntarla è comunque il barone di Rondò, che raggiunge l’avversario al ventre, facendolo rovinare al suolo. Il particolare del motto massonico non sfugge a Biagio, che archivia il discorso asserendo: “Da quel giorno mio fratello ebbe fama generale di frammassone”.

Il capitolo continua con una gustosa digressione sulla fantasiosa Massoneria di Ombrosa, fatta di rituali particolari, e di riunioni tenute all’aperto, celate nel bosco, alla luce di fiaccole e candele, e simboli affatto ortodossi. Una società segreta nella quale Cosimo, secondo le supposizioni di Biagio, sembra quasi inciampare per puro caso:

“È possibile che la Massoneria esistesse già da tempo, all’insaputa di Cosimo, ed egli casualmente una notte, muovendosi per gli alberi del bosco, scoprisse in una radura una riunione d’uomini con strani paramenti [. . . ] e poi intervenisse [. . .] con qualche uscita concertante [. . .] e i Massoni, riconosciuta la sua dottrina, lo facessero entrare nella Loggia, con cariche speciali [. . .]”.

Il narratore tenta, così, di darsi una spiegazione riguardo agli ‘atteggiamenti’ ed alle pieghe poco ortodossi della Massoneria di Ombrosa, il cui fondatore pareva essere un leggendario Maestro detto “Picchio Muratore”, la cui simbologia includeva elementi ch’erano chiari richiami agli alberi (come le pigne e le civette), il cui rituale d’iniziazione prevedeva la salita su un albero e la discesa (bende agli occhi) tramite delle corde appositamente congegnate.

La semplicità della narrazione di Calvino

Semplicità disarmate, dunque, quella con cui Calvino, nel Barone rampante, mette il lettore comune a tu per tu con l’Istituzione Massonica. La semplicità della padronanza, della sicurezza, della confidenza con l’argomento e con l’arte della scrittura. Doti dalle quali nasce un romanzo che cela qualcosa di più che una semplice narrazione di riti, Logge e simboli. Un romanzo che, non a torto, può essere assimilato ad un percorso iniziatico; ad un cammino di crescita interiore del protagonista. Cosimo ˗ come l’iniziato ˗ fa una forte scelta che lo porta a camminare in parallelo coi suoi simili, ma in ambienti e dimensioni decisamente distaccati. Il regno degli alberi è il tempio in cui Mino impara a misurarsi con sé stesso, con l’universo, con quella libertà individuale cara all’ambiente iniziatico, e che è la causa fondamentale per la quale egli decide di abbandonare il restrittivo tetto paterno. Scelta ferma ed irrevocabile, quella di Cosimo, che mantiene i rapporti con gli uomini, ma che resta ad osservare la vita da una prospettiva alternativa, incomprensibile per il profano:

“Come questa passione che Cosimo sempre dimostrò per la vita associata si conciliasse con la sua perpetua fuga dal consorzio civile, non ho mai ben compreso [. . .]”.

E coerente resterà fino in fondo, il protagonista del Barone rampante, quando, alla fine del suo cammino, tacciato di follia, compirà la sua ultima ricerca interiore, anelando ad un’uscita di scena differente da quella prestabilita per l’Uomo, e ascendendo al Cielo non in maniera figurata, ma fisicamente, nell’incomprensione e nell’incredulità generale.

A ricordarlo, una stele nella tomba di famiglia:

Cosimo Piovasco di Rondò – Visse sugli alberi – Amò sempre la terra – Salì in cielo”.

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