Il cinema “di conflitto” di Elia Kazan

(Kayseri, 7 settembre 1909 – New York, 28 settembre 2003)

Non si può parlare di Elia Kazan senza il grande drammaturgo Tennessee Williams, fondatore insieme a Kazan del celebre Actor’s Studio e suo sceneggiatore, il primo un ragazzo beffardo che arriva in America dalla Grecia con il sorriso ingannatore di chi è deciso a farcela a tutti i costi, anche con il  rischio di risultare ipocrita e servile, sorriso descritto dallo stesso Kazan in una sua autobiografia e in un suo film che doveva intitolarsi The Anatolian Smile (chiamato poi America America, il ribelle dell’Anatolia), il secondo un ragazzo del Mississippi che non si è mai sentito amato dal padre perché omosessuale, lontano dal prototipo del maschio sano e sportivo americano e dilaniato dalla paura di diventare schizofrenico come sua sorella, ridotta ad un vegetale dopo essere stata lobotomizzata.

Kazan, sostenitore del Metodo, ha avuto il merito di lanciare star mondiali come lo sfacciato e rude Marlon Brando, l’inquieto James Dean (diretto da Kazan nella trasposizione in chiave psicoanalitica della storia di Caino e Abele, La valle dell’Eden e nel cult Gioventù bruciata), icona ribelle negli anni Cinquanta, simbolo di una generazione, morto prematuramente, in un incidente automobilistico e il dolce Warren Beatty (diretto da Kazan in Splendore nell’erba, straziante melodramma sul primo amore e primo film americano che ha posto l’accento sulla sessualità adolescenziale).

Kazan è stato un genio riconosciuto nell’ambito sia cinematografico che teatrale, il traduttore perfetto dei drammi di Williams,un lottatore nato,un narcisista, un uomo sempre in conflitto con sé stesso che ha incontrato l’animo fragile di un altro uomo perseguitato dai suoi fantasmi, che soprattutto nell’ultimo periodo della sua vita ha dato vita a delle messe in scena innovative e di rara fattura, rubando dalla propria vita e da quella di Kazan. Si portano sul set  le frustrazioni, gli ideali, il conflitto tra amore per la vita e desiderio della morte, le nevrosi, le paure, il vitalismo sessuale, i rimpianti, un certo auto disprezzo soprattutto da parte del regista. Frustrazioni le sue, molto probabilmente collegate alla vita politica: la sua fama infatti è stata segnata da numerose polemiche e critiche per il fatto che Kazan aveva denunciato dei suoi compagni comunisti alla Commissione per le attività antiamericane del senatore  McCarthy.

L’uomo dal sorriso ingannatore che aveva preso d’assalto Hollywood, che pur di arrivare a diffondere la sua arte e le sue idee, si era finto umile, per poi fregare l’America, ha denunciato colleghi, rovinando delle carriere:

«Sono stato membro del partito comunista per un anno e mezzo. Non mi è piaciuto ciò che ho visto in quel periodo, e ho deciso di dire ciò che pensavo. Ero d’accordo con certe cose, ma non con i metodi. Come iscritto al partito, volevo cambiare l’America, renderla migliore: ho lasciato il partito perché, ripeto, non ne condividevo i metodi, ma quell’idea di fondo mi è rimasta. Amo l’America».

Ecco il conflitto interiore, la finzione, e poi finalmente l’espiazione o la furbata a seconda dei punti di vista, attraverso la realizzazione del film Fronte del porto (1954), “l’autodifesa mascherata”: è emblematica la scena in cui Marlon Brando, coraggioso combattente contro un’organizzazione criminale, viene preso a cazzotti. L’apologia del tradimento a fin di bene.Terry Malloy (Brando), è uno scaricatore di porto ed ex pugile, apparentemente senza umanità, che ha come fratello il pezzo grosso di una gang che controlla il sindacato dei portuali di New York; grazie ad una faticosa presa di coscienza, all’amore per la sua ragazza (Eva Marie Saint) e alla Chiesa (rappresentata da un parroco d’assalto), testimonia contro la sua associazione criminale. Kazan mescola le carte ad arte, ed Hollywood gradisce molto, tanto che il film vince meritatamente ben sette Oscar. Fronte del porto è un film coraggioso per l’epoca, un noir con forti connotazioni melodrammatiche girato quasi tutto all’esterno, a New York.

Da questo momento Kazan diviene il regista più corteggiato di Hollywood, del quale sorprende una dichiarazione che però non collima con il suo conflitto interiore mai negato:

“Non ho una vasta gamma, non vado bene con la musica, i classici sono oltre la mia portata … sono un mediocre regista, tranne quando una pièce teatrale o un film tocca una parte delle mia esperienza di vita, ma  ho coraggio, qualche volta anche un po’ di temerarietà. Sono capace di parlare agli attori, di farli lavorare al meglio”.

 

Il regista va sul torbido insieme a Williams con il film Baby doll, (il meno riuscito della coppia Kazan-Williams), un concentrato di erotismo molto spinto per l’epoca, costruito tutto su sguardi, atmosfera, e suggestioni carnali non su atti espliciti, ricercatissimi invece nel cinema di oggi. Per buona parte della critica moralista è risultato un film irritante; ma senza dubbio si è di fronte ad un qualcosa di mai visto prima e viene da chiedersi: perché i due collaboratori insistono sulle suggestioni suddette, senza tregua? La risposta si può facilmente ricercare nella vita privata di Kazan e nella sua ossessione per la famiglia e per il sesso: ha avuto tre mogli e moltissime amanti tra cui anche la Monroe prima di sposarsi con il drammaturgo Miller, dichiarando di non poter fare a meno di portare via le fidanzate agli amici.

Grande successo invece per La gatta sul tetto che scotta (1958): la gatta in questione è Maggie la bellissima moglie interpretata da Liz Taylor, di Brick (Paul Newman), ex atleta nevrotico che si rifiuta di dormire con la moglie. Ed il tetto scotta per via delle incomprensioni e discussioni, parole celate, menzogne, tra Brick, suo padre, ricco ed autoritario proprietario terriero del Sud, l’avido fratello e la sua odiosa moglie. Qui sono i dialoghi resi a regola d’arte che svelano il vissuto e la psicologia dei personaggi, le loro inquietudini. Memorabile lo scambio di battute tra padre e figlio, la rievocazione dei ricordi, la sensualità misteriosa di Maggie che cerca di squarciare la freddezza sospetta di suo marito. Kazan evoca e rappresenta un mondo in disfacimento materiale e morale, il famoso Sud che in questo film odora di morte, ricoperto da polvere e muffa, ma tenuto ancora in vita da una sensualità esasperata.

Ma già nel 1951 Kazan e Williams avevano messo in scena quei nuovi fermenti del cinema americano ,che vuole accostarsi a temi considerati scottanti, cercando di liberarsi di quell’impalcatura spesso fittizia e perbenista dell’industria cinematografica. In Un tram che si chiama desiderio, la coppia fa sfoggio del dramma di una donna nevrotica e con turbe sessuali, Blanche Dubois (una strepitosa e commovente Vivien Leigh), ma fragile, insicura e dal passato travagliato. Va ad abitare della piovosa e cupa New Orleans, dalla sorella Stella (Kim Hunter) che nel frattempo si è sposata con il rude Stanley (un indimenticabile Marlon Brando). Blanche cerca di farsi sposare da un suo corteggiatore, ma instaura gradualmente un ambiguo e pericoloso rapporto con il cognato che scivolerà nella follia.

Kazan usa la cinepresa come uno strumento di indagine psicologica,volta a filmare, sguardo dopo sguardo, parola dopo parola, il senso di morte presenta nella casa di Stella e di suo marito e la progressiva devastazione interiore di Blanche, la sua paura di invecchiare, di non riuscire a dimenticare il suo passato, pur volendo ricostruirsi una vita. Kazan fa parlare il fisico scultoreo esibito con tracotanza di Brando, fa di lui un cattivo- vincente. La cifra del film è tutta incentrata sulla scenografia scarna, sulla potenza della parola e sull’espressività dei protagonisti.

Il 1951 è stato anche l’anno del dramma La rosa tatuata, divenuto un film nel 1956 diretto da Mann con la nostra italiana Anna Magnani. Un grande successo. Tre anni dopo è la volta della messa in scena di Improvvisamente l’estate scorsa, film ambiguo di  Mankiewicz, incentrato sulla lobotomia, tema caro a Williams, reso con una curiosa contaminazione tra una sorta di giallo americano e dramma europeo. Seguono La dolce ala della giovinezza, con Paul Newman e La notte dell’iguana, girato con Huston, in un periodo di straordinaria prolificità letteraria. E poi Fango sulle stelle, rievocazione degli anni 30 americani, indirettamente autobiografica,che riflette sulla figura dell’intellettuale di fronte ai problemi sociali,che ci consegna un Kazan forse più sereno e contemplativo, nonostante non mancasse mai la polemica contro l’arroganza dei ricchi,la lotta sociale, il garantismo; tutti temi che sono presenti in maniera più forte nei suoi film iniziali come Un albero cresce a Brooklyn (1945), Barriera invisibile (1947), e i successivi Un volto nella folla, Il compromesso, I visitatori, Gli ultimi fuochi.

Elia Kazan ha trasferito sul grande schermo le proprie ansie, i propri conflitti e le proprie frustrazioni, facendo della settimana arte uno strumento di terapia.

 

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