La Recherche di Proust: una tragedia tra biancospini e cattedrali

Un’opera monumentale, classica e moderna allo stesso tempo, una cattedrale gotica, un capolavoro senza tempo, un’impresa per chi si accinge a leggerla. Stiamo parlando della Recherche, Alla ricerca del tempo perduto scritta tra il 1908 e il 1922 da Marcel Proust. Più di 3.700 pagine nelle quali il grande scrittore francese si propone di ricercare la verità, recuperando il tempo attraverso le celebri intermittenze del cuore, (Joyce parlerebbe di epifanie) ovvero quel risorgere di un ricordo attivato dalla memoria sia volontaria che involontaria, che ci riporta indietro nel tempo, a situazioni vissute.

Particolare importanza assume la vicenda editoriale dell’opera, a riprova della ponderosità del lavoro, della puntigliosità della composizione e delle difficoltà incontrate per la pubblicazione dell’opera.

<<Toccherà mai la superficie della mia piena coscienza quel ricordo, l’attimo antico che l’attrazione di un attimo identico è venuta così di lontano a richiamare, a commuovere, a sollevare, nel più profondo di me stesso?>> (Un amore di Swann)

Dal marzo 1909 i quaderni di appunti di Proust si infittiscono di episodi, abbozzi, ricordi, ritratti di personaggi. Tra l’estate e l’autunno stende le prime versioni di Combray e del Temps retrouvé, cioè dell’inizio e della fine dell’opera; nel 1910 insiste su quella che sarà la conclusione, mentre, il romanzo si espande in un dittico di romanzi, Le temps perdu e Le temps retrouvé, dal titolo complessivo Les intermittences du coeur.

Nel 1913 Proust riesce a far accettare il lavoro all’editore Grasset, dopo la stroncatura di Gide, consulente di uno dei maggiori editori di Parigi, e pubblica a sue spese i primi due tomi dell’opera. Nel 1914 esce Du coté de chez Swann, primo volume dell’opera che avrà come titolo A la recherche du temps perdu. La morte del giovane autista Alfred Agostinelli (che Proust amava) e la guerra, costringono lo scrittore a mutare nuovamente il progetto originario. Da Agostinelli nasce la figura di Albertine, introdotta nel secondo romanzo A l’ombre des jeunes filles en fleur.

Nel 1919 Proust, che è passato all’editore Gallimard, riceve il premio Goncourt mentre la malattia e l’ansia di concludere lo incalzano. Nel 1920 esce la prima parte di Le coté de Guermantes; la seconda, insieme alla prima di Sodome et Gomorre, compare l’anno seguente. Nel 1922 lavora alla Prisonnière, già dattiloscritta, ma il 18 novembre muore per una polmonite. Gli ultimi tre romanzi usciranno postumi: La prisonnière nel 1923, Albertine disparue, che Proust, Le temps retrouvé nel 1927.

La Récherche non è affatto un romanzo autobiografico, (non si deve confondere il narratore con Proust), bensì la storia di una passione, di un amore, bello e struggente, per la letteratura; è la storia di Proust che riversa tutte le sue energie per scrivere il suo capolavoro, la sua tragedia, il suo inferno dantesco immerso tra biancospini, cattedrali e violette avente come sottofondo note di musica classica (efficace mezzo per esprimere l’ineffabile) che cela perversioni ed inquietudini.

Proust interroga le parole, i gesti, le atmosfere, torturandole. Egli attua una violenza (che si esplica quando lo scrittore indugia lungamente sui dettagli, come le passeggiate, sui luoghi, la difficoltà nel prender sonno o quando narra dell’amore delirante tra il geloso Swann e la mondana Odette) nel ricercare la verità che non sempre si nasconde tra le pieghe più sordide della vita. Leggendo Alla ricerca del tempo perduto si può percepire l’animo angosciato ed inquieto di Proust; a tal proposito ha ragione Alessandro Piperno quando sostiene che “la forza rabbiosa di uno scrittore che la tradizione ci consegna è come una sorta di simulacro di fragilità e deliquescenze morali. Invece il vigore muscolare di Proust annienta i suoi esegeti, anche quelli più scaltri, più cinici e nichilisti”.

L’opera presenta un ventaglio ricco di simboli, analogie, metafore e segreti da ricercare. Come ha detto Proust stesso, la Recherche è “una costruzione dogmatica, cioè segue un piano rigoroso e conseguente” e per poterla comprendere nella sua totalità è necessario riassumere “per summa capita” il suo svolgimento, libro per libro.

1 – Du coté de chez Swann (Dalla parte di Swann, alla sua uscita, fu snobbato in Francia e stroncato in Italia, indicato dalla critica come un romanzo d’appendice sulla scia de I misteri di Parigi di Eugene Sue). Il narratore ripensa, insonne, alla propria infanzia. Il ricordo più vivo è quello in cui, durante le vacanze in campagna a Combray, sua madre gli negava il bacio della buona notte, per trattenersi con un ospite, Charles Swann. La realtà di quel mondo, che egli si sforza inutilmente di rievocare, gli sembra perduta. Ma un giorno, assaggiando per caso un biscotto inzuppato nel tè, esso risorge: quel sapore, che da piccolo gli era familiare, gli restituisce le sensazioni, i ricordi, i racconti legati a Combray. La vita abitudinaria del paese era come quella della zia Léonie, ipocondriaca e reclusa volontaria, che dal suo appartamento spiava l’ordine immutabile delle cose. A lei badava Francoise, domestica ora mite e materna, ora spicciativa e crudele. In quella casa, i genitori del narratore accoglievano Swann, ricco israelita e raffinato intenditore d’arte, guardato con sospetto per aver sposato una cocotte (donna di facili costumi), Odette de Crécy. Alla sua tenuta portava una delle strade percorse dal narratore durante le sue passeggiate; l’altra, invece, conduceva al castello dei duchi di Guermantes, che il bambino immaginava circondati di gloria e di poesia.
A dispetto di quello che si credeva a Combray, Swann e i Guermantes facevano parte della stessa alta società parigina. Era stato allontanandosi da questa e frequentando i Verdurin, borghesi rampanti e animatori di un salotto, che Swann aveva conosciuto Odette e, tormentato dalla gelosia, aveva finito per sposarla. Dal matrimonio era nata Gilberte: il narratore ha giocato con lei agli Champs Elisées e, senza confessarglielo, se ne è innamorato.
2 –A l’ombre des jeunes filles en fleur (All’ombra delle fanciulle in fiore). Sono due le scoperte che reggono il “romanzo di formazione” del narratore adolescente: quella dell’arte da un lato, quella della vita mondana e dell’amore dall’altro. A Parigi egli assiste a una recita della celebre attrice Berma ed è presentato allo scrittore che più ammira, Bergotte; ma, in entrambi i casi, la realtà lo delude. A Balbec, sul mare della Normandia, conosce alcuni membri della famiglia Guermantes: la vecchia Madame de Villeparisis, che si lega a sua nonna, Robert de Saint Loup, che diventerà suo intimo amico, e l’altero e bizzarro Barone di Charlus. Ma lo affascina anche la piccola banda di ragazze che scorrazzano per Balbec e, tra queste, Albertine. È di lei che il narratore si innamora ed è lei ad introdurlo presso il pittore Elstir. Questi gli rivela l’esistenza di un’arte incentrata sulla metafora e che modifica la nostra percezione delle cose svelandone il significato segreto.
3 – Le coté de Guermantes (La parte di Guermantes) Tornato a Parigi, dove sua nonna, malata, muore, il narratore alloggia vicino al palazzo dei Guermantes. La corte che egli fa alla duchessa, tra il patetico e il ridicolo, cade nel vuoto; eppure, stringe sempre più i rapporti con la nobile famiglia. Prima è ospite di Saint Loup, poi è invitato ad un ricevimento di Madame de Villeparisis e subisce le strane attenzioni di Charlus, infine è accolto con benevolenza nella stessa cerchia dei duchi. Ma il loro mondo, visto da vicino, perde l’incanto della poesia; e persino la duchessa, ricevendo con incredula superficialità la notizia che Swann le dà di essere malato incurabilmente, svela l’inconsistenza della magia mondana.
4 – Sodoma et Gomorra (Sodoma e Gomorra). Il narratore sorprende Charlus in uno stupefacente dialogo, e ha così la chiave di comportamenti prima incomprensibili: virilismo e isteria nascondono la sua omosessualità. Tornato a Balbec, il narratore vive, a più di un anno di distanza, il dolore per la morte della nonna, che qui lo aveva accompagnato per la prima volta. Stringe la relazione con Albertine, ma ne scopre il lesbismo. Con irrazionale angoscia, decide di portarla a Parigi e di sposarla.
5 – La prisonnière (La prigioniera). La convivenza del narratore con Albertine è, più che amore, reciproca tortura. Ossessionato dalla gelosia, egli tenta di ricostruire il passato di lei, che continuamente gli sfugge. Intanto, dopo la morte di Swann e Bergotte, trova nella musica di Vinteuil un ideale estetico vicino a quello rivelatogli da Elstir. L’arte sembra dunque schiudere quella pacificazione che l’amore nega, e che nega ancor più, con l’improvvisa fuga di Albertine da Parigi.
6 – Albertine disparue (La fugitive) (Albertina sparita. La fuggitiva). Un telegramma informa il narratore che Albertine, caduta da cavallo, è morta. D’ora in poi non gli resterà che tormentarsi nell’impossibile tentativo di ricostruire definitivamente la verità su di lei e, alla fine, dimenticarla. L’oblio è sanzionato da un viaggio a Venezia, mentre il mondo parigino muta e si capovolge. Gilberte Swann sposa Robert de Saint Loup (che, si scoprirà, è segretamente omosessuale), Charlus si umilia per amore di un cinico violinista, Morel: le gerarchie sociali e i miti dell’epoca di Combray stanno crollando.
7 – Le temps retrouvé (Il tempo ritrovato). Siamo nel 1916. Dopo un lungo soggiorno in una clinica, il narratore torna in una Parigi esposta ai bombardamenti tedeschi. Qui ha la rivelazione intera della perversione di Charlus, presto colpito da paralisi. In un ricevimento dai Guermantes ricompare, come in una danza macabra, il mondo della giovinezza del narratore, su cui gravano le ombre della fine. Egli si crede, ormai, incapace di scrivere. Ma in una serie di folgorazioni simili a quelle che gli hanno restituito Combray, il narratore scopre la sua vocazione: fare delle esperienze della sua vita i materiali di un’opera d’arte, e vincere la morte.

Celebre è l’incipit della Rechèrche <<A lungo mi sono coricato di buonora>>, frase che viene ripresa dal protagonista del capolavoro di Sergio Leone, C’era una volta in America. Restando nel campo della settima arte il regista Luchino Visconti avrebbe voluto realizzare un film sulla Récherche, ma di li a poco, mentre stava raccogliendo materiale per il suo lavoro, sarebbe morto.

Volendo attecchire alla psicoanalisi (tendenza abbastanza consolidata) si può considerare La Recherche come un’efficace risposta all’elaborazione di una grande sofferenza, la quale esige una sua giusta dimensione (in quanto malattia) nella psicoanalisi di Freud: lo stesso piacere nel ricordare all’interno di una logica ripartita, sia volontariamente che involontariamente.

Come afferma lo stesso Proust, <<Questa istintiva capacità di far resuscitare i ricordi e le sensazioni più antiche […] nella profondità organica, è divenuta traslucida delle viscere misteriosamente illuminate>>. Le azioni più comuni, i gesti più semplici, sono esaminati in ogni loro sfumatura con mirabile sensibilità e acutezza, e il narratore ci fa capire che tutto è misurato dagli anni e che va verso la morte, motivo per il quale aspiriamo all’eternità.

Tuttavia, mentre Freud lotta contro il tempo per poter affermare il suo valore al mondo, a Proust non interessa il tempo; egli infatti si dedica alla vita mondana, ma anche lui riesce a trovare un modo per recuperarlo, per ritrovarlo, attraverso le intermittenze del cuore. Entrambi, dunque, vogliono vivere davvero il tempo, essendone consapevoli.
Specialmente in Sodoma e Gomorra e in La fuggitiva si percepiscono fortemente l’ineluttabilità dell’oblio e il suo perverso meccanismo che coinvolge non solo il destino dell’uomo ma la Storia stessa, la società e i suoi costumi. La soluzione, sia per il romanziere che per lo psicoanalista è scrivere, sebbene con soluzioni differenti.

Proust non è stato solo il grande interprete dell’interiorità, lo scrittore della memoria; egli ha anche dato un grandioso affresco delle società francese tra Ottocento e Novecento attraverso le vicende di due categorie sociali: l’aristocrazia e la borghesia. Come ha giustamente notato Giacomo Debenedetti, grandissimo estimatore di Proust, <<La Recherche è un’allegoria di quel vivere mondano tipico dei religiosi, ovvero il subire la cronaca e la storia come distruzione del tempo>>. Debenedetti ha fatto da eco all’affermazione emblematica dello stesso Proust secondo il quale si entra in letteratura come si entra in religione.

Lo stile di Proust è caratterizzato da un periodare ampio, ricco di subordinazioni, con continui trapassi verbali, incisi, che evoca le sensazioni e gli stati d’animo più sottili, quasi a cercare incessantemente di catturare la felicità  per dare un senso alla propria esistenza e alla letteratura stessa. Non vi è azione ne La Récherche: Proust è prolisso, ma nessuno come lui al giorno d’oggi è in grado di descrivere la vita quotidiana con la stessa intensità e struggimento.

Dato il desiderio del narratore della Récherche di fare della propria vita un’opera d’arte per vincere la morte, si potrebbe essere portati a pensare, erroneamente, di accostare la figura di Proust a quella di un esteta, di un decadente, come ad esempio D’Annunzio; ma la “bellezza” di Proust si differenzia da quella degli altri “esteti” sia del suo tempo che della precedente generazione: essa non è un modo di possedere, di affermare una trionfale manomissione e manipolazione delle cose; è piuttosto una maniera sofisticata di chiedere scusa alle cose, svelandone il loro segreto.

E l’amore? Come intende l’amore Proust? Anch’esso in maniera tragica? A tal proposito possono esserci ancora una volta d’aiuto le parole di Debenedetti, secondo il quale “Proust identifica subito nel tema dell’amore, la figura più plastica, riconoscibile, umana, di quell’impresa disperata e tormentosa contro l’inviolabile, di quel viaggio lungo itinerari ansiosi e sbagliati alla volta del segreto individuale delle cose e degli uomini, verso l’anima che si occulta e si annuncia dietro la facciata”.

 

Marcel Proust, una vita per la letteratura: la più vera forma di vita

Marcel Proust (Parigi, 10 luglio 1871 – Parigi, 18 novembre 1922) è un nome che evoca un concetto tanto caro a noi esseri umani, il tempo. Tempo che è stato cercato, rincorso, cristallizzato da Proust, uno dei più grandi scrittori che la letteratura abbia mai partorito, che ha vissuto per la letteratura, che l’ha definita la forma più vera di vita. Nessuno come Proust  ha approfondito con tale finezza la psicologia con un grande senso della relatività, una sorta di meccanica quantistica che gli consente di rappresentare a più livelli lo stesso personaggio facendo vivere al lettore un’intensa esperienza conoscitiva, come dimostra il suo capolavoro Alla ricerca del tempo perduto.

Proust nasce  ad Auteil, elegante sobborgo di Parigi  in una famiglia dell’alta borghesia (il padre, Adrien, noto medico, la madre Jeanne Weil, figlia di un agente di cambio israelita), cresce in un quasi morboso attaccamento verso la madre (descritto anche nella sua opera) in un ambiente ovattato dalle più tenere cure da parte della famiglia. Egli è molto legato anche alla nonna materna, Adèle Weil, ed è stata proprio la sua morte, nel 1890, a spingere il romanziere a scrivere la celebre pagina sulle “intermittenze del cuore”, quegli inviti della memorie, quel risorgere di un tempo perduto che ci rende felici in quell’attimo.

Trascorre spesso le estati a Illiers, luogo d’origine della famiglia paterna (la  celebre Combray del romanzo). Nel 1882 comincia a frequentare il liceo Condorcet, dove fa buoni studi e stabilisce solide amicizie con giovani che poi lasceranno un nome nel panorama letterario del loro tempo: Fernand Gregh, Daniel Halévy, Daniel de Flers. Nel 1889 – 90 è ad Orléans per il servizio militare: sono gli anni della sua amicizia affettuosa con Gaston de Caillavet. Tornato a Parigi, frequenta i corsi di Albert Sorel all’Ecole des sciences politiques e quelli di Henri Bergson, che da poco ha pubblicato la sua tesi sui Dati immediati della coscienza, alla Sorbona. Laureato in lettere nel 1892, si reca  spesso, d’estate, sulle spiagge normanne, Trouville e soprattutto Cabourg, che diventerà nel romanzo Balbec.

Inizia negli eleganti e raffinati salotti parigini, la sua attività di scrittore; collabora con giornali come “Le Gaulois” e con riviste come “Le Blanquet” e “La Revue Blanche”, sempre assente dalla Biblioteca Mazarine dove è stato assunto nel 1895 come addetto non retribuito. Proust vive ora la sua scintillante stagione mondana, conosce scrittori dandy, artisti e grandi dame, nobili come Robert de Montesquiou, musicisti come Reynaldo Hahn che metterà in musica alcune sue poesie e diverrà, nel romanzo, l’ispiratore di Vinteuil, il pittore Blanche e l’acquarellista Madeleine Lemaire che illustra il suo primo volume, I piaceri e i giorni, uscito nel 1896.

Avvicina anche Oscar Wilde, di passaggio a Parigi. Di questi anni è anche l’inizio del primo romanzo autobiografico, Jean Santeuil, che uscirà postumo nel 1952. Tra il 1896 e il 1897 uno scrittore decadente ed anch’egli omosessuale come Proust, Jean Lorrain, lo attacca con critiche volgari e allusioni in un paio di articoli e considera I piaceri e i giorni “eleganti e squisiti piccoli nulla, vanità, flirts per procura”. Ne viene fuori un duello alla pistola, per fortuna senza danni. Importanti eventi spingono intanto lo scrittore a una riflessione più approfondita sui grandi temi che già occupano la  sua mente. Nel 1894 scoppia il caso Dreyfus e Proust, diventato sostenitore dell’ufficiale ebreo accusato di tradimento, vive questi eventi con assoluta partecipazione e ne trae nuovi spunti di riflessione etica e socio-politica.

Nel 1900 si reca a Venezia e a Padova dove rimane profondamente colpito dagli affreschi di Giotto nella Cappella degli Scrovegni. Traduce, intanto, alcune opere dell’inglese Ruskin (La Bibbia d’Amiens, Sesamo e i Gigli che usciranno tra il 1904 e il 1906) ed affina il suo gusto estetico. Tra il 1903 e il 1905 muoiono il padre e la madre. Proust vive i due eventi con profonda angoscia, ma trova in essi l’occasione per lasciare spazio ad una più libera manifestazione di sé, il modo di far cadere fra l’altro le ultime remore che finora lo hanno spinto a tener nascosti i suoi costumi omosessuali.

Lottando contro la sua fragile salute, contro gli attacchi d’asma, lo scrittore francese procede all’ elaborazione della sua opera centellinando  le sua forze per portarla a buon fine, rinunciando al ‘mondo’ che amava per non sprecare nemmeno un po’ della sua vitalità, avvalendosi delle sue inquietudini per affinare la conoscenza di se stesso e degli altri. Fino alla morte Proust non vive che per la sua opera, in una triste relegazione. Il racconto è interamente soggettivo e mescola l’autobiografia ai ricordi di un osservatore.

Proust ha dato vita ad un nuovo flusso narrativo rifondando il romanzo su basi diverse rispetto a quelle della tradizione ottocentesca-naturalista. Il romanzo novecentesco disocculta la realtà, mettendo in rilievo la visione onoica e deformata della realtà dei suoi protagonisti. La crisi del Positivismo, la “rivoluzione epistemologica” provocata dal pensiero di Bergson, Nietzsche e Freud, la diffusione di teorie fisiche, come la relatività di Einstein, l’irrompere della concezione dell’inconscio, il crescente senso di disadattamento e di alienazione dell’intellettuale negli anni dell’Imperialismo, della guerra e del dopoguerra, con la sua crisi di identità hanno introdotto nuove tematiche nell’immaginario degli scrittori: la nevrosi in Svevo, la memoria, appunto, in Proust, la malattia in Thomas Mann, la dimensione onirica in Kafka, “l’uomo senza qualità” in Musil, l’inettitudine in Svevo, Tozzi e Pirandello.

Proust è senza dubbio uno dei maggiori rappresentanti del romanzo moderno, in quanto oltre che un autore di crisi è anche un autore in crisi. Irrequieto ed emotivo, Proust, amante del mondo aristocratico, uno snob vittima del suo snobimo e dandismo, affronta temi drammatici in maniera cerimoniosa; come ha giustamente notato Anatole France, Proust <<si diverte a descrivere allo stesso modo lo splendore desolato del sole morente e le vanità irrequiete della sua anima snob>>.

La profonda emotività ed irrequietezza di Proust, non derivano solo dal carattere sensibile dello scrittore, ma hanno radici precise: è bene porre l’attenzione sull’importanza dell’ identità in Proust e più specificamente sul connotato ebraico il quale funge da rivelatore di quell’atteggiamento di sfiducia e di autocritica che spesso sfocia dell’autostroncatura. L’ebraismo, dunque, come ha constatato lo studioso Alessandro Piperno, appare nel mondo proustiano, come “sintomo e sinonimo d’una mancanza ancestrale”, come “mancanza d’abissalità”, di quella “assenza di profondità” di cui i razzisti ariani hanno spesso accusato gli ebrei.

la tomba di Proust

L’ansia di piacere e di essere stimati in effetti costituiscono il marchio del vizio congenito degli ebrei, ma Proust (per metà ebreo e per l’altra cattolico) vuole allontanarsi da questo atteggiamento altrimenti non sarà possibile essere libero e sincero. L’ansia di cui soffre Proust semmai è quella dello scrivere e di voler cogliere ogni singola sfumatura delle cose, nel volter rappresentare la tragedia in luoghi suggestivi e bellissimi. Tuttavia lo scrittore francese ha sempre desiderato di sentirsi pienamente accettato da quella società nella quale invece non lo accolse mai se non in modo superficiale (come la sua famiglia del resto che gli era ostile anche in virtù della salute precaria dello scrittore, dato che soffriva di asma),  facendo ostruzionismo al suo mestiere di scrittore.

Anche la scrittura di Proust risulta indefinibile, incompiuta, che ci svela un Proust fustigatore di atteggiamenti non autentici, che ci lascia scoprire la verità attraverso un’incessante ricerca.

 

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