L’oppressione dell’Io in Vuoto di Ilaria Palomba

Pubblicato da Les Flâneurs Edizioni, Vuoto è il nuovo romanzo della pugliese Ilaria Palomba presentato al Premio Strega 2023. Il romanzo si destreggia fra la dimensione onirica e la costante inquietudine che si sussegue, pagina dopo pagina. Una storia in cui aleggia un senso di morte perpetuo e che, tuttavia, induce alle riflessioni più pure e radicate grazie al viaggio nell’inconscio della protagonista. Personaggio principale del libro una donna, Iris Palmieri, poetessa dominata dalla propria vita disordinata e dall’oppressione del suo stesso Io. 

Il contesto in cui Vuoto è ambientato si snoda fra la Puglia e Roma, il tutto nel giro di un anno. Il libro si divide in otto sezioni in cui si evince un certo tipo di continuità fra un capitolo e l’altro, tranne che per l’ultima parte. Un viaggio tra passato, presente e futuro che si sussegue in concatenazioni di eventi fluttuanti, come in una dimensione irreale, che portano la protagonista a sezionare in modo chirurgico la sua psiche, gli avvenimenti del suo passato e le sue emozioni.

Le paure che Iris percepisce appartengono a un episodio mai metabolizzato avvenuto durante la sua adolescenza; rivede le spiagge del Salento e d’un tratto, il suo essere la pone di fronte a una realtà non portata alla luce per troppo tempo.

Quel senso di vuoto, fallimento e solitudine inducono Iris a cercare di colmarlo con ogni mezzo. L’angoscia divorante, nel corso delle pagine, verrà ‘’saziata’’ dalla protagonista attraverso l’uso di droghe, la compulsione a sperimentare ogni tipo di promiscuità e il sesso sfrenato. Emblematica sarà l’amicizia con Giulio, un ragazzo più giovane di lei, con il sogno della letteratura e della fama letteraria: la brama e l’amore verso la poesia, oltre che la spiccata sensibilità del ragazzo, legheranno i due personaggi in un rapporto di tenerezza confidenziale. Ma Giulio, come Iris, ha una sua fragilità: un giorno si toglie la vita gettando la protagonista nella confusione, lei che, come si evince nel corso della lettura,  ha più volte tentato di abbandonarsi alla morte. Come numerose personalità letterarie, Antonia Pozzi e Sylvia Plath,  decedute lasciandosi cullare dalla dolcezza silente della morte, Giulio agisce negando la sua presenza alla Terra; Iris, invece, coltiva un imperante e insistente senso di colpa dopo la dipartita dell’amico.

Il rimpianto di non aver fatto nulla per salvargli la vita si insinua nel suo precario equilibrio interiore. Intanto, anche il matrimonio con Federico vacilla; non le resta che la letteratura, unico punto fermo radicato, sola scaglia luminosa che riluce in un mare di grigiore funereo. L’incontro con una scrittrice, però, la illuminerà sulla vera essenza della passione letteraria portandola a rivalutare quelli che, fino a quel momento, le erano parsi pensieri di salvezza: la scrittura non dona, è chi scrive che deve donare qualcosa alla scrittura.

Nonostante il precario equilibrio, le problematiche e l’inquietudine tangibile che tiene il lettore incollato e sospeso in una dimensione di attesa, Iris continua a scrivere: le verità apprese dalla conversazione con la nota scrittrice non arrestano il suo fluire verso la ricerca attraverso la letteratura. Iris non demorde, si riconosce grazie alla scrittura e si riflette in essa, anche se tutto  sembra dissolversi in problemi più grandi di lei; disguidi con gli editori, progetti naufragati, una carriera che sembra sempre più sfumata e sbiadita, ma che la protagonista non  etichetta come mera sussistenza materiale. Quella di Iris è una scrittura trascendentale, che accarezza i corridoi reconditi della coscienze, solletica dubbi, si pone quesiti, cerca delle risposte: sembra quasi che  ripercorra sì i suoi dolori personali, ma che faccia propri anche i dolori dell’intera società che la trasportano in un circuito di intenso sentire.

Lo strato di pelle di Iris si assottiglia, dandosi alla luce in tutta la sua sensibilità più pura: sente il corpo come una gabbia, analizza e avverte intensamente le brutture in cui la società è immersa, le ingiustizie, la compassione per la gente che vive ai margini, ma soprattutto denuncia una porzione di sistema che minimizza ogni pensiero indipendente, ogni sogno di diversità, incasellandolo nella depressione. Il messaggio veicolato è importante: Ilaria Palomba, attraverso la voce di Iris, esprime una verità tagliente;  se un’idea non appartiene al modello che la società propina come ‘’giusta’’ o ‘’fattibile’’ è subito tacciata come un ‘’disturbo’’, quando invece è solo uno schema differente rispetto ai modelli sociali vigenti. Un’altra peculiarità del libro è il rimando, quasi malinconico, a una dimensione antica che non c’è più: le semplici cittadine costiere, la natura incontaminata  ormai braccata da blocchi di cemento asettico. In questo caso si riferisce alla Puglia, ma qualsiasi lettore che si approccia a questa problematica  condividerà tali riflessioni: terre imbevute di tradizioni ataviche volte, ormai, a una mercificazione stantia che ha eliminato il loro fascino ancestrale.

Questo romanzo dai monologhi interiori affilati, dai flussi di coscienza che giungono al lettore come una lama che scarnifica le coscienze, è a conti fatti  un percorso di continua ricerca che cerca di scovare un’appartenenza o una propria dimensione. Iris arriverà ad accettare quel vuoto che aveva, da sempre, cercato di riempire addirittura introiettandolo con fierezza: il vuoto che tanto aveva combattuto è adesso fregio di ciò che ha contribuito a rendere la protagonista unica, nelle sue immense e caleidoscopiche sfaccettature.

L’accettazione del passato, il trasformarsi della propria interiorità, si lega a una continua impellenza volta alla ruminazione interiore, sempre attiva, che si interroga attraverso quesiti. Sono costanti, infatti, i rimandi filosofici: il senso di morte sembra sedurre Iris e, al contempo, la protagonista sembra quasi bramarla. Il funereo presiede una continuità all’interno dell’opera così come l’angoscia che emerge nel corso della lettura. Sembra, infatti, di percepire alcuni rimandi relativi a Emil Cioran o Nietzsche ma, anche, all’accezione classica del termina ‘’angoscia’’ introdotto per la prima volta da Kierkegaard  (“Il concetto dell’angoscia’’, 1844). Secondo il filosofo danese l’esistenza, di fronte all’uomo, è fonte di innumerevoli possibilità; l’angoscia è il sentimento del possibile in cui si cela l’alternativa che è la morte. A tale situazione di angoscia esistenziale l’uomo rispondere in due modi: con il suicidio,  proprio come accade a Giulio amico di Iris, o con la fede.

Per Kierkegaard, quindi, l’angoscia è intesa come rapporto dell’Io con il mondo; quello stesso tormento che Iris sente, e che chi si cimenta nella lettura percepisce fin dalle prime pagine. Un libro che è un sogno onirico, un estremo viaggio in cui l’inconscio si mescola con il chimerico e  il concreto,  in cui il turbamento e l’irrequietezza si avviluppano all’attenzione del lettore  trasportandolo in una storia surreale, i cui confini fra realtà e sogno si assottigliano e si inglobano, pagina per pagina.

L’Io e mondo nella poesia italiana

Gadda ne “La cognizione del dolore” scrive: “[…] l’io, io!… il più lurido di tutti i pronomi!… I pronomi! Sono i pidocchi del pensiero. Quando il pensiero ha i pidocchi, si gratta come tutti quelli che hanno i pidocchi… e nelle unghie, allora… ci ritrova i pronomi: i pronomi di persona”.

Però Gadda lo fa dire al protagonista, suo alter ego nevrotico, in una crisi parossistica. Non dimentichiamo che Gadda era notoriamente nevrotico, per quanto geniale, e ha messo molto del suo io empirico nevrotico in quel romanzo. Alcuni oggi, che vorrebbero rimuovere l’io lirico, citano questo brano dell’ingegnere.

Inoltre per Gadda tutti i pronomi sono “pidocchi del pensiero”, per cui non ci sarebbe via di uscita. Ogni narrazione sarebbe perciò tarata a priori. Infine queste frasi non vanno decontestualizzate. Estrapolare delle frasi dal loro contesto può essere fuorviante ed indurre in errore. Si tratta pur sempre di un romanzo, La cognizione del dolore, che ha senza ombra di dubbio un suo contenuto di verità, ma che è anche creazione di un mondo fittizio e di personaggi immaginari grotteschi e paradossali.

L’io tra nevrosi e impersonalità

Il problema è quanto della propria nevrosi, delle proprie fratture, dei propri vuoti uno riversi nella propria opera e ciò non è  necessariamente detto che sia un male. Chi impone che l’impersonalità e il distanziamento siano degli obblighi della narrazione? E la narrazione di Gadda può essere forse presa di esempio?

Bisogna sempre stare attenti quando si cita a non farlo a sproposito, a non strumentalizzare la fobia dell’io di Gadda. Qui non si tratta di canoni della letterarietà, ma di una difesa ad oltranza di quel poco che resta del soggetto freudiano (visto e considerato che il soggetto cartesiano è stato distrutto dai maestri del sospetto e del cogito, ergo sum resta solo il coito, ergo sum).

La rimozione dell’io lirico

Ad ogni modo ognuno è sempre circondato da se stesso, come scriveva Sartre, indipendentemente dagli escamotage narrativi. A proposito di io e scrittura, oltre al celebre detto “Conosci te stesso”, Gramsci in un articolo citava Novalis, che a sua volta scriveva: «Il supremo problema della cultura è di impadronirsi del proprio io trascendentale, di essere nello stesso tempo l’io del proprio io. Perciò sorprende poco la mancanza di senso ed intelligenza completa degli altri. Senza una perfetta comprensione di noi, non si potranno veramente conoscere gli altri». Ma può valere anche il contrario.

Insomma sono  necessarie anche l’autoconoscenza, l’autodeterminazione. Per decenni l’intimismo ha fatto da padrone nella cosiddetta poesia lirica. Attualmente in Italia alcuni letterati vogliono rimuovere l‘io lirico e demonizzano l’io in senso lato.

Voler rimuovere l’io lirico significa non poter scrivere in prima persona nelle poesie, essendo costretti a trattare gli altri che possono essere proiezioni del proprio io o riproposizione delle solite figure parentali. Insomma la psicanalisi ci insegna a ragione che è lecito diffidare anche di chi parla troppo degli altri e che talvolta così facendo finisce per deformarli troppo  con la sua lente o per rispecchiare sé stesso.

Poeti introversi ed estroversi

Alcuni sostengono che i poeti contemporanei siano affetti da egolatria. È difficile dire quale sia il discrimine tra normalità e patologia. E poi si pensi al fatto che anche Stendhal scrisse Ricordi di egotismo. La stessa poesia moderna americana è un continuum ai cui poli opposti ci sono la schiva Emily Dickinson e il titanico Walt Whitman.

Da una parte l’introversione e dall’altra l’estroversione. Prima ancora che un atteggiamento intellettuale, filosofico, letterario, conoscitivo scegliere uno o l’altro di questi poli è questione di personalità. Ci sono introversi ed estroversi. Non c’è niente di giusto o sbagliato. Ci sono pro e contro di entrambe le condizioni esistenziali.

Questi due diverse modalità di approcciare la realtà sono frutto prima di tutto questione di personalità. Dalla personalità consegue il modo di interfacciarsi al reale. Come esiste un orientamento sessuale, politico, valoriale esistono anche varie tipologie di personalità. Ma i critici letterari non dovrebbero giudicare il modo in cui gli autori si volgono alla conoscenza.

C’è chi sceglie insomma prevalentemente l’interno e chi l’esterno. In alcuni autori gli altri si riflettono in loro stessi ed in alcuni autori l’io si riflette negli altri. Si tratta pur sempre di rimandi continui, di un perenne gioco di specchi. Partire dagli altri e finire nell’io o viceversa è solo un punto di partenza.

Cosa significa privilegiare l’io

Privilegiare l’io o il mondo non deve essere una posa, basata su premesse teoriche. Esimersi dal tranciare giudizi approssimativi è senza dubbio un atto di onestà intellettuale; è fuori luogo anche il fatto che a seconda dello spirito dei tempi sia di moda quando l’intimismo e quando invece gli altri. Un altro aspetto risibile  è che alcuni autori postulino la rimozione dell’io e poi scrivano dei romanzi o delle raccolte poetiche autobiografiche.

Evidentemente egoriferiti sono sempre gli altri. In questi ultimi anni in poesia nelle polemiche letterarie evidentemente vince chi dà per primo dell’egoriferito all’altro. È una moda come un’altra. Non è frutto di una evoluzione stilistica o letteraria. Non è un punto di arrivo della letteratura come vorrebbero far credere alcuni. Un tempo c’era la vecchia disputa molto divisiva tra realisti ed idealisti.

La conoscenza di se e degli altri

Il vero atteggiamento conoscitivo equilibrato sarebbe trovare un equilibrio tra io e mondo e questo trascendendo i propri tratti di personalità. Ma ciò è quasi impossibile perché l’io o il mondo sono come calamite. C’è chi è attratto dall’uno e chi dall’altro, molto probabilmente più per attitudine che per scelta, più per natura che per cultura.

Un interrogativo che sorge spontaneo è se la propria personalità di base sia un nucleo costante ed inalterabile o se invece oggi come oggi sia modificabile. La cosa si complica perché sembra che le vecchie teorie sulla personalità come i tipi psicologici di Jung siano oggi inadeguate per decifrare il Sé così sfuggente dell’uomo contemporaneo.

Sembra che entrino in gioco in ognuno di noi anche le cosiddette sub-personalità. Anche gli altri sono però sfuggenti. In ogni caso è vero che cresciamo e maturiamo grazie all’immagine che gli altri hanno di noi, ma è altrettanto vero che per conoscere bene gli altri bisogna conoscere bene sé stessi.

È un circolo ermeneutico che dura tutta la vita. Sia la conoscenza di noi stessi che del mondo è sporadica, superficiale, discontinua. Di noi stessi conosciamo la nostra voce interiore, il nostro discorrere tra sé e sé. Degli altri conosciamo una minima parte dei loro comportamenti e delle loro espressioni verbali.

Uno dei problemi filosofici ancora irrisolti è come, nonostante i nostri limiti intrinseci, riusciamo a conoscere tutto quello che conosciamo. La questione dell’io in letteratura è un intreccio inestricabile di letterarietà e psicologia. Non può essere altrimenti e le persone ponderate dovrebbero riconoscerlo senza tacciare chi la pensa diversamente di psicologismo.

Non vi preoccupate comunque poeti introversi ed intimisti: l’io tornerà di nuovo in auge. E poi perché estrovertersi sia necessariamente un bene e concentrarsi su di sé è necessariamente un male? La preghiera, il raccoglimento interiore, la meditazione dovrebbero essere allora un male?

 

Davide Morelli

Perché mente e coscienza non sono un epifenomeno come sosteneva Huxley, ma rispettivamente un tribunale recondito e flusso degli stati vissuti da un Io

È quasi impossibile trovare oggi in un articolo di biologia termini come mente o coscienza, al cui posto leggeremo: neuroni, proteine, sinapsi e così via…, donde d’improvviso – con un salto dalla prosa scientifica alla poesia immaginifica – la mente è spiegata come “ciliegina sulla torta” (E. Boncinelli) o “fischio della locomotiva” (A.G. Cairn-Smith). Il termine ufficiale usato dal conformismo riduzionista è “epifenomeno” (un’invenzione del “mastino di Darwin”, T.H. Huxley), che significa “fenomeno derivante da un altro”: siccome però nel mondo tutti i fenomeni derivano da altri (proprio nello studio delle loro concatenazioni causali consistono le scienze) e “poiché là dove mancano i concetti, s’offre, al momento giusto, una parola” (J.W. von Goethe, “Faust”), il termine serve solo, secondo il diavolo, a celare la mancanza d’ogni concetto a riguardo di cosa sia la mente.

La paroletta di Huxley non è tanto un’ovvietà, ma uno sproposito, perché la mente non è un fenomeno. Fenomeno (dal greco “fàinomai” = mostrarsi) è tutto ciò che ci appare davanti, manifestamente: l’alternarsi del giorno e della notte, le fasi della luna, l’evaporare dell’acqua all’aria e l’abbronzarsi della pelle al sole, lo sbocciare dei fiori a primavera e la caduta delle foglie in autunno, ecc. È un fatto però, che di nessuno la mente ci appare. La mente piuttosto è il tribunale recondito davanti a cui tutti i fenomeni compaiono: i fenomeni sono gli oggetti delle apparizioni, la mente è il soggetto invisibile che li vede e giudica. Tanto è potente e allo stesso tempo misteriosa la caratteristica dell’uomo da far dire ad Euripide: “La mente in ciascuno di noi è un dio”.

La coscienza pure non è un fenomeno, ma consiste nel flusso degli stati vissuti da un Io. Neanche nell’intimità dell’amore appare all’amante la coscienza dell’amata– che cosa le frulli per la testa, le passi nel cuore o ella provi nei sensi –, e l’uno si deve accontentare (dei fenomeni esteriori) delle parole e dei gesti dell’altro. Nello stato detto “autocoscienza” la coscienza appare a sé, non come oggetto esterno, ma ancora come un particolare stato vissuto dall’Io. C’è dell’altro che questi super-semplificatori mostrano d’ignorare. Per loro, le neuroscienze spiegano la mente come un fenomeno della struttura biologica e dell’organizzazione fisiologica del sistema nervoso centrale; i livelli biologici e fisiologici si spiegheranno, “molto presto” annunciano da cent’anni, con reazioni chimiche; e queste, si sa, si spiegano già in fisica con le interazioni delle cortecce elettroniche degli atomi.

La fisica però non si ferma agli atomi e ai quark, ma tira in ballo anche i campi quantistici e l’osservatore. Ogni sistema atomico, infatti, vi è descritto con una distribuzione (questo è un campo) di tutti i valori delle grandezze fisiche e solo l’esecuzione di una prova ne determina i valori attuali – l’autostato, che è relato alla coscienza (collettivamente elaborata) del team controllante l’apparato sperimentale –. Un evento fisico è inseparabile dal campo quantistico in cui è immerso e dall’interferenza dell’osservatore intelligente che, approntandone la preparazione ed osservandone l’evoluzione, lo fa iniziare in un autostato e precipitare infine in un altro. “Non è possibile una formulazione coerente della meccanica quantistica che non faccia riferimento alla coscienza” (E. Wigner, Nobel 1963 per la fisica). Così la mente, declassata dal semplicismo riduzionista a fenomeno secondario delle attività cerebrali, è promossa dalla scienza fondamentale a statuto primario di tutti i fenomeni. Il loro tribunale, appunto. Come avanziamo, allora, nello studio della mente se non con un’introspezione di come l’Io di ognuno appare a Sé?

Che cos’è il mio Io? Qual è il mio nocciolo duro, se c’è, al netto del mio corpo? Sfoglio un album di vecchie foto in bianco e nero e mi vedo a 6 anni nella bottega di papà, che ora non c’è più, in uno scatto fatto da Callisto, il postino di paese; a 7 anni, con la mia bellissima mamma, sul cui viso oggi è scolpito il disincanto: posiamo sorridenti lungo un viale alberato per la gioia di Fai, un eccentrico personaggio locale; ecc., ecc. Non conosco parole per descrivere il flusso nostalgico di tenerissimi ricordi che mi avvolge, stringendomi il cuore, arrossandomi il viso ed inumidendomi gli occhi. Riconosco a fatica vaghi lineamenti di me in quelle foto ingiallite e mi chiedo ancora: in che cosa consiste la sostanza dell’Io, che permea ogni fibra del mio corpo? Essa certo non coincide con i 10^27 atomi di turno che lo compongono: al mio corpo sono affezionato anche nei difetti perché è comunque parte di me, ma non posso identificare una parte di me col mio Io intero. So bene che l’Io dipende in tutto dal corpo, a cominciare dalla sua stessa esistenza. Però, se un organo non vitale mi venisse a mancare, o uno vitale diverso dal cervello mi fosse trapiantato da un donatore, non per ciò ammetterei che non sono più io, anche se non mi riconoscerei identico a prima.

E il cervello? in che rapporto sta con l’Io? Il confronto tra un uomo ed un computer forse mi aiuterà a procedere. Tutto il mio corpo è hardware, compreso il cervello che svolge i due ruoli che nel calcolatore hanno il disco per la conservazione dei dati ed il processore per la loro elaborazione. E cosa corrisponde in me al software, senza cui un computer è più inutile di un ferro vecchio? Il software è una sequenza di operazioni matematiche (infine, un numero), che indica al processore come elaborare i dati salvati nel disco o inseriti dall’esterno. Esso è memorizzato nel disco, o nel cloud che è comunque un server da qualche parte. D’acchito mi verrebbe d’identificare la componente volitiva dell’Io con un software, perché è l’Io che ordina al cervello come elaborare le informazioni conservate nella memoria o che gli stanno provenendo dai sensi. Proseguendo nell’analogia dovrei riconoscere che, come il software d’un pc sta in un disco, così la mia Volontà è basata nell’encefalo. Ma il paragone è miserrimo, perché ogni software è un puro numero: non vive, né sa di essere; non pensa; è stato scritto dall’Io d’un programmatore umano e nelle stesse circostanze ripete le operazioni che gli sono inscritte.

Il mio Io, invece, respira la vita; pensa; pensa di pensare; non è stato programmato (da alcun super-Io) e sa di godere di arbitrio libero, pur se condizionato dal corpo e dall’ambiente. L’Io è vivente, cogitante, autocosciente e dotato di una volontà che avverte l’imperativo morale altro da Sé, mentre nessun software è l’ombra di ciò! La parola che si usa da sempre per denotare l’insieme di quelle facoltà è: anima (dal sanscrito “atman” = soffio vitale). Ecco il nucleo del mio Io dal concepimento: è l’unità indissolubile di un corpo e di un’anima.

Nei primi anni di vita la Volontà della mia anima era scandita esclusivamente dall’istinto alla soddisfazione dei bisogni del corpo, ma col tempo l’interscambio tra il suo mondo interno ed il mondo esterno (il latte materno, l’educazione familiare, il contesto sociale, ecc.) l’ha forgiata in scelte, fatte inizialmente su valori e sensi parziali, che con gli anni sono cresciuti ad una matura, integrale Weltanschauung. Il mio Io è cresciuto sulla spinta di questa Volontà ed oggi gli appartengono la memoria delle cose apprese e delle esperienze fatte ed il bene e il male derivati anche per mia responsabilità alle persone che ho influenzato. Le mie decisioni hanno concorso a costruire l’Universo attuale al posto d’infiniti altri universi potenziali: chi può sapere che cosa di buono il mondo ha perso per i miei errori ed omissioni, e perdonarmi per essi? Ora, durante questa mia auto-analisi, pensiamo che un neuroscienziato abbia osservato con un sistema di sonde tutti i campi e le reazioni chimico-fisiche del mio corpo e dalle loro misure abbia calcolato con un modello matematico i pensieri della mia anima. Ammessa l’omologia della teoria impiegata – ma se ogni traduzione da una lingua all’altra è infedele in significato e stilemi; se la descrizione data dal mio stesso racconto è stata carente, può un numero, qual è la risposta d’un apparato osservativo, rappresentare isomorficamente una catena di pensieri ed emozioni? –, in ogni caso la fisica misurata sul mio corpo non è la stessa cosa dei pensieri vissuti dalla mia anima: ciò che ho vissuto pensando quei pensieri appartiene al mio Io interno ed è altro ontologicamente dalle grandezze fisiche osservate dall’Io (a me esterno) del neurologo.

L’alterità tra stati psichici e grandezze fisiche vale nei due versi e, come vieta il cortocircuito del riduzionismo materialistico, così nega quello inverso del riduzionismo idealistico contemporaneo – della filosofia analitica e del neopositivismo, per intenderci – secondo cui gli oggetti fisici “hanno lo stesso fondamento degli dèi di Omero (W.V. Quine, filosofo ad Harvard), essendo solo i costrutti mentali delle percezioni dimostratisi più utili in ogni epoca, al punto che “noi sappiamo, per dimostrazione, che la Luna non è più là quando non la osserviamo” (N.D. Mermin, fisico alla Cornell). Resta la terza via del buon senso, un realismo che prende atto dell’esistenza sia di oggetti fisici che di stati dell’anima, e della loro alterità irriducibile fatta salva la loro coesistenza nell’essere umano. Io so anche che il mio Soggetto interno è intravisto come oggetto esterno dagli altri Io (quelli delle persone con cui entro in relazione), e viceversa: la coesistenza e l’ambiguità ontologica falsificano il dualismo cartesiano, secondo cui l’alterità implica una radicale separazione (che infine, per il ruolo guida assegnato alla “res cogitans” sulla “res extensa”, si traduce in monismo spiritualistico). Come potrebbe la mia Volontà ordinare al deltoide di sollevare il braccio, se l’anima ed il muscolo appartenessero a mondi disgiunti? Forse inserendo un ponte tra i due, cioè con un terzo mondo, e così via all’infinito?! “Il corpo non è unito in modo accidentale all’anima, perché il più profondo essere dell’anima è lo stesso essere del corpo, e dunque un essere comune ad entrambi” (Tommaso d’Aquino, “Quaestio disputata de anima”). Insomma la realtà di questo mondo è una, una sola, ma è molto diversa da come ce la raccontano i riduzionisti delle due scuole; e la sua trama è molto, molto più complessa di quanto speculino oggi anche i fisici più creativi.

Chi prima delle equazioni di Maxwell (1861) e degli esperimenti di Hertz (1886) avrebbe immaginato la realtà dei campi, quando per i materialisti di allora tutto era solo atomi e moto? Chi prima della sintesi di Einstein (1915), quando spazio e tempo erano universalmente considerati contenitori inerti dei fenomeni (due “forme a priori” della mente, per gli idealisti di allora), avrebbe pensato lo spazio-tempo come una struttura dinamica reale, che ordina alla materia come muoversi ed è da essa ordinata come incurvarsi? Quando ho scritto che l’auto-interazione del campo di Higgs crea il bosone omonimo, un lettore mi ha obiettato: “Ma di che è fatto il campo, se non delle medesime particelle? […] è come se Lei ci dicesse che un oceano interagendo con se stesso determina le molecole di cui è costituito”, testimoniando la persistenza anche in ambienti colti (e religiosi) di un pregiudizio materialistico e meccanicistico, di cui la fisica s’è liberata 150 anni fa. Quando si prenderà atto che l’evidenza dell’esistenza di un oggetto non è data in fisica dalla sua osservabilità (qualcuno ha mai “visto” un quark top?), ma coincide con l’efficacia delle sue proprietà matematiche a predire regolarità di Natura altrimenti giudicate accidentali?

A sciogliere il problema del sinolo dell’Io, di questa unità tanto oggettivamente materiale se vista da fuori quanto soggettivamente mentale se vissuta da dentro, non saranno né la biologia molecolare, né le neuroscienze, e neanche la fisica ultima dell’altisonante “Teoria del Tutto”…, che poi è la geometria delle stringhe e del multiverso, ovvero una cinematica di cordicelle e tamburini vibranti in uno spazio (“bulk”) a 10-11 dimensioni: questo esercizio è condannato fin dall’inizio a fallire il bersaglio, perché carica la complessità dell’essere non sulla struttura matematica degli oggetti (ipoteticamente fondanti il “Tutto” comprensivo della mente), bensì sulla topologia super-dimensionale del bulk che ne ospita i giochi. No, per tentare la scalata alla montagna dell’Io – alla sua parete fenomenica, almeno – ci occorrerà una scoperta altrettanto eversiva di quelle del campo elettromagnetico e della relatività, e più probabilmente un cambio del paradigma epistemologico che superi la “vecchia”, a ciò visibilmente impotente, rivoluzione scientifica.

Giorgio Masiero, fisico.

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