Italo Svevo ‘analizza’ il ministro dell’istruzione Valeria Fedeli dopo che è stata colpita in Parlamento

Svevo: Allora, come si sente?
Fedeli: Mi sembra di vedere cose non vere?
Svevo: Tipo la laurea?
Fedeli: Come scusi?
Svevo: Sa, è tipico, lei ha preso un pugno in faccia.
Fedeli: No, ma la laurea me la sono inventata prima del pungo, non c’entra nulla.
Svevo: Ah ok, quindi era consapevole di inventarsela?
Fedeli: Sì, sì, certo!

 

Svevo: Allora lei sta bene, al massimo soffre di falsità, ma niente di grave per il suo mestiere, la politica, anzi è ottimo.
Fedeli: Grazie, allora posso andare. Non mi prescrive nulla? Non devo prendere nulla?
Svevo: Ma, magari alla fine la laurea se la prenda.
Fedeli: Ah, che ridere dottore… a proposito ma lei è il dottor…?
Svevo: Svevo, Italo Svevo.
Fedeli: Quello che ha scritto… come no, la Coscienza di Svevo, è lei?
Svevo: La coscienza è di Zeno, Svevo sono io, l’autore.
Fedeli: Ah ho capito!
Svevo: Crede? In realtà mi chiamo Aron Hector Schmitz.
Fedeli: Tirolese?
Svevo: Di Trieste.
Fedeli: Si appunto, in Tirolo.

Svevo: “Mamma mia, neanche le elementari ha, altro che laurea”. Comunque qualcosa in realtà gliela prescrivo, un libro.
Fedeli: Sì, mi dica, ma, la prego, non mi faccia leggere quelli dal Fatto Quotidiano, tipo Freud, Marx, Schopenauer, Nietzsche, non li sopporto, sono faziosi.
Svevo: Del fatto quotidiano? Loro!?
Fedeli: Sì, non scrivono sul Fatto?
Svevo: Direi di no, loro mi hanno influenzato molto, più come metodologie che ideologie.
Fedeli: Forse mi confondo.
Svevo: No, non è confusione, mi creda, è ignoranza.
Fedeli: Reversibile dottore?

Svevo: Alla sua età è difficile, ma si legga questo: La coscienza di Zeno.
Fedeli: Lei si crede tanto normale? Tanto superiore a me dottore?
Svevo: Normale? Per nulla! Il diverso, l’ammalato, lo scrittore, sopravvivono al sistema, si ammalano pur di salvare se stessi dall’omologazione, resistono e si salvano, si rendono letterari, vivi. La letteratura è l’unico modo di vivere senza perdersi nella società alienante. Lei non è più diversa, ammalata, lei falsifica un curriculum per diventare senatrice e ministra e non la cacciano dopo che la scoprono, lei è il potere, il sistema, lei non è per nulla malata, per questo forse è perduta.
Fedeli: Sa che c’è dottore, il libro lo leggo, ma lei non mi vedrà più, visto che mi ha detto che sono normale in questo modo.
Svevo: Allora senza saperlo farà come Zeno, che si autoproclama guarito.
Fedeli: Addio!

E invece due giorni dopo…
Fedeli: Dottore, dottore, dottor Zeno!
Svevo: Svevo, ministra, Svevo.
Fedeli: Sì, sì, ho letto il libro.
Svevo: Come si sente?
Fedeli: Vorrei sapere, secondo lei come mai ho mentito nel curriculum?
Svevo: Perché aveva bisogno di sentirsi sana, come scrivo nel romanzo, convincersi di esserlo è l’unico modo per esserlo davvero.
Fedeli: Quindi fingevo con me stessa, ma non è grave!
Svevo: Beh, ha finto anche con milioni di cittadini, è più grave.
Fedeli: E il pugno? Perché mi è arrivato il pugno?
Svevo si avvicina e la colpisce con un pugno fortissimo in faccia.
Fedeli: Perché l’ha fatto?
Svevo: Ah – sospira soddisfatto – ora capisco perché gliel’hanno dato.

Al telefono con Eugenio montale, autore di Un omaggio a Svevo…
Svevo: Eugenio, ciao.
Montale: Ciao Italo, come va?
Svevo: Ho dato un pugno alla Fedeli! Mi sento liberato!
Montale: Sei il solito malato.
Svevo ride: E’ quello che volevo sentirmi dire.

 

 

Svevo e i suoi ultimi anni: un nuovo atteggiamento morale

Nel 1927, licenziando la seconda edizione di Senilità, Italo Svevo scriveva: <<Anch’io, che so ormai che cosa sia una vera senilità, sorrido di aver attribuito ad essa un eccesso in amore>>. Forse, con questo me aculpa, Italo Svevo voleva solo scusarsi di aver mantenuto, anche nella ristampa, un titolo censuratogli dall’amico Larbaud, come fortuito e restiamo stupiti se si pensa che proprio un anno prima, nel 1926, era stata composta la Novella del buon vecchio e della bella fanciulla dove si misura tutto lo scarto la senilità dal punto di vista dello stato morale e quella dell’atto di nascita.

Considerando nell’insieme del loro patetico terzetto, i tre maggiori protagonisti di Svevo, la senilità si può specificare in uno di essi, Emilio Brentani, come un eccesso d’amore, ma si tratta di un eccesso della libidine di vita, contraddetto dall’incapacità di vivere. Tali slanci rientrati, in un uomo ancora giovane portano all’annichilimento sul piano dell’azione, al rimorso su quello morale. Ma nel vecchio le rinunce sono frutti di stagione, in accordo con la natura e alla natura non si vince se non obbedendole e questa obbedienza è qualcosa di molto più attivo della rassegnazione, comporta molto più energia, e restituisce a chi la esercita, una confortante vena di ottimismo. L’ottimismo che Svevo non nascose durante i suoi ultimi anni: ancora un po’ scettico ma sicuramente meno ironico e insidioso rispetto a quello di Zeno.

La vera “senilità” di Svevo

La vera senilità ci offre un nuovo atteggiamento morale di Svevo. A prima vista si stenta a ravvisare nel “buon vecchio” della Novella, il solito protagonista dello scrittore triestino. L’autore stavolta ha confuso l’antico ospite della sua fantasia sotto una pioggia di punti di forza, elargendogli tutti i connotati della felicità: ricco, capace di contentezza e molto disponibile. Risorto dalle cenere di Alfonso Nitti e di Emilio Brentani, l’uomo di Sveva sembra  che sia approdato finalmente a una canuta serenità; è diventato un adattabile e lo si vede anche dal suo aspetto esteriore: veste con accuratezza, è signorile e gradevole, portando con serietà i suoi anni.

La penna di Svevo è diventata più indulgente, e registra gli incanti di quel benessere egoistico ed epicureo che spesso si addice ad un buon vecchio. Adesso Svevo sente venir meno il bisogno di far soffrire il suo personaggio, anzi gli concede molti compensi; il segreto di questo suo buon vecchio sta nel saper alternare la buona regola con le piacevoli infrazioni, cedendo a queste ultime con disincanto. Quando infatti riesce ad invitare in casa sua la bella fanciulla che conduceva la tramvia, con la scusa di aiutarla a trovarsi un impiego più conveniente, il buon vecchio crede al pretesto filantropico nello stesso modo in cui crede ai suoi fragili proponimenti di rispettare la ragazza e inganna il tempo riempendolo di considerazioni morali.

Sembra proprio che questo vecchio protagonista di Svevo sisia dimenticato di essere stato, un tempo, il protagonista di Una vita, Senilità e della Coscienza di Zeno. Ma come giudica l’autore il suo personaggio? C’è indubbiamente una venatura d’ironia nella sua bonarietà; il suo giudizio morale è implicita nell’intelligenza che ha di lui: Svevo giudica il vecchio, rappresentando come naturali e inevitabili tutti i suoi moti ed è ovvio che patisca lacune somiglianti a quelle di Zeno ma bisogna far attenzione all’ultima svolta che riserba la novella. Il giorno in cui un attacco di cuore gli toglie il piacere di amare, finiscono col tornargli utili anche quei dilemmi e considerazoni morali che prima aveva tenuto poco in considerazione. Alla luce di questi principi, il vecchio mette mano ad un trattato sui rapporti ideali tra vecchi e giovani; si mette a scrivere. Ma il trattato si ferma alla parte negativa, infatti nel momento in cui si dovrebbe affrontare la parte positiva, ecco che il buon vecchio è trovato stecchito “con la penna in bocca sulla quale era passato l’ultimo anelito suo”.

In questa novella, Svevo rovescia l’ordne della forze in gioco, capovolgendo l’effetto dinamico: il vecchio ora dventa scrittore solo dopo la crisi, la letteratura è la sua banchina di approdo ela morale un conforto. Dentro il semplice disegno di novelle come quella del Buon vecchio o del Vino generoso, Svevo trova un argine per riordinare una folta materia di resipiscenze fisiche e morali, nausee, terrori e presagi di morte, meditazioni.

Svevo e il conforto della morale: Una burla riuscita e Il Vecchione

Persino Una burla riuscita accusa una scissura tra la prima e la seconda parte. In quest’ultima la beffa atroce giocata alle superstiti ambizioni letterarie del povero Mario Samigli, impronta il suo moto al moto delle vicende, dei casi e dei personaggi che gesticolano nei loro indaffarati andirivieni. Mario riflette sulla vita e trova i pretesti delle constatazioni morali. Messa a contatto con la favola Una Madre, l’introduzione della Burla si illumina e finisce con l’apparire anch’essa un frammento di diario nel quale Svevo, attraverso una terza persona poco meno trasparente del buon vecchio, descrive le intime vicende che l’hanno convinto a farsi scrittore di apologhi.

Del romanzo Il Vecchione, invece, iniziato da Svevo negli ultimi mesi della sua vita, con l’intento di proseguire la Coscienza di Zeno, ci è giunta solo l’introduzione. I motivi ideali che mozzano Il Vecchione sono gli stessi Svevo aveva divinati, quasi con la lucidità di un presentimento, quando aveva deciso che la morte “stecchisse” il buon vecchio alle soglie del suo utopistico trattato. Potremmo definire Il Vecchione il trattato del buon vecchio di Italo Svevo. All’apparire di una fanciulla che ha tagliato la strada alla sua automobile, il Vecchione si sente aggredito ancora una volta dagli stimoli della gioventù. Se non si ritrovasse affianco, che lo richama all’ordine e alla realtà, l’ironia della moglie, lui crederebbe a queste reviviscenze. Cercherà d risalire e fissare il tempo, descrivendolo, cercando, attraverso delle virtù, di rendere viva e cosciente l’inerzia della vecchiaia.

 

Bibliografia: G. Debenedetti, Saggi critici, Seconda Serie.

“La coscienza di Zeno”: la malattia come punto di forza?

<<Tutto ciò giaceva nella mia coscienza a portata di mano. Risorge solo ora perché non sapevo prima che potesse avere importanza. Ecco che ho registrata l’origine della sozza abitudine e (chissà?) forse ne sono già guarito. Perciò, per provare, accendo un’ultima sigaretta e forse la getterò via subito, disgustato>>. Il romanzo “La coscienza di Zeno” di Ettore Schmitz, in arte Italo Svevo, pubblicato nel 1923 a Trieste dall’editore Cappelli di Bologna, assurge il romanzo italiano a concezioni e dimensioni europee. La coscienza di Zeno segna l’esordio della psicoanalisi, quella dottrina filosofica (clinica e teraupetica) che più influenzerà il Novecento nella narrativa italiana.

Il diario si compone di tre parti contrassegnate dalle date di tre giorni distinti negli anni di guerra 1915-1916. Nella prefazione del libro il sedicente psicoanalista Dottor S. dichiara di voler pubblicare “per vendetta” alcune memorie, redatte in forma autobiografica di un suo paziente, Zeno Cosini (rivoltosi a lui per guarire dal vizio del fumo e facilitare il processo di guarigione), che in realtà si è sottratto alla cura. Gli appunti dell’ex-paziente costituiscono il contenuto del libro, dunque l’unica voce narrante.

Nel preambolo Zeno spiega la sua difficoltà nel “vedere” la propria infanzia e ogni volta che prova ad abbandonarsi alla memoria, cade in un sonno profondo. La narrazione non offre la cronologica, lineare successione degli avvenimenti, ma segue il filo della memoria. Oltre l’inettitudine, vizio che caratterizza il personaggio, l’altro problema su cui ha effettivamente inizio il romanzo è appunto il vizio del fumo. Egli  rievoca le prime esperienze con i sigari lasciati per casa dal padre e i vari tentativi messi in atto (falliti) per liberarsene, non facendo altro che confermare quanto in realtà sia accanito per la sua “ultima sigaretta”, dimostrandosi a tratti addirittura nevrotico. Attraverso i ricordi, si giunge poi ad un delicato tema: il rapporto conflittuale col padre, basato su incomprensioni e silenzi.

Altri temi motivo di analisi ne La coscienza di Zeno sono: il suo matrimonio con Augusta Malfenti (in realtà inizialmente innamorato della sorella Ada, che sposerà invece il suo nemico Guido Speier); il conflittuale rapporto con la sfera femminile, la sua sindrome Edipica e la ricerca per l’amante, come Carla Gerco (giovane pianista realmente innamorata di Zeno che non vuole mettere però a repentaglio la sua storia coniugale); e infine il rapporto con Guido Speier con cui collabora per mettere in piedi un’azienda, ma in realtà è solo un’occasione per dimostrare la sua superiorità nei confronti del rivale d’amore che ha sposato Ada. Nelle riflessioni finali Zeno si sente guarito, riuscendo ormai a prendere coscienza della sua personalità ed accettare i propri limiti, fino a sfociare in amare considerazioni sull’umanità.

I fatti della vita del protagonista de La coscienza di Zeno sono giudicati dallo stesso, secondo prospettive, modificazioni e ripensamenti che variano nel tempo. Dominano l’introspezione e l’analisi psicologica, mentre la soggettività e l’interiorità prevalgono sull’oggettività. Nel monologo interiore condotto da Zeno si avverte l’influenza della narrativa di James Joyce e del suo “flusso di coscienza”. Svevo, d’altronde, conobbe personalmente a Trieste lo scrittore irlandese.

Lo scrittore fa sì che la sola voce che il lettore immagini di ascoltare sia solo quella di Zeno attraverso le sue confessione, delle quali però non ci si può  fidare.

 Per quanto riguarda la cronologia, i fatti non secondo uno schema lineare e odinato: molto spessp  il passato si confonde con il presente formando un unico tempo che non si puà dividere. Il risultato, che rappresenta una novità letteraria, è  definito da Svevo «tempo misto».

 Zeno, come Nitti e Brentani è scisso, scontento, arrendevole, ma sembra essere più maturo e consapevole. La sua forza rispetto a quelli che non lo sono, è proprio quella di non vivere nella certezza  che potrebbe crollare da un momento all’altro, ma di mettersi sempre in discussione, grazie alla nevrosi. Questo fa la differenza, secondo Svevo, tra i “sani” e i “malati”.

Naturalmente, oltre agli echi della teoria darwiniana applicata alla società e della noluntas di Schopenhauer, si avvertono nel romanzo gli influssi delle teorie di Sigmund Freud e della sua psicoanalisi, che proprio nella Trieste del tempo di Svevo conobbe un terreno di coltura favorevole.

La prosa risulta tutt’altro che accattivante per il lettore, tanto da far definire alcuni“La coscienza di Zeno” un libro noioso ma che induce a riflettere, e numerosi sono i richiami alla lingua tedesca, oltre a termini tecnici e burocratici.

Ma la riflessione che viene da porci in riferimento a La coscienza di Zeno è la seguente: davvero la malattia, il disagio, la nevrosi, possono rappresentare un punto di forza, una nuova occasione, un modo di essere intellettualmente diversi dagli altri? In un certo senso la malattia mentale, pur facendoci soffrire, ci fa sentire cose che da “sani” non sentiremmo, ci rende più sensibili, e più profondi?

Fa riflettere anche il finale, terribilmente vero ed inquietante ma forse non così tragico come potrebbe sembrare.

“Una vita”: storia di un inetto

Italo Svevo

“Una vita” è il primo romanzo di Italo Svevo, pubblicato nel 1892 dall’editore Vram, inizialmente passato inosservato nel panorama letterario italiano forse perchè inizialmente  recava il titolo di “Un inetto”, per sottolineare meglio la psicologia del personaggio principale, oltre al pessimismo dello scrittore. Rifiutato dall’editore, Svevo pensa di modificarne il titolo richiamando quello  di un noto romanzo di Guy de Maupassant: “Une vie”.

Protagonista del romanzo è Alfonso Nitti, giovane intellettuale con aspirazioni letterarie, che trasferitosi a Trieste, trova impiego presso la banca Maller. Ricevuto successivamente un invito per partecipare al salotto letterario riunitosi in casa Maller e  guidato appunto dalla figlia del banchiere, Annetta, Alfonso pensa finalmente di poter mostrare le sue ambizioni ed elevarsi socialmente. Inizia una relazione amorosa con Annetta che si rivela una donna capricciosa che in parte ostacola la grande voglia di riconoscimento artistico del protagonista. Giunto però al momento centrale, il matrimonio con Annetta, Alfonso scappa per assistere alla madre malata e in parte fuggire a questa nuova vita e ritornare alla sua speculazione interiore. Quando Alfonso ritorna a Trieste, scopre ormai una situazione ben diversa da quella che pensava: Annetta sta per sposare un cugino. Alfonso chiede così di poterla incontrare e ricevere qualche chiarimento, ma all’appuntamento si presenta il fratello che lo sfida a duello. Ormai vittima della sua inettitudine, si suicida.

Come sottolineato inizialmente, nel romanzo la figura centrale che poi va a caratterizzare anche i romanzi successivi di Svevo, è l’inetto, colui che è  incapace di vivere con gli altri, dominato da un costante senso di inadeguatezza e che si mostra paralizzato al momento di compiere scelte importanti.

Svevo ha dichiarato apertamente di essere stato influenzato nella stesura del romanzo da A. Schopenhauer; infatti ritorna spesso nel romanzo il motivo della volontà individuale e della negatività della vita sociale. Sono le persone, non i fatti ad essere enigmatici secondo Svevo, imprigionate nella loro incapacità di maturare, di uscire dal loro isolamento borghese, soffocate dalla società. I protagonisti dei romanzi sveviani sono degli antieroi, resi ancori più tragici dalla squallore e dal grigiume dell’ambiente in cui sono immersi (Trieste infatti, che in quegli anni viveva una straordinaria fioritura intellettuale, è ridotta ad una cupa e uggiosa città, come l’animo di Nitti).

Svevo in questo suo romanzo rigoroso e meccanico, è bravissimo ed acuto ad intrecciare i motivi sociali con quelli psicologici, e sebbene, il romanzo risenta di una certa rigidità dovuta probabilmente alla mancanza di padronanza da parte dello scrittore nato ai confini della Slovenia, della lingua italiana è un chiaro esempio di opera letteraria d’avanguardia, in quanto si allontana dai canoni naturalistici ottocenteschi per indirizzare la propria attenzione verso la coscienza e i suoi meccanismi.

Una vita è in sintesi, la storia di un uomo dentro se stesso, continuamente assorto nel flusso delle proprie cadenze sensibili, di un mondo sociale che soffoca, di una solitudine che al contempo gli fa comodo ma gli arreca danno. Il vivere è un peso da dividere con gli altri, in una società malata che detta mode e desideri, mentre nulla calma lo spirito degli inetti. Alfonso è un uomo ricettivo che avverte la necessità di sopportare la vita di banca che lo assilla; è una figura paradossale e commovente che si illude a rincorrere sogni che lo salveranno dentro ingranaggi micidiali. In questo senso anche la seduzione, non basta più, Annetta è lo specchio di un mondo in cui Alfonso non sa stare.

Questo primo romanzo di Italo Svevo forse non è ai livelli di Senilità e de La Coscienza di Zeno, ma è comunque un’opera interessante in quanto ci mostra come lo scrittore intende discostarsi dal naturalismo francese e dal verismo, anche se non sa ancora bene quale stile adottare. Non è più un realista, ma sembra temere di addentrarsi in un territorio meno conosciuto. È importante sottolineare come in Una vita si trovino rade descrizioni degli ambienti e dei personaggi, solo sommarie indicazioni su tempi e luoghi e la trama è scarna, costellata dai soliloqui e dai pensieri del protagonista per il quale Svevo non mostra alcun pietismo.

 

Federigo Tozzi: il “disoccultore” della realtà

Federigo Tozzi (Siena, 1 gennaio 1883- Roma, 21 marzo -1920) nasce da una trovatella e Ghigo (soprannome di Federigo), un uomo violento pronto ad esibire il proprio potere sino ad imporre il proprio nome al figlio, quasi a stabilire il proprio dominio su di lui. La madre, donna debole, non riesce a opporsi ai tradimenti del marito e alle violenze contro il figlio.

Federigo Tozzi sin da giovane si opporrà al padre rifiutando di occuparsi della trattoria e dei poderi di famiglia. È indisciplinato e frequenta diverse scuole senza successo. Durante la continua ricerca di sé, nel 1900 si scrive al partito socialista pur dichiarando di essere anarchico. È utile fare un appunto sul concerto di anarchia per Tozzi, poiché egli non crede nel termine come concetto politico, bensì come una condizione dell’uomo cui è arrivato. Egli raggiunge tale concezione in opposizione alla censura del padre, attraverso un evidente complesso edipico non risolto e grazie agli studi letterari. In questo periodo legge Poe e Joyce, nel pieno della sua passione per la psicologia. Intanto una malattia venerea lo costringe all’isolamento che culminerà con una conversione religiosa iniziando a scrivere poesie aforismi e racconti.

Alla morte del padre eredita i poderi e la trattoria che non riesce ad amministrare; da questo materiale trae il romanzo “Il Podere”. La sua scrittura è inizialmente influenzata da D’annunzio e Nietzsche. Il 1913 è l’anno della svolta, poiché si libera dall’influenza dannunziana e fonda la rivista “la Torre” ispirata al cattolicesimo e al sogno del potere assoluto del papa.

Dal 1914 si trasferisce a Roma frequentando Pirandello con cui condivide l’impegno di fondare la narrativa su basi nuove e non più tradizionali. La poetica di Tozzi emerge in particolare dal suo articolo “come leggo io”. Essa è fondata sullo svuotamento della trama tradizionale: apparentemente Tozzi lascia la struttura tradizionale della letteratura (impalcatura) che però è svuotata dall’interno. Trae spunto dal flusso di coscienza di Joyce ma, proprio perché mantiene la struttura tradizionale del romanzo, se ne differenzia.

Il punto di vista narrativo è tutto calato nella dimensione onirica-grottesca e deforme, tanto da paragonare Tozzi a Kafka.

È importante specificare che il cattolicesimo di Tozzi ha come Dio un padre persecutore, identificabile con la figura del padre biografico. La vita resta incomprensibile e va accettata dall’uomo che ha nella propria anima questo Dio. Lo scrittore toscano vede nell’anima sia la manifestazione del sentimento religioso sia la sede dell’inconscio per cui la scrittura psicologica è sempre scrittura religiosa. Dunque se il mondo è per Tozzi un mistero egli lo rappresenta come tale, anche se la materia narrativa è quella dei romanzi veristi. Il podere, infatti, richiama Verga.

L’autore rappresenta un precursore del naturalismo che non si ferma alla spiegazione oggettiva del reale ma ne dà una propria, deformante e grottesca. La sua cultura psicologica non si rifà a Freud ma solo a Joyce, il quale sollecita Tozzi a registrare, ma non a spiegare la psiche. È per questo che lo scrittore  è estraneo alla scrittura ironica e razionale di Svevo, al quale però si avvicina per la sua polemica contro i “frammentisti vociani” e il tentativo di ricostruire i generi da loro abbandonati: la novella e il romanzo. La sua funzione storica è stata appunto quella di rifondare il romanzo e tra gli autori della sua generazione è stato l’unico ad avvicinarsi a Svevo e Pirandello.In Federigo Tozzi la pressione dell’inconscio, superando la censurare, crea angoscia, si potrebbe dire che dall’impossibilità di mostrare certi contenuti e la volontà di farlo, nasce una formazione di compromesso rinvenibile nelle rappresentazioni dei personaggi. Per questo i personaggi tozziani risultano “brutti” e non tanto per la conferma di una diagnosi clinica o di un giudizio morale del narratore, come avveniva per la narrativa naturalistica. In Tozzi i personaggi sono brutti indipendentemente dal giudizio dell’autore su di loro.

La finalità del romanzo di Federigo Tozzi è divenuta quella di “disoccultare un oltre”, mostrando sulle facce dei personaggi l’angoscia dettata dall’inconscio. È  estremamente utile concludere con la celebre citazione debenedettiana su Tozzi. Il critico afferma che <<il naturalismo narra in quanto spiega, Tozzi narra in quanto non può spiegare>>.

Romanzi

Con gli occhi chiusi

“Con gli occhi chiusi” (1919) è la storia di Pietro, figlio di Domenico, un padre dispotico che cerca di imporre al figlio il lavoro nel podere di famiglia. La madre di Pietro è una donna mite, che non riesce a ribellarsi alla durezza del marito. La storia si sviluppa prevalentemente nel podere di Poggio a Meli, dove Pietro si innamora di una giovane contadina di nome Ghìsola. La relazione di Pietro con Ghìsola non è accettata dal padre, che con la sua sola presenza riesce a inibire i due. La relazione tra i due giovani, in realtà non si consuma, poiché Pietro scopre la vera natura di Ghìsola. “Con gli occhi chiusi” è il romanzo che rappresenta maggiormente lo svuotamento dell’impalcatura tradizionale del romanzo, riempita questa volta da contenuti apparentemente dislocati tra loro, che in realtà rappresentano un unico filo conduttore: l’inconscio.

Tre croci

Tre croci (1918)

È la storia dei tre fratelli Gambi: Giulio, che possiede una libreria, Niccolò, che traffica oggetti falsi di antiquariato, Enrico che lavora come rilegatore. I tre fratelli cadono in rovina, dopo aver vissuto un breve periodo di benessere economico, grazie ad un lascito paterno. Il declino economico avviene a causa della falsificazione su tre cambiali della firma del cavaliere Orazio Nicchioli, il quale si era  proposto come garante solo per una cambiale. L’imbroglio viene svelato dalla banca e Giulio dalla vergogna si suicida in libreria. Niccolò morirà dopo poco a causa della gotta, mentre Enrico morirà pazzo in una clinica.

Il Podere

Il Podere (1921)

Remigio Selmi è il figlio del proprietario del podere, che decide di non occuparsi della proprietà di famiglia, a causa dei rapporti conflittuali con il padre, e accetta un lavoro nelle ferrovie. La sua vita cambia in frette a causa della morte del padre, che di fatto consegna il podere di famiglia nelle sue mani. Totalmente incapace di gestire il podere e i rapporti con i contadini, Remigio inevitabilmente porta il podere alla rovina. Berto, un contadino al culmine della sua ira nei confronti di Remigio lo uccide.

È evidente che i tre maggiori romanzi di Federigo Tozzi abbiano come spunto di analisi la biografia dell’autore.

Italo Svevo, tra sospetto e realtà

Italo Svevo  (Trieste, 19 dicembre 1861 – Motta di Livenza, 13 settembre 1928)   nasce  in un’agiata famiglia ebrea, vive a Trieste, crocevia culturale, che dà all’autore la possibilità di formarsi con i grandi maestri del sospetto: Schopenauer, Nietzsche e Freud. Lo pseudonimo stesso di Ettore Shmitz, ovvero Italo Svevo, rivela la duplicità culturale dello scrittore: per metà italiano e per metà tedesco. Egli vive a cavallo tra la fine della grande tradizione ottocentesca e l’affermazione della psicoanalisi e dello studio sull’inconscio: non si crede più nella realtà, dunque si inizia a sospettare il mondo e l’uomo. Sono gli stessi anni in cui Lacan parla dell’inconscio come linguaggio. Non esiste più una sola verità cui credere e la fiducia nella scrittura inizia a vacillare. Possiamo distinguere nella sua vita e nella sua attività letteraria tre fasi:

Italo Svevo: giovinezza e formazione letteraria

Nel 1880 in seguito ai dissesti finanziari del padre, Italo Svevo è costretto ad impiegarsi in una banca di Trieste. Il suo interesse letterario lo porta a leggere i romanzi francesi (Balzac e Zola) e i classici italiani (da Boccaccio a Guicciardini). In questo periodo ha una relazione con Giuseppina Zergol (l’Angiolina di “Senilità”). Alla morte del fratello nel 1886 non si allontana dagli interessi letterari e lavora a un romanzo intitolato dapprima “Un inetto”, poi “Una vita” (1892). Alla morte del padre, incontra la cugina Livia Veneziani, che sposerà quattro anni dopo: figlia di un grande industriale, che dirige una fabbrica di vernici per navi. Livia appartiene a quella borghesia solida e ricca di fine 800, classe sociale a cui Svevo sente di non appartenere. Da qui, si fa forte la consapevolezza della distanza culturale che intercorre tra lui e la moglie che resta ignara di tali inquietudini.

Nel 1898 Italo Svevo pubblica a puntate sullIndipendente” il suo secondo romanzo “Senilità”, ma il matrimonio con Livia sembra destinato ad allontanarlo dalla letteratura. Nel 1889 entra a far parte della ditta di famiglia annunciando solennemente il proposito di abbandonare la letteratura, impegnato com’era nell’attività industriale, che lo porta sino in Inghilterra dove conosce James Joyce, di cui diventa un amico intimo.

“Una vita” (1892): protagonista è l’impiegato Alfonso Nitti, che si sente diverso dai sui contemporanei e vorrebbe apparire superiore dato che legge  il latino e ama le poesie. Egli invece di perseguire la funzione dell’uomo intellettuale (idea ormai decaduta) è costretto a fare il copista in una banca, con mansioni ripetitive e automatiche. Volenteroso di un riscatto sociale decide di sedurre la figlia del padrone della banca, anche lei fervida lettrice. Ma a questo punto, il meccanismo dell’affermazione sociale s’inceppa, perché il protagonista è un inetto, incapace di approfittare delle situazioni favorevoli. Preso da un’inspiegabile paura, senza avvertire Annetta, scappa dalla madre (che trova morta), pur essendo consapevole del fatto che a causa della sua fuga e del suo silenzio perderà la donna amata. Annetta, infatti, sposa Macario, un giovane brillante e disinvolto, rivale di Alfonso Nitti. Il protagonista, invano, cerca di riallacciare i rapporti con la donna, scrivendole una lettera che è interpretata dai suoi familiari come un tentativo di ricatto.

Il fratello di Annetta decide di sfidare Alfonso a duello, ma lui, rifiuta la lotta, preferendo il suicidio. In questo primo romanzo sveviano manca del tutto la componente estetica e decadente di fine 800, tipicamente dannunziana. Svevo appare come un moralista senza una morale, ed è completamente assente un’ideologia precostituita.

“Senilità” (1898): il protagonista Emilio Brentani pur essendo un letterato come Alfonso Nitti, non si oppone alla “normalità”, ma accetta la sua condizione di borghese. Egli è consapevole di vivere in un conflitto che non è più tra l’io e la società, come in “Una Vita”, bensì tra desiderio e repressione. È presente una lotta che si svolge tutta all’interno del personaggio il quale, trovandosi dinanzi ad una scelta, finisce per piegarsi sulla repressione del proprio piacere. Emilio Brentani trascorre un’esistenza senile, opaca e grigia. Sogna però un’avventura “facile e breve” come quelle di cui è esperto l’amico Stefano Balli, scultore fallito ma dongiovanni fortunato. Quando Emilio conosce Angiolina, una bella popolana, sembra che la vita gli conceda finalmente tale possibilità. Finisce per idealizzare la donna e quando si rende conto che la ragazza in realtà non ha nulla di angelico, gli appare solo come rozza e volgare. Tenta invano di lasciarla ma non riesce più a fare a meno della sua giovinezza. Angiolina s’innamora di Balli, il quale amore è corrisposto. Emilio decide per questo di allontanare l’amico dalla sua casa, e Amalia, sorella di Emilio travolta dal dispiacere ricorre all’etere, contraendo una grave polmonite.

Emilio decide di abbandonare anche Angiolina, e si troverà solo senza le due donne: si chiude in un’ermetica senilità dalla quale non è mai uscito per davvero. Emilio è privo di coraggio e decisione, l’unico modo per sconfiggere la senilità sarebbe stato mettere in discussione la propria vita normale e piatta, cosa che non riesce a fare. Avverte la spinta dell’Eros, ma vorrebbe renderlo disciplinato e stabile. Il romanzo è costruito su un quadrilatero perfetto di personaggi: da un lato due uomini contrapposti: Balli ed Emilio; dall’altro due donne altrettanto contrapposte: Angioina e Amalia, che rispecchia mali e debolezze del fratello.

Il silenzio letterario (1889-1918)

Nel 1889 annuncia solennemente di abbandonare la letteratura. Il suo silenzio però è tutto da interpretare: egli aveva provato a essere un grande scrittore in stile ottocentesco, con i romanzi “Una vita” e “Senilità”, ma non ebbero il successo sperato. Si può affermare, infatti, che D’annunzio e Svevo pur essendo coetanei siano diametralmente opposti: il primo chiude il vecchio mondo letterario ottocentesco, il secondo ne apre uno nuovo, fondato sul romanzo d’avanguardia, ispirato a Proust e Joyce.

Svevo non abbandona mai la penna, infatti, scrive note, appunti, scarabocchi, persino un diario. In una pagina del suo diario del 1902 ci fornisce la prova più lampante di quanto non voglia smettere di scrivere: l’autore scrive di aver chiuso con la scrittura ma contemporaneamente ne sta scrivendo. Non può chiudere i conti con la letteratura perché essa è il nostro infinito in terra (Leopardi). Dal momento che l’uomo scrive, la sua memoria resta ai posteri, diventa eterna. Lo scrittore triestino non smette di scrivere, affermando che scribacchiando scribacchiando la penna trascese, è proprio da qui, che prende vita “La coscienza di Zeno”.

Il ritorno alla letteratura

Nel giro di tre anni Italo Svevo scrive “La Coscienza di Zeno” pubblicata nel 1923. Fu Joyce ad adoperarsi per far conoscere l’opera tra i critici francesi, mentre in Italia, fu Montale a farlo conoscere al pubblico, grazie ad un articolo sulla rivista “Solaria”. Sino ad allora Svevo è relegato nell’oblio letterario, sia perché ritenuto fuori dalle tendenze imposte tra le due guerre (letteratura aurea, e lirica pura), sia perché il pubblico italiano del 1923 è ancora lontano dalla teoria freudiana, dunque non ha le basi per poter comprendere il grande capolavoro sveviano.

LA COSCIENZA DI ZENO (1923): Nella prefazione il dottor S., psicoanalista di Zeno Cosini, afferma di voler pubblicare per vendetta le memorie del suo paziente. Zeno Cosini, il protagonista del romanzo, proviene da una famiglia agiata, vive nell’ozio e nel rapporto conflittuale con il padre. Egli prova un costante senso d’inquietudine e inadeguatezza che interpreta come sintono di una malattia nevrotica. Sulla base di ciò egli compirà delle scelte che possono sembrare frutto del Caso. Infatti Augusto Buzzi interpreta il romanzo attraverso la chiave di lettura del Caso, affermando che non lo si deve confondere con la casualità.

Zeno sceglie in prima persona le proprie azioni, ma è il Caso a definirne le conclusioni. Ciò è chiaro quando Zeno cerca moglie e sceglie la casa Malfenti, come luogo in cui trovarla; ma lascia al Caso la decisione su quale delle tre figlie debba essere sua moglie. Se mi è concesso un appunto, mi soffermerei in particolar modo sull’interpretazione di Mazzacurati che paragona l’ordigno di cui parla Svevo, con la penna. Per questo motivo in un senso freudiano potremmo affermare che non è il Caso a decidere, bensì l’esplosione costante di un ordigno che apre le porte dell’inconscio e permette la fuoriuscita di quei desideri spesso dannosi. Infatti, la penna di Italo Svevo è come un bisturi che incide in profondità e infetta con le sue manie chiunque tocchi.

Exit mobile version