‘Il tradimento dei chierici’ di Benda. Quando intellettuale vuol dire cialtrone

La gracilità del pensiero, la sua debolezza, consiste soprattutto nell’acritica uniformità al reale, nella resa incondizionata al sopruso del presente. La sua inanità si palesa col grido strozzato per convenienza e opportunismo, per quello che la vile bruzzaglia chiamerebbe il “tirare a campare”. In questo tempo in cui finanche stringere la mano di un amico è considerato un atto sconveniente, in cui il contagio virale sembra aver avvolto ogni cosa di ombre o da un precoce crepuscolo, l’intellettuale ha adeguato la sua retorica all’innocenza e le sue esibizioni allo spensierato passatempo; lo scienziato ha vestito la livrea del lacchè per fare inchini e salamelecchi in programmi televisivi di terz’ordine e lo scrittore, infine, ha condito delle solite facezie i libercoli che si vanta di presentare a questa o a quell’altra fiera estiva della vacuità.

Il chierico, invece, ossia l’intellettuale, colui che con accanito sprezzo della modernità e disgusto per la gregaria dipendenza dall’accolita dei tromboni, purtroppo appartiene a un evo lontano. Questo guerriero che un tempo si serviva delle asprezze del pensiero come testuggini lanciate contro la mediocrità dell’imbelle marmaglia, oggi, come direbbe Julien Benda, ha tradito il suo mandato e si è seduto alla ricca mensa del compromesso. Il chierico, scriveva Max Weber in La politica come professione,

“[…] era estraneo alla dinamica dei normali interessi politici ed economici e non cadeva nella tentazione di aspirare per sé e per i suoi discendenti a un potere politico autonomo di fronte al signore, come invece avveniva nel caso del vassallo feudale”.

Il chierico, insomma, non lustrava le scarpe ai potenti, né blandiva gli scranni della politica. Egli si piegava, sì, ma soltanto a colpi di frusta o a beveroni di cicuta. Il suo perenne stato di avversione per la mostruosa canea di coloro che si azzannavano per un titolo o una prebenda, lo proteggeva come un’impenetrabile armatura.

L’intellettuale dei nostri tempi, un uomo da corvée dominato da meschine passioni, si concede invece a qualsiasi tribuna o arena in cui, per lo più, ogni amena conversazione sfocia in lite o nel volgare tafferuglio da trivio. Per un vitalizio, una pubblicazione o una cattedra invaderebbe la Polonia.

Dove un tempo Erasmo si difendeva dalle lusinghe dei suoi adulatori con il concedo nulli, il motto che era diventato la sua panoplia, e Michelangelo bruscamente ordinava al papa di uscire dalla Sistina nella quale disturbava il suo lavoro o Spinoza rifiutava con garbato sdegno la cattedra di filosofia offertagli dall’Elettore del Palatinato, questi miserabili figuri non aspettano altro che qualcuno schiocchi le dita per dare prova del loro infimo giullarismo. Uno spettacolo indegno, una mostruosità assoluta.

La vile trahison perpetrata dai chierici che hanno abdicato al loro ruolo di fustigatori di coscienze, di assoluti servitori dell’intelletto e dello spirito, di accusatori dell’ignominia e del sopruso, per sedersi invece dalla parte degli oppressori, dei malfattori, ruffiani e malversatori, sarà ricordata come la pagina più triste di questo periodo di contagiosa ossessione pandemica.

Il loro vergognoso silenzio, la colpevole afasia, l’incomprensibile balbettio, accenderà una luce di lugubre vergogna sui loro pensierini vaccinati, sulle azioni sterilizzate, sui loro libriccini innocui, sulle loro esistenze inutili e parassitarie. L’urlo di quei pochi esempi di resistenza intellettuale, invece, è vox clamantis in deserto.

Intanto, il discorso para-sanitario, come una ciarla, domina le nostre giornate angustiate dai bollettini medici e dai protocolli di sicurezza. Del metodo della scienza, ossia ciò che fece di Cartesio e di Galileo i padri putativi della modernità, si sono perse le tracce. Oggi, così ci viene detto, “della scienza bisogna avere fiducia” perché la sua verità è nei dati, nelle statistiche, nei risultati. Eppure, si dimentica facilmente ciò da cui Benda nel Il tradimento dei chierici ci mise in guardia:

“[…] il valore morale della scienza non è nei risultati, che possono fare il gioco del peggiore immoralismo, ma nel metodo, proprio perché questo insegna l’esercizio della ragione in spregio a ogni interesse pratico”, giacché “[…] la scienza è un valore clericale solo nella misura in cui cerca la verità per se stessa, prescindendo da ogni considerazione pratica”.

 

Vincenzo Liguori

Gianna Manzini: l’intellettuale lirica

La scrittrice toscana Gianna Manzini (Pistoia, 24 marzo 1896 – Roma, 31 agosto 1974), intellettuale raffinata e sensibilissima, è tra le figure più  interessanti nel panorama letterario italiano novecentesco. Autrice di frammenti lirici e sperimentatrice di forme aperte del testo, il suo percorso è caratterizzato da soluzioni originali ed innovative che la pongono al di là delle tendenze letterarie.

L’opera di Gianna Manzini è stata immediatamente apprezzata dalla critica e da grandi intellettuali, in particolare da Giacomo Debenedetti e da Emilio Cecchi, sebbene sia rimasta per troppo tempo confinata all’interno di un pubblico ristretto. Oggi pare che possa finalmente essere riscoperta da una nuova rilettura delle sue opere anche grazie allo straordinario aiuto del suo archivio personale, che dipana nuove prospettive di ricerca  e significati sui suoi testi.

Nata a Pistoia il 24 marzo 1896, da una altolocata famiglia della borghesia locale, i genitori di Gianna dopo diversi anni decidono di separarsi a causa di contrasti tra le idee anarchiche del padre e  quelle  di stampo conservatore della madre. La separazione dei genitori lascia una cicatrice indelebile nell’animo della bambina che con il passare degli anni si acuisce, soprattutto nei riguardi del padre, per il quale nutre del rimorso  per non essergli stata vicino quando, per avere partecipato ad alcune cospirazioni al regime fascista, si ritira in un esilio volontario in un piccolo paese di montagna dove muore nel 1925 in seguito ad una premeditata aggressione fascista.

Nel 1914 si trasferisce con sua madre a Firenze, per completare gli studi, città che farà breccia nel cuore della scrittrice. Si iscrive e frequenta brillantemente i corsi di Letteratura presso l’Università di Firenze, senza sottrarsi al  al vivace dibattito culturale nato tra la fine della Prima guerra mondiale e l’insorgere del Fascismo. Qui conosce Bruno Fallaci, responsabile della terza pagina del quotidiano la Nazione: i due si innamorano e presto convolano a nozze. Il quotidiano nella edizione serale  pubblicherà di li a poco il primo racconto della scrittrice nel quale già è possibile notare  la qualità e le ragioni della sua prosa.

Nel 1928 la Manzini esordisce con  Tempo innamorato, accolto positivamente, come una ventata di novità dalla critica, e anche da scrittori europei, primo fra tutti, Gide. Incomincia a collaborare alla rivista Solaria, e in questo ambiente colto e  sempre attento ai nuovi talenti conosce Prezzolini, De Robertis e il giovane Montale che a proposito del primo libro della Manzini scrive “ha fatto già molto e molto ancora può fare per il romanzo italiano”. Con qiesto romanzo la scrittrice dimostra di avere quel difficile gusto che era connaturato già ad un suo modo scintillante ed intenso di interpretare la realtà: invece di una rappresentazione oggettiva, di una fedele riproduzione ed imitazione di essa, la Manzini ne dà i suoi sottili riflessi, intercettati da una sensibilità inquieta e a tratti perfino morbosa. Non è un caso che l’autrice toscana sia stata definita  da Cecchi “complicata e un pò abbagliante”.

Sul suo gusto, senza dubbio, hanno influito le sollecitazioni della narrativa europea rappresentate soprattutto da Virginia Woolf. Qualche critico si è ricordato anche di Federigo Tozzi; ma tutto quello che in Tozzi era chiuso e odorava  amaramente di terra, nella Manzini si schiarisce, si illumina sotto il segno di un asciutto grafismo stilistico.

La carriera di Gianna Manzini prosegue a gonfie vele: nel 1930 è l’unica donna scelta da Enrico Falqui e da Elio Vittorini per l’antologia Scrittori Nuovi, lascia il marito per trasferirsi a Roma con Falqui, con il quale fonda la rivista Prosa che ospita gli scritti di Virginia Woolf, Thomas Mann, Jean-Paul Sartre e Paul Valéry.
Incomincia per la Manzini a Roma anche una frivola  attività di cronista di moda, prima sul Giornale d’Italia, poi su il settimanale Oggi. Nel 1945 scrive una lettera all’Editore, lettera che segna il punto più alto dei suo lirismo estetico, nel 1953 conosce Pasolini e prepara un nuovo romanzo, La Sparviera che nel 1956 si aggiudica il Premio Viareggio. Il romanzo le cui pagine iniziali sono tra le più belle della letteratura del ‘900, narra della malattia polmonare che la Manzini aveva contratto da bambina e che l’accompagnerà fino alla morte. I fantasmi dell’infanzia sono presenti anche nel suo ultimo romanzo, Ritratto in piedi (1971), con il quale vince il Premio Campiello.

Gianna Manzini frequenta assiduamente il salotto letterario della sua amica pittrice Alis Levi, uno dei salotti letterari più importanti della seconda metà del secolo. In Album di ritratti Mondadori, 1964 la scrittrice dedica all’amica una delle sue pagine migliori.

La personalità della Manzini si è formata in una linea di interiore coerenza espressiva, su una tematica che esplora una zona segreta della nostra anima, in questo senso si può dire che ogni opera della scrittrice toscana sottointenda una sorta di diario intimo che scandaglia la solitudine morale. Fantasia fanciullesca, maturità, sapienti incastri narrativi, folgorazioni impressionistiche consentono al lettore di entrare di sfuggita, quasi come fosse un intruso nel mondo borghese della sua infanzia. Gianna Manzini è “un’artista” intuitiva, non persuasiva; gioca con notazioni di psicologia e biografia, dando vita ad una tecnica sostanzialmente “non narrativa” o meglio una narratività tutta scoperta e spiegata.

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