‘Criminal profiling’: un racconto di Ivano Mugnaini

Era la notte più buia mai apparsa sulla terra. Anzi, era una notte che si rifiutava di apparire, perfino come essenza oscura. Non si camminava per le strade, ci si immergeva, quasi a memoria, in ipotesi di vie e marciapiedi. Uno dei rarissimi rumori che si potevano udire in tutta la città era la voce cupa di Marco Rattis, alias Markophone. Il dee-jay di Radio Utopia 2000 era scarso, a partire dal nome d’arte che si era scelto. Ma lavorava in una radio libera, libera veramente, per dirla con le parole di una canzone che era solito programmare con gusto. Era tanto libera, la sua radio, che a volte gli sembrava non esistesse. Etere nel buio, niente nel niente. Ma nel buio non c’è il nulla: c’è carne, sangue, linfa vitale. Quella notte a Markophone era riemerso lo sfizio di un vizio: capire qualcosa.

La sola cosa che Marco sapesse fare bene era riprodurre le voci. Imitava alla perfezione chiunque, o quasi. Selezionò il più squillante e solenne dei jingle che aveva in repertorio, poi, con la voce di Donald Trump, proclamò la necessità di una pronta e duratura pace universale. Con le voci alternate del Ministro delle Finanze e del Telecardinale per antonomasia annunciò poco dopo sostanziose detrazioni fiscali per i clienti delle lucciole. Fece replicare loro dalla Portavoce del Sindacato Prostitute Organizzate, la quale, roca ma suadente, parlò di una speciale misura promozionale: le operatrici del settore dopo l’atto sarebbero andate a cena con i clienti e avrebbero pagato alla romana. In seguito, a tarda notte, gli uni e le altre avrebbero camminato per le strade in cerca di gatti randagi a cui donare carezze e il tepore dei caloriferi.

Si sentì grande, Markophone. Un universo di vibrazioni umane. Senza alcun pudore fece risuonare a tutto volume una cassetta di applausi registrati al termine di un’opera sinfonica. Un istante dopo si sentì una nullità. Non che prima di allora non gli fosse mai successo, ma in quel preciso momento ebbe la percezione fisica, ghignante, della distanza tra sogno e realtà. Per reazione, o forse per crogiolarsi ancora di più in quella ruffiana malinconia, si rivolse mentalmente all’Imitatore Massimo, l’unico in grado di riprodurre l’intera esistenza, gli esseri viventi in tutte le loro forme. Dalla finestra dello studio alzò gli occhi verso il cielo.

Niente. Solo un immenso telo scuro. Mise un CD di brani e commenti strampalati registrati mesi prima e schiacciò il tasto “loop”, la programmazione ad anello, senza interruzioni. Avrebbe avuto tutto il resto della notte a disposizione, in tal modo. Nessun ascoltatore si sarebbe accorto della sua assenza. Sempre ammesso che la sua radio lo avesse avuto davvero qualche ascoltatore. Uscì fuori e si avviò lento, impacciato, lungo il marciapiede. Guardò ancora in alto, poi scrutò di fianco a sé e davanti. Ancora niente. Solo un sibilo acuto alle sue spalle. Una vecchia Lancia Fulvia Coupé con i freni da rifare si fermò a un metro dai suoi polpacci. Marco non cambiò espressione. Si allontanò piano, con faccia serenamente disperata, certa del tanfo di gomma e metallo del mondo. Ma alla fine la curiosità prevalse. Si voltò di scatto per gettare un’occhiata al mirabile autista. Una sigaretta e un sorriso. Abiti eleganti, perfino una gardenia bianca nell’occhiello. Dalla radio della macchina uscivano le note de “L’uomo in frac” di Modugno. Marco riconobbe, in quell’istante, la faccia dolce e disincantata dell’uomo più inadatto alla vita che avesse mai conosciuto. Eccetto se stesso, chiaramente.

Lo fissava, staccando il gomito posato sul volante solo per aspirare la sigaretta, suo zio Remo. Il fatto che fosse morto venti anni prima non turbò Marco più di tanto. Gli sembrò, in quel contesto, un particolare secondario, una macchia lievemente più scura nel mantello antracite della notte. Tutto ciò che riuscì a fare e a pensare fu correre verso il finestrino e offrire all’uomo una mano da stringere e qualcosa di forte da bere in qualche bar. La seconda offerta fece centro. La sigaretta, seppure a malincuore, venne schiacciata sull’asfalto umido, e le labbra uscite dal buio si misero in moto, pigre quasi quanto le gambe.

            «Ho provato, sai, Marco?»

            «Hai provato cosa, zio?»

«Ho provato, in tutti questi anni, dopo che sono… andato via. Ho tentato di chiedere una modifica dell’iter stabilito per te e per gli altri, per voi che mi state a cuore e che siete ancora quaggiù. Non è stato possibile. Non è concesso, umanamente e neppure “postumanamente”. Il sistema di controllo lassù è ciclico, circolare. Ogni richiesta di concessione viene girata ad un Controllore Ulteriore. E così via. Neppure l’Eternità è sufficiente. La burocrazia terrestre al confronto è snella e fulminea.

Non ho solo cattive notizie da darti, comunque, altrimenti, mi conosci, non sarei venuto da te. Visti i miei crediti acquisiti sulla terra, mi è stato elargito qualche privilegio. Posso portarti vicino a loro. Voglio, anzi devo farlo».

«Loro chi?».

«Non pensare che ci sia bisogno di mezzi ipertecnologici per rendere possibile il meeting. Ti basterà percorrere questo viale. Saranno loro a venire incontro a te. Sii te stesso. Io ti aspetto in fondo».

Marco entrò e uscì dai locali aperti e giunse, più suonato che mai, al termine della Via Crucis dell’amaro notturno.

«Bravo, Marco! Loro hanno visto e annotato tutto: quello che hai preso, in quali locali, parlando oppure tacendo, con quale gente, con quali parole. Ora hanno raccolto una messe di dati ulteriori. Forse potranno inserirti finalmente in una cartella, un modello, un cluster. Sì perché, caro nipote, devo dirti la verità: il problema è che al momento you match with noone and nothing. Non combaci con niente e con nessuno».

«È una colpa?».

«Domanda troppo filosofica per me. Io sono solo un messaggero, capiscimi. Sono dalla tua parte, certo, ma molte cose non le comprendo nemmeno io. Comunque credo che ora possa essere ultimata la scheda del tuo Criminal Profiling.

Ah, come avrai notato da quando sono passato all’altra dimensione un vantaggio sicuro l’ho avuto: adesso so bene l’inglese. Appena arrivi lassù ti fanno un corso intensivo e accelerato. In men che non si dica diventi, per forza o per amore, un potenziale madrelingua».

«Mi fa piacere, zio, ma anch’io, pur non avendo seguito nessun corso simile, sono in grado di capire che la definizione è assurda. “Criminal” implica la certezza che io abbia commesso delitti, o comunque infranto codici o leggi. Quando mai? Io ho sempre lavorato alla radio, tutte le notti o quasi. Dicendo semplici parole, le mie idee, il mio modo di vedere. Cazzatelle, niente di meno e niente di più. Discorsi leggeri tra un disco e l’altro. Nulla di importante».

«Ne sei sicuro? Forse ti sottovaluti. O forse non hai capito bene il funzionamento del General Data System. Non è colpa tua, del resto. Non ne sono padrone del tutto neppure io che mi trovo lassù, in posizione panoramica, da anni e anni.

Quello che conta, comunque, lo ribadisco, è il supplemento di indagine che abbiamo appena reso possibile. Vedrai che un fascicolo telematico in cui archiviarti lo trovano adesso. Sarai libero! Torna alla tua radio, vai. E sii più lieve. Non parlare delle cose del mondo, parla di musica giovane, inventa barzellette sceme, fai qualche gridolino ogni tanto, e canticchia in falsetto prima, dopo e durante i pezzi. Meglio se metti parecchia dance, sai? Impara a fare il dee-jay come si deve. Sono anni che lo fai e continui a sbagliare tono e argomenti! Torna alla tua radio e lascia stare la cronaca, i fatti, gli accadimenti. Meglio la Disco Anni 80. Farai più ascolto, vedrai. In tal modo ti farai uno zoccolo duro di aficionados. Come vedi so anche lo spagnolo, figliuolo!».

Marco Rattis detto Markophone salutò lo zio con un sorriso e con un gesto rapido della mano. Anche l’Uomo in Frac lo guardò un solo istante. Sollevò l’ennesima sigaretta e la fece scorrere nell’aria come una minuscola cometa. Si volto di scattò e si avviò in direzione del buio più fitto. Marco lo fermò con un grido, e con un’ultima domanda.

«Posso raccontare almeno ciò che mi è successo stanotte? L’incontro con te e con loro, la raccolta dati, l’Archivio Universale. Concedetemi di raccontarlo, dai, almeno, per una volta, avrò qualcosa di interessante da dire ai radioascoltatori».

«Credevo che avessi fatto qualche progresso, Marco. Invece, mi ricresce di doverlo dire, ma sei rimasto lo stesso. È chiaro che non puoi dire niente. Credevo fosse lampante. Purtroppo, al contrario, devo specificare sempre tutto con te. No, non puoi raccontare nulla di nulla. E anche se lo facessi è chiaro che nessuno ti crederebbe. Riflettici!».

«Ma, allora, se nessuno mi crederebbe, perché non mi è concesso di raccontarlo?».

L’uomo guardò il nipote con sdegno. Gettò la sigaretta per terra e si allontanò definitivamente a passo rapido, quasi aereo.

Marco lo inseguì come poté e gli urlò tutta d’un fiato una delle sue storielle, un aneddoto mezzo vero e mezzo inventato.

«Sai zio, un tempo assieme ai miei amici frequentavo un bar. C’era una tipa selvaggia, dai modi duri ma sinceri. Non era più giovane, ma era ancora fresca, sensuale. Moltissimi l’avevano odiata e la odiavano. Altri l’avevano frequentata, alcuni erano stati fidanzati con lei e un paio l’avevano addirittura sposata. Ma tutti, presto o tardi, l’avevano abbandonata al suo destino. Era pericolosa, lo sapevano tutti. Rischiava di portarti dove non vuoi, dove non sei stato prima. Se ti guardava negli occhi ti sentivi vivo, ma nessuno osava farle la corte come si deve. Troppo autentica, diversa dalle altre. I miei amici, per scherzo, cominciarono a dirmi che era la mia donna ideale. Mi dissero che era follemente innamorata di me. All’inizio ci risi su, ma presto mi accorsi che qualcosa era successo. Non lo volevo, non era nelle mie intenzioni, ma mi ci avevano fatto pensare. Ecco zio, è accaduto anche stanotte. In questo buio fitto, lungo il viale dove si deve parlare e non parlare, guardare e non guardare, tu, e loro, mi ci avete fatto pensare. Stanotte, zio, l’ho vista, l’ho pensata, l’ho amata di nuovo».

Marco guardò le spalle rigide dell’uomo allontanarsi. Lo smoking impeccabile, più scuro della notte, ebbe solo un ultimo fremito di sdegno. Poi svanì nel nulla. Marco pensò alla sua Radio. Se si sbrigava poteva tornare al microfono prima dell’inizio dei programmi a quiz del mattino. In tempo per raccontare una storia a cui, forse, nessuno avrebbe creduto.

 

CRIMINAL PROFILING – racconto – Ivano Mugnaini

‘Maradona, l’albatros che danza’, dello scrittore Ivano Mugnaini

Questo pezzo non parla di Maradona. Parla del sogno e parla della realtà, della bellezza del calcio generato da lui. 

Dopo il memorabile goal all’Inghilterra ai Mondiali del 1986 un commentatore argentino definì Maradona “aquilone cósmico”. Un altro cronista esclamò una mezza dozzina di volte “un poema de goal!”

Se si accosta Maradona alla poesia, mi viene in mente l’Albatros di Baudelaire: “Il Poeta principe delle nubi / sta con l’uragano e ride degli arcieri/ esule in terra […] con le sue ali di gigante”.

Maradona è stato un albatros che rideva e sorrideva. Dissimile, in questo, da un altro albatros, Fausto Coppi. Anch’egli atleta fuori dall’ordinario, per doti fisiche e talento. Il ciclista piemontese era malinconico e possente come una salita da compiere da solo, là, davanti a tutti, con una maglietta bianca e azzurra, un cielo che guarda muto, un destino che chiama a sé, anzitempo.

Maradona era un albatros che sorride. Di gioia, di esuberanza di vita. Quando era nel suo elemento naturale, il campo di calcio, con un pallone tra i piedi danzava, sorrideva, cadeva, si rialzava e danzava ancora.

Volava, sul campo, Maradona. I suoi compagni di squadra e gli avversari dicevano che quando ti correva accanto sentivi un fruscio, un alito di vento, un pensiero felice. Entrambi imprendibili.

In varie interviste Maradona ha affermato che dentro il campo c’è la felicità.

“Los dolores se van. La vida se va”. Se ne va quella parte della vita che è frustrazione, pena, pesantezza. Resta il privilegio, la leggerezza del gioco.

Maradona voleva dare la felicità. Lo ha ripetuto decine di volte. Lo ha detto riferendosi ai tifosi dell’Argentina. Lo ha detto ai tifosi del Napoli. Voleva farli felici. Voleva realizzare quello che neppure gli dei sono mai riusciti a fare: rendere felici gli uomini. 

E lui rispondeva ai giornalisti che gli chiedevano come si sentisse a essere considerato un dio, con un sorriso agrodolce che nascondeva chissà quali pensieri: “Io credo che sono cose differenti”. 

Maradona ha voluto rendere felice una città che ha subito e vissuto umiliazioni per secoli.

Napoli era la città perfetta per Maradona. Lo specchio della sua vera identità, il luogo del mondo in cui la passione ha la sincerità di uno scugnizzo, la sua stessa sete di vita, di gioco, di passione.

Napoli era la città più sbagliata al mondo per Maradona. La perfezione assoluta di quell’amore eccessivo, sconfinato, lo avrebbe presto o tardi soffocato di egoismo, di idolatrie, di bocche di sanguisughe della privacy e dello spazio individuale. 

Voleva fuggire. Non glielo hanno consentito. E lui, in quel clima, con il corpo e la mente già minati dalle dipendenze, con un presidente che gli parlava a stento, è riuscito a regalare alla gente il secondo scudetto. 

Maradona era il ragazzo nato povero, nella periferia della periferia. Pensavano di poterlo comprare con i Rolex d’oro e le Ferrari. Per eccesso di amore o semplicemente per cercare di controllarlo, legandone le ali, come una preda. La camorra lo ha corteggiato per poter esibire il trofeo dei trofei. Per lanciare un messaggio: se controlliamo lui possiamo controllare tutto e tutti.

Maradona era forte ed era bambino. Entrambe le cose alla massima potenza. Il contrasto tra questi due estremi ha avuto un effetto lacerante. Nello spezzone di un documentario a lui dedicato si vede Maradona che gioca con la figlia. Ad un certo momento il suo riso è identico a quello di lei. Ha la stessa voce e gli stessi occhi del bambino che giocava a pallone sul campo polveroso di Villa Fiorito.

L’albatros vola e cammina. Ferisce le sua stessa carne nella sproporzione, nel dissidio tra il volo e la realtà. 

Come Ayrton Senna. Entrambi felici e disperatamente persi dentro una passione unica, assoluta, divorante. Per Senna era la velocità, per Maradona il pallone. Quello da cui da ragazzo non si staccava mai. Neppure a letto, neppure quando dormiva.

Cosa sia un “mito” non si sa. Non si sa definire, non se ne conoscono le cause e le manifestazioni. Ma una cosa è certa: essere un mito non è facile. Lo ha scoperto a sua spese Marilyn Monroe, se ne è reso conto suo malgrado James Dean, ed Elvis, e con loro tutti gli altri. Quelli chiamati a sperimentare sullo propria pelle e sulla propria carne il divario tra l’amore assoluto per il loro “demone”, quello che hanno reso perfetto, e la vita, quella fuori del set, dello stadio, dello studio televisivo, del teatro dove si recita e dove si vive il sogno. La vita, come ogni donna che si sente tradita, non te lo perdona, ti avvelena. Ti strappa anzitempo dal tuo amatissimo demone e da tutti coloro che amando la tua stessa ossessione hanno amato te.

Essere un uomo, e sentire nella testa e sulle ossa la pressione di migliaia di occhi e menti. Reclamano e pretendono la tua attenzione, vogliono che realizzi il loro sogno, vogliono che tu sia quello che loro vogliono. A tutto questo, nessuno può reggere a lungo.

Maradona ad un certo momento ha sbagliato. Certo. Per l’eccesso della pressione sulle pareti del cervello e dei pensieri. O semplicemente ha sbagliato per un errore, umanissimo. Ha sbagliato. Ma chi voleva trovare un santo o un dio su un campo di calcio ha cercato in un luogo inadeguato. Maradona, visto in alcune foto da bambino, avevo un sguardo da indio. Forse qualche goccia di sangue indio scorreva nelle sue vene. Così come in quelle di Carlos Monzon. 

Monzon sfogava il marchio di un’atavica emarginazione con pugni assestati con una forza gelida, chirurgicamente feroci. Benvenuti lo sa bene. Ne ha un ricordo indelebile.

Maradona ha avuto il dono e il privilegio di sfogare e riscattare quel marchio danzando.  Sul terreno di gioco la rabbia diventava sorriso.

Life is life. Una canzone degli Opus del 1985. Il 19 aprile del 1989 sul campo di Monaco di Baviera, Maradona, con gli scarpini slacciati, danza, assieme al compagno di squadra Antonio Careca, al ritmo di quelle note. Ed è un’esuberanza spontanea che diventa simbolica in modo assolutamente naturale. Life is life, la vita è la vita. Come a dire la vita non si comprende. Non c’è niente da capire. Basta rispondere con le scarpe slacciate alla voglia di giocare e di stare bene, e di vincere, magari assieme ad un amico brasiliano.

Monzon si è riscattato a suon di pugni. Maradona a suon di sorrisi.

Perfino nell’intervista concessa negli anni più bui ad un noto giornalista argentino, quella in cui piange, grasso, irriconoscibile, reduce dalla clinica psichiatrica, con la commozione che gli riga la faccia di lacrime, trovo il modo di sorridere. Il giornalista gli dice “Hai sempre lottato, ce la farai anche stavolta”. E lui risponde “Stavolta sono KO”. Ma perfino lì sorride. 

Magari pensava al campo. A tutto quello che gli aveva dato e che aveva avuto.

Perché il campo di calcio è uno dei rarissimi luoghi al mondo dove sussiste la possibilità del merito e della giustizia.  Immaginiamo un potentissimo presidente padre-padrone che voglia imporre a tutti i costi il proprio figlio, o il nipote o il cognato. Ordina all’allenatore di farlo giocare e l’allenatore cede. Il raccomandato scende in campo. Al primo liscio una risata collettiva. Al primo passaggio sbagliato una salva di fischi. Al terzo errore marchiano viene giù lo stadio. Su un campo di calcio non si può barare. Gioca chi sa e quasi sempre vince il migliore. Sì, almeno su un campo di calcio gioca e vince il migliore. Per questo motivo amo ancora l’idea del calcio. Non amo il calcio di oggi, i prospetti e i profili, la freddezza del cambio di maglia. Non amo la trasformazione in azienda. Mi manca la passione e la rabbia di rivalsa: Riva, Boninsegna, Domenghini e mille altri.

 

Il racconto completo qui LIFE IS LIFE – L’albatros che danza – Ivano Mugnaini

Caffè Ussero: gli incontri letterari del 16 settembre

Riprendono dopo la pausa estiva, gli Incontri Letterari al Caffè Ussero. Il prossimo 16 settembre alle ore 18 la poetessa Valeria Serofilli incontrerà gli autori Ivano Mugnaini della provincia di Lucca con il romanzo Lo Specchio di Leonardo (Eiffel Edizioni, 2016) ed Alessandra Paganardi di Milano con il volume di poesia La pazienza dell’inverno (Puntoacapo Edizioni, 2013). Le letture, a cura degli Autori e di Rodolfo Baglioni saranno accompagnate dalla musica di Sergio Berti con un intervento critico del prof. Andrea Salvini. Ad allietare l’incontro presso il Caffè Ussero, inoltre, interverrà il cantautore pisano Antonio Gentilini. Nell’ambito della serata sarà possibile iscriversi alla neonata Associazione ‘AstrolabioCultura’, presieduta da Valeria Serofilli.

Ivano Mugnaini è autore di romanzi, racconti, poesia e saggistica. Scrive per alcune riviste tra cui “Nuova Prosa”, “Gradiva”, “Il Grandevetro”, “Italian Poetry Review”, “Doppiozero”,  “L’Immaginazione”.  Collabora con case editrici in qualità di redattore e curatore di recensioni ed editing. Cura il blog letterario “DEDALUS: corsi, testi e contesti di volo letterario”, ha pubblicato le raccolte di racconti La casa gialla e L’algebra della vita, i romanzi Il miele dei servi e Limbo minore oltre a diversi libri di poesie.

Alessandra Paganardi vive a Milano , insegna e scrive, ha pubblicato varie raccolte di poesie quali: La pazienza dell’inverno, Tempo reale, Ospite che verrai, Frontiere apparenti; saggi critici, aforismi pungenti e narrativa, tra cui Lo sguardo dello stupore: lettura di cinque poeti contemporanei. Le sue opere poetiche e saggistiche sono state recensite su diversi giornali nazionali. Saggi critici sono inoltre presenti in AA.VV., Atti della Giornata di Studio su Giampiero Neri a cura di Victoria Surliuga, LietoColle, 2006, e in AA.VV. Sotto la superficie: letture di poeti italiani contemporanei, a cura di Gabriela Fantato, Bocca editore, 2004. È redattrice della rivista di poesia, arte e filosofia <<La Mosca di Milano>>.

Ancora una volta lo storico e prestigioso Caffè Ussero, situato al pian terreno del Pallazzo Agostini di Pisa, frequentato da illustri personalità del mondo della cultura come Carducci, Mazzei, Fucini, Abba, Mascagni, Didier, Spadolini, Montanelli, Terzani, Tabucchi, Battaglia e tanti altri, ospiterà autori di grande spessore nel panorama letterario italiano attuale.

 

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