“Io sono ciò che manca”, una lucida riflessione di V. Magrelli

Io sono ciò che manca
dal mondo in cui vivo,
colui che tra tutti
non incontrerò mai.
Ruotando su me stesso ora coincido
con ciò che mi è sottratto.
Io sono la mia eclissi
la contumacia e la malinconia
l’oggetto geometrico
di cui sempre dovrò fare a meno.

Valerio Magrelli nasce a Roma nel 1957. Laureato in Filosofia, docente di lingua e letteratura francese all’Università di Pisa diviene famoso sia per il suo lavoro di poeta, sia per la sua attività di traduttore (ha tradotto infatti autori come Mallarmè Valèry), curando anche un antologia di Poeti francesi del Novecento. Tra le sue opere poetiche ricordiamo Ora serrata retinae (1980), Nature e venature (1987), Esercizi di tiptologia (1992), Nel condominio di carne (2003), Disturbi del sistema binario (2005). Inoltre Magrelli lavora anche nel campo critico, sono da ricordare: Profilo del Dada (1990) e La casa del pensiero. Introduzione all’opera di Joseph Joubert (1995).

Io sono ciò che manca è una poesia della raccolta Ora serrata retinae, quindi del periodo giovanile dell’autore romano. La raccolta ha richiamato l’attenzione della critica per le sue trovate espressive e tematiche e ha fatto la prima fortuna di Magrelli come poeta; essa si caratterizza per la presenza di contenuti intellettuali, per il lessico scientifico e astratto, per il taglio lucido e razionale che doveva favorire la riflessione e il pensiero. Si può notare inoltre la preponderante presenza di un analisi rigorosa e razionale che quindi limita le compartecipazioni soggettive e sentimentali del poeta, cancellando, o quasi, quella che è la componente lirica della poesia.

La concezione poetica che accompagna questa prima raccolta la ritroviamo anche nella seconda raccolta di Magrelli, Nature e venature. Invece verrà a cambiare nella terza raccolta, Esercizi di tiptologia, dove infatti il linguaggio si allontana dall’ideale di purezza stilistica delle prime due raccolte per impreziosirsi di contaminazioni prosastiche. A uno stile inizialmente geometrico e preciso si va sostituendo uno stile disgregato e frammentario.

La poesia Io sono ciò che manca parla di un vuoto geometrico; nonostante il soggetto “io” venga nominato quasi sempre nella poesia è facile notare che esso non ha alcuna valenza soggettiva e sentimentale, anzi diventa un canale che filtra una realtà oggettiva, ovvero l’impossibilità di comunicare con il vero “me stesso”. L’interpretazione di questa lirica è spinosa e si presta alle più varie interpretazioni, di cui quella proposta è solo una fra le tante.

Io sono ciò che manca
dal mondo in cui vivo

I primi due versi potrebbero essere conciliati in questa espressione: Io sono assente nel mondo in cui io vivo. Tutto questo appare come una profonda contraddizione verbale, come posso io non esistere nella realtà che io stesso creo?

Un’ interpretazione potrebbe essere ottenuta se si sdoppiano i personaggi a cui si rifanno i due “io” e introducendo il concetto di io come volontà: Il primo io è riferito all’oggettività, all’esistenza del proprio corpo e della propria anima, mentre il secondo io  è riferito al motore della propria oggettività e della propria esistenza a volte inconscio, la volontà di esistere, come ci fa capire il fatto che l'”io” non sia dichiarato ma sia sottinteso.

Per fare un esempio pratico: il movimento inconscio di una mano o di uno sguardo palesano il fatto che in quel movimento o in quello sguardo io non esisto, non sono io a compierlo direttamente nella volontà ma che comunque il mio corpo e la mia anima hanno agito.

Di qui l’identificazione del proprio io con l’agente motore, la volontà di esistere, quindi io sono quello che vive mentre l'”io” di io sono ciò che manca si riconosce nell’oggettività di un corpo come un altro o di una persona come le altre, che compie il gesto della mia volontà, del mio vero io. Dunque due realtà inconciliabili, l’una schiava dell’altra.

Un’altra interpretazione potrebbe ottenersi invece conciliando i due io allo stesso individuo: Io sono ciò che manca dal mondo in cui io vivo. “Io” stavolta non significa volontà di esistere, bensì rappresenta proprio l’essere. “Il mio essere è ciò che manca dal mondo in cui il mio essere vive”, dunque si osserva un estraneità totale al mondo e all’esistenza, l’essere individuale non si riconosce nell’esistenza totale e dunque ne riconosce una presa di distanza piuttosto netta.

Colui che tra tutti
non incontrerò mai.

Colui che tra tutti gli altri esseri, la mia volontà di esistere non incontrerà mai come suo pari. La mia volontà non potrà mai incontrare il mio corpo, poiché essa agisce su di esso. La volontà come padrone e l’esistenza come schiavo, diventano due materie inconciliabili. Per fare un esempio pratico, è come uno specchio. “Io” come volontà  vedo nello specchio solo l’immagine di “io” come corpo e anima e non il corpo e l’anima stesso, si tratta quindi di una qualificazione riflettente dell’esistenza. La volontà dunque non incontrerà mai l’esistenza pura.

Una ulteriore interpretazione potrebbe essere la seguente: io non incontrerò mai il mio stesso essere; da qui nasce uno sdoppiamento. L’essere che io sono  non incontrerà mai l’essere che io pratico. L’astrazione dal paradigma unitario di essere è totale. L’essere che esiste come “io” non è l’essere che esiste come “io che vivo”, una contraddizione sostanziale tra ciò che sono e tra ciò che sono in vita, ad accentuare ancora di più l’alienazione dall’esistenza totale, che differenzia l’io personale e l’io nel totale.

Ruotando su me stesso ora coincido
con ciò che mi è sottratto.

L’azione della volontà come agente modificatore dell’esistenza fa sì che io possa riconoscermi proprio come volontà agente quindi io sono quello che crea e modifica il mondo che la mia anima vive e proprio in questo io esisto come essere singolo. Invece l’esistenza perfetta si esprime come connubio tra volontà e azione poiché la mia volontà genera un azione nell’esteriorità ed è proprio questo l’individuo completo, cioè volontà e azione che però mi viene sempre sottratto dal fatto che non possa essere entrambi e mi riconosca ad essere solo una parte.

Io sono la mia eclissi
la contumacia e la malinconia.

Ricordando l’impossibilità di incontrarsi, il vuoto che separa la volontà dell’individuo dal resto del mondo, che è un vuoto fatto di esistenza personale, si ci accorge di essere autolimitanti nell’incontrarsi con sé (“Io sono la mia eclissi”), perciò si avverte tutta  la mancanza tipica della malinconia attraverso il processo della contumacia, ovvero dalla distanza obbligata tra i due “io”.

L’oggetto geometrico
di cui sempre dovrò fare a meno.

l’unione dei due “io” sarebbe l’unione perfetta dell’individuo, l’oggetto geometrico preciso e imperfetto, che però sempre mi mancherà, poiché i due “io” sono parti immancabili di una vita che però non possono conciliarsi, limitati entrambi ed entrambi necessari all’altro.

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