‘’Le lettere a Nora’’ di Andrea Carloni: l’audace scambio epistolare fra James Joyce e Nora Barnacle

‘’Le lettere a Nora’’ è il libro di Andrea Carloni pubblicato da Alter Ego Edizioni in cui l’autore racconta il legame carnale di James Joyce con Nora Barnacle attraverso un intenso scambio epistolare dalle passionali sfumature erotiche. Se tanto si conosce su James Joyce, molto poco si sa sulla figura che è stata fonte di ispirazione e passione dello scrittore; l’incontro fra Nora e James risale al 10 giugno 1904 ma la relazione fra i due inizia il successivo 16 giugno.

Questa data, in seguito, è stata poi scelta dallo stesso Joyce per ambientare il suo più celebre romanzo, Ulisse, che si svolge appunto in una sola giornata a Dublino. La data ha poi raggiunto una certa notorietà tanto da esser celebrata in tutto il mondo come Bloomsday. Il copioso scambio epistolare fra Nora e James permette al lettore di entrare nell’intimità di un rapporto controverso e sopra le righe, ma soprattutto di captare al meglio chi, davvero, possa essere stata Nora Barnacle nonostante le informazioni su di lei siano esigue. Andrea Carloni nell’introduzione di ‘’Le lettere a Nora’’ scrive:

 Nora la vittima, Nora l’innamorata, Nora l’ingenua, Nora la ribelle, Nora l’ignorante, Nora l’emancipata, Nora la sacrificata…

Ma chi era Nora?

Una personalità controversa, ribelle, emancipata, di spirito semplice, ma sensuale. E così, l’autore nella prefazione che introduce l’intenso scambio epistolare fra i due amanti, raffigura Nora come una donna dallo stile di scrittura fluente ma istintiva, che non si cura della forma come della sintassi o dell’ortografia; un modo di scrivere che rimanda al flusso di coscienza di Molly Bloom, come lo stesso Andrea Carloni sottolinea. Figura eterea e, al contempo, libidinosa l’autore sottolinea come Joyce amasse di Nora l’anima semplice e la capacità di stare accanto a lui nonostante le incombenze, le difficoltà economiche e la lontananza. Ed è proprio per la lontananza che Nora acconsente a uno scambio di missive erotiche,  avendo timore che James potesse supplire all’assenza di lei frequentando prostitute.

 

La tenerezza di uno scambio epistolare intriso di erotismo

 

L’amore fra James Joyce e Nora Barnacle è viscerale, selvaggio, carnale, possessivo; un rapporto considerato osceno per il tempo ma che comunque non si basa esclusivamente sull’effimera libidine perché, nello scambio epistolare, i due amanti si raccontano, l’un l’altro, porzioni di vita; debiti, incombenze, delusione, malattie, l’amore. Ogni tassello si posiziona in un sfondo tinteggiato di erotico che rende la narrazione globale e fluente, facendo carpire al lettore chi davvero sono stati questi due amanti teneri e selvatici che, 120 anni fa, tenevano in vita il loro amore attraverso il potere delle parole e della fantasia. Il carteggio, infatti, appartiene agli anni in cui Nora Barnacle e James Joyce non erano, fisicamente, insieme. Nello specifico, le lettere riportate nel libro di Andrea Carloni vanno da giugno a ottobre 1904: l’incontro e la frequentazione dei due, prima di lasciare l’Irlanda.

La corrispondenza si sposta poi dal 1909 al 1912, quando la coppia si è stabilita a Trieste e si separa per alcune visite a Dublino. Infine, il carteggio copre l’arco di tempo dell’ Agosto 1917, quando Nora si trasferisce a Zurigo prima di James. È  interessante notare come l’autore si concentri anche sul tema dei viaggi che diventa protagonista indiretto degli scambi epistolari fra i due; la lontananza è sia combustibile che alimenta lo scambio epistolare generoso che unguento saliente che lenisce la pena dell’assenza. I viaggi, i trasferimenti, le città: tutto raccontato con dovizia, attraverso uno stile scorrevole e un linguaggio semplice e diretto.

Andrea Carloni

La dualità di Nora e l’imperituro legame viscerale con Joyce

 

Nora non è una donna amante delle faccende domestiche, non è  Estia  la dea del focolare e della famiglia; eppure è una buona moglie e una buona madre che all’occorrenza sa farsi bramare da Joyce e divenire l’oggetto dei suoi desideri. Una delle prime lettere riportate nel libro di Andrea Carloni, datata fine luglio 1904, sottolinea come la mescolanza di emozioni contrastanti, l’erotismo e un viscerale senso di appartenenza imbevuto da una evidente connessione mentale legasse Nora e James:

 

‘’[Fine luglio 1904] 60 Shelbourne Road, Dublino

Mia particolarmente imbronciata Nora, ti avevo detto che ti avrei scritto. Ora scrivimi tu e dimmi che diavolo avevi l’altra sera. Sono sicuro che qualcosa non andava. Mi sembrava tu fossi dispiaciuta per qualcosa che non era accaduta – che sarebbe cosa molto da te. Ho cercato di consolare la mia mano da allora ma senza riuscirci. Dove sarai sabato sera, domenica sera, lunedì sera, dato che non potrò vederti? Adesso, adieu, carissima. Ti bacio quella fossetta miracolosa sul collo, il Tuo Cristiano Fratello di Lussuria.

J.A.J.

Quando tornerai di nuovo lascia i bronci a casa – pure i corsetti’’

 

Si noti  come Joyce utilizzi l’appellativo ironico e allo stesso tempo moderno ‘’Fratello di lussuria’’: un linguaggio estremamente contemporaneo e intimo, riflesso di una relazione sfaccettata ed eclettica. Nell’agosto del 1904, invece, Nora scriverà al suo James:

 

‘’[…] Mi sembra di essere sempre in tua compagnia nelle più svariate circostanze possibili parlare con te camminare con te incontrarmi con te improvvisamente in posti differenti finché inizio a chiedermi se il mio spirito se ne vada dal mio corpo nel sonno e vada a cercarti, e per di più trovarti o forse questa è solo una fantasia[…]’’

 

Una passionalità concreta che si riconosce nella visione carnale, angelica ed erotica, al contempo, che Joyce ha della sua donna e che si scorge anche nelle descrizioni che lo scrittore fa di Nora, come in questa lettera dell’agosto 1909:

‘’Ti ricordi i tre aggettivi che ho usato ne I morti per parlare del tuo corpo? Sono questi: “musicale e strano e profumato”.

Sono trascorsi 120 anni da queste lettere ma il libro di Andrea Carloni appare come la fotografia di un amore senza tempo: nonostante il fluire dei giorni,  le difficoltà della vita e la lontananza imposta questi due amanti –  quasi come eterni bambini  – continuano a giocare al gioco dell’amore; un amore passionale, tenero, energico, erotico, eclettico trasmesso attraverso la maestria dell’autore, la cura, la traduzione e l’utilizzo di  un linguaggio contemporaneo che racconta un’esistenza libera e un rapporto conteso fra dimensione eterea e passionalità.

Ricordando James Joyce a 131 anni dalla nascita attraverso il suo capolavoro ‘Ulisse’

Il 2/2 del ’22, il 2222, fu una specie di esplosione verbale di cui s’ode ancora l’impeto, imperiale: nessuno, da lì in poi, può prescindere dal “super-romanzo” di James Joyce, per sottomissione o ribellione. Una storia dell’influenza di Ulisse nella letteratura occidentale del Novecento finisce grosso modo per coincidere con la letteratura occidentale del Novecento: T.S. Eliot – pur usandolo per tirare il carro alla propria estetica – aveva capito tutto, “Usando il mito e operando un continuo parallelo tra contemporaneità e antichità, Joyce instaura un metodo che altri potranno utilizzare dopo di lui”; seguiva, per capirci, il paragone con “le scoperte di un Einstein”. Insomma, il ‘metodo’ di Joyce era equivalente alla teoria della relatività generale di Einstein (che nel 1921 aveva ricevuto il Nobel per la fisica).

Da allora, nulla sarebbe stato più come prima. Virginia Woolf legge Ulisse irritandosi – “Ho terminato l’Ulisse e mi sembra un colpo mancato. Genio ne ha, direi, ma di una purezza inferiore. Il libro è prolisso. È torbido. È pretenzioso. È plebeo, non solo nel senso di ovvio, ma nel senso letterario” –, Ezra Pound lo esalta esalando urla: “Tutti gli uomini dovrebbero «unirsi per elogiare Ulisse»; chi non lo farà potrà accontentarsi di un posto negli ordini intellettuali inferiori; non voglio dire che tutti debbano elogiarlo a partire dallo stesso punto di vista, ma tutti i seri uomini di lettere, che ne scrivano o meno una critica, dovranno di certo concepirne una per loro uso e consumo”. William Faulkner, dopo una gita tra bordelli italiani vari, atterra a Parigi, nel ’25, e sogna di vedere Joyce dalla vetrata di un cafè, in Place de l’Odéon: la lezione di Ulisse gli è necessaria per giungere a L’urlo e il furore.

Nel 1932, per onorare i cinquant’anni di JJ, Hermann Broch, a Vienna, dà lettura del suo saggio, James Joyce und die Gegenwart (poi pubblicato nel 1936; in Italia è uscito come James Joyce nel 1983, da Editori Riuniti): lo stesso editore tedesco dell’Ulisse pubblicherà il capolavoro di Broch, La morte di Virgilio, che usa, a modo suo, il ‘metodo’ di Joyce. L’Ulisse è testo assoluto e seminale: inimitabile, ha mutato le geografie fino ad allora sperimentate dal genere romanzo; una specie di rivoluzione quantistica. Ne Il gioco degli occhi, Elias Canetti racconta quando ha incontrato Joyce, a Zurigo, nel 1935: fu una fuga nel frainteso. Canetti aveva letto, in pubblico, la sua Commedia della vanità, di cui Joyce aveva recepito solo alcuni frammenti. “Nell’intervallo fui presentato a Joyce”, scrive Canetti, “il quale si espresse in termini molto bruschi e molto personali: ‘Io mi faccio la barba col rasoio, senza specchio!’”. Nella Commedia si accennava agli specchi, al loro inesorabile enigma, ma quella di Joyce pare una frase che nasconda un cabbalista, dai sensi irritati e sovrapposti. Spesso i biografi ricordano che dopo aver pubblicato Ulisse, Joyce subì “nuovi disturbi agli occhi”, quasi che vi fosse una coincidenza tra scrittura e cecità.

“Leggere l’Ulisse,” opera realistica e burlesca al tempo stesso, come scrive Alessandro Ceni nella sua Nota introduttiva, “è come guardare da troppo vicino la trama di un tessuto” dove le parole, che sono i nodi della trama, rivoluzionano. Trascinata da una scrittura mutevole e mimetica, da un uso delle parole che è esso stesso narrazione, la complessa partitura del romanzo procede con un impeto che scuote e disorienta. Perché “un testo così concepito esige un lettore pronto a traslocarvisi armi e bagagli, ad abitarlo, a starci dentro abbandonando ogni incertezza”. Solo immergendosi senza riserve nella scrittura il lettore potrà uscirne davvero, alla fine, inondato di tutta la luce che questo romanzo concentra in sé.

Ciò che rende Ulisse imponente non è, infatti, il tema ma la scala su cui viene sviluppato. Sono serviti sette anni a Joyce per scriverlo e l’ha fatto in settecentotrenta pagine, che sono probabilmente le pagine più assolutamente “scritte” da Flaubert in poi. Non solo l’aneddoto è espanso fino alla sua forma più piena possibile – c’è un resoconto elaborato di quasi tutto vien fatto o pensato da Mr. Bloom dal mattino alla notte nel giorno in questione – ma si ha sia il metodo “psicologico” che quello flaubertiano di rendere lo stile in linea con la cosa descritta, metodo portato diversi passi avanti più di quanto non sia stato fatto sinora, così che mentre in Flaubert si hanno banalmente le parole e le cadenze adattate con cura a suggerire uno specifico stato d’animo o un personaggio senza alcun tentativo di identificare la storia con il flusso di coscienza della persona descritta, e in Henry James la semplice esplorazione del flusso di coscienza con vocabolario e cadenza unici per tutto l’insieme di stati d’animo e personaggi, in Joyce non si hanno soltanto la vita descritta dall’esterno con virtuosità flaubertiana ma pure la consapevolezza che ogni personaggio e ogni suo stato d’animo sono messi a parlare in un idioma loro proprio, il linguaggio usato in riferimento al linguaggio. Se Flaubert insegnava a Maupassant come trovare l’aggettivo che avrebbe distinto una certa carrozza da tutte le altre carrozze al mondo, James Joyce ha stabilito che si deve trovare il dialetto che potrebbe distinguere i pensieri di un certo Dublinese da quelli di ogni altro Dublinese.

“Peccato per il pubblico se si attende di trovare una morale nel mio libro – o peggio, potrebbero prenderlo ancora più sul serio e, onore di gentiluomo, non vi è una sola riga seria lì dentro” J. Joyce

Mr Bloom, coi suoi generosi impulsi e i suoi tentativi di comprendere e padroneggiare la vita, è il simbolo epico dell’uomo raziocinante, umiliato e ridicolo, pure in grado di districarsi con l’astuzia dagli spiriti che tentano di distruggerlo; e Mrs. Bloom, con la sua forza terrificante frammista di affetti amorosi e materni, con le sue radici nello sporco della terra e il suo gioioso fiorire in bellezza, è l’immagine gigantesca della terra stessa da cui sia Dedalus che Bloom sono sorti e che sembra essere il fondamento profondo dell’intero dramma come il tono base all’inizio dell’Oro del Reno.

Il tema principale del capolavoro di Joyce va cercato nel suo parallelo con l’Odissea: Bloom è una specie di moderno Ulisse – con Dedalo come Telemaco – e lo schema e le proporzioni del romanzo vanno fatti corrispondere a quelli dell’epica. Sono questi e non le necessità interne dell’argomento ad aver dettato le dimensioni e la forma di Ulisse.

 

https://www.pangea.news/joyce-ulisse-anniversario/

“La coscienza di Zeno”: la malattia come punto di forza?

<<Tutto ciò giaceva nella mia coscienza a portata di mano. Risorge solo ora perché non sapevo prima che potesse avere importanza. Ecco che ho registrata l’origine della sozza abitudine e (chissà?) forse ne sono già guarito. Perciò, per provare, accendo un’ultima sigaretta e forse la getterò via subito, disgustato>>. Il romanzo “La coscienza di Zeno” di Ettore Schmitz, in arte Italo Svevo, pubblicato nel 1923 a Trieste dall’editore Cappelli di Bologna, assurge il romanzo italiano a concezioni e dimensioni europee. La coscienza di Zeno segna l’esordio della psicoanalisi, quella dottrina filosofica (clinica e teraupetica) che più influenzerà il Novecento nella narrativa italiana.

Il diario si compone di tre parti contrassegnate dalle date di tre giorni distinti negli anni di guerra 1915-1916. Nella prefazione del libro il sedicente psicoanalista Dottor S. dichiara di voler pubblicare “per vendetta” alcune memorie, redatte in forma autobiografica di un suo paziente, Zeno Cosini (rivoltosi a lui per guarire dal vizio del fumo e facilitare il processo di guarigione), che in realtà si è sottratto alla cura. Gli appunti dell’ex-paziente costituiscono il contenuto del libro, dunque l’unica voce narrante.

Nel preambolo Zeno spiega la sua difficoltà nel “vedere” la propria infanzia e ogni volta che prova ad abbandonarsi alla memoria, cade in un sonno profondo. La narrazione non offre la cronologica, lineare successione degli avvenimenti, ma segue il filo della memoria. Oltre l’inettitudine, vizio che caratterizza il personaggio, l’altro problema su cui ha effettivamente inizio il romanzo è appunto il vizio del fumo. Egli  rievoca le prime esperienze con i sigari lasciati per casa dal padre e i vari tentativi messi in atto (falliti) per liberarsene, non facendo altro che confermare quanto in realtà sia accanito per la sua “ultima sigaretta”, dimostrandosi a tratti addirittura nevrotico. Attraverso i ricordi, si giunge poi ad un delicato tema: il rapporto conflittuale col padre, basato su incomprensioni e silenzi.

Altri temi motivo di analisi ne La coscienza di Zeno sono: il suo matrimonio con Augusta Malfenti (in realtà inizialmente innamorato della sorella Ada, che sposerà invece il suo nemico Guido Speier); il conflittuale rapporto con la sfera femminile, la sua sindrome Edipica e la ricerca per l’amante, come Carla Gerco (giovane pianista realmente innamorata di Zeno che non vuole mettere però a repentaglio la sua storia coniugale); e infine il rapporto con Guido Speier con cui collabora per mettere in piedi un’azienda, ma in realtà è solo un’occasione per dimostrare la sua superiorità nei confronti del rivale d’amore che ha sposato Ada. Nelle riflessioni finali Zeno si sente guarito, riuscendo ormai a prendere coscienza della sua personalità ed accettare i propri limiti, fino a sfociare in amare considerazioni sull’umanità.

I fatti della vita del protagonista de La coscienza di Zeno sono giudicati dallo stesso, secondo prospettive, modificazioni e ripensamenti che variano nel tempo. Dominano l’introspezione e l’analisi psicologica, mentre la soggettività e l’interiorità prevalgono sull’oggettività. Nel monologo interiore condotto da Zeno si avverte l’influenza della narrativa di James Joyce e del suo “flusso di coscienza”. Svevo, d’altronde, conobbe personalmente a Trieste lo scrittore irlandese.

Lo scrittore fa sì che la sola voce che il lettore immagini di ascoltare sia solo quella di Zeno attraverso le sue confessione, delle quali però non ci si può  fidare.

 Per quanto riguarda la cronologia, i fatti non secondo uno schema lineare e odinato: molto spessp  il passato si confonde con il presente formando un unico tempo che non si puà dividere. Il risultato, che rappresenta una novità letteraria, è  definito da Svevo «tempo misto».

 Zeno, come Nitti e Brentani è scisso, scontento, arrendevole, ma sembra essere più maturo e consapevole. La sua forza rispetto a quelli che non lo sono, è proprio quella di non vivere nella certezza  che potrebbe crollare da un momento all’altro, ma di mettersi sempre in discussione, grazie alla nevrosi. Questo fa la differenza, secondo Svevo, tra i “sani” e i “malati”.

Naturalmente, oltre agli echi della teoria darwiniana applicata alla società e della noluntas di Schopenhauer, si avvertono nel romanzo gli influssi delle teorie di Sigmund Freud e della sua psicoanalisi, che proprio nella Trieste del tempo di Svevo conobbe un terreno di coltura favorevole.

La prosa risulta tutt’altro che accattivante per il lettore, tanto da far definire alcuni“La coscienza di Zeno” un libro noioso ma che induce a riflettere, e numerosi sono i richiami alla lingua tedesca, oltre a termini tecnici e burocratici.

Ma la riflessione che viene da porci in riferimento a La coscienza di Zeno è la seguente: davvero la malattia, il disagio, la nevrosi, possono rappresentare un punto di forza, una nuova occasione, un modo di essere intellettualmente diversi dagli altri? In un certo senso la malattia mentale, pur facendoci soffrire, ci fa sentire cose che da “sani” non sentiremmo, ci rende più sensibili, e più profondi?

Fa riflettere anche il finale, terribilmente vero ed inquietante ma forse non così tragico come potrebbe sembrare.

‘Gente di Dublino’ di Joyce: le tappe della vita umana

Gente di Dublino è una raccolta di quindici racconti scritti da James Joyce (con lo pseudonimo di Stephen Daedalus),terminati nel 1906 e pubblicati solo nel 1914, originariamente da Grant Richards, dopo essere stati rifiutati da molte case editrici, rappresentano uno dei maggiori capolavori della letteratura del Novecento.

I protagonisti dei racconti sono persone di Dublino, la magica capitale irlandese che fa da cornice alle storie narrate, storie di vita quotidiana che delineano quelle che sono le tappe fondamentali della vita umana. In questo modo si viene così a creare una sequenza tematica divisa in quattro sezioni: l’infanzia (Le sorelle”,” Un incontro”, “Arabia”), l’adolescenza (“Eveline”, “Dopo la corsa”, “I due galanti”,” Pensione di famiglia”), la maturità “(Una piccola nube”, “Rivalsa, Polvere”,” Un caso pietoso”), la vecchiaia (“Il giorno dell’Edera”,” Una madre”, “Una grazia”) e infine un epilogo, la morte (dal quale è stato tratto un film per la regia di John Huston nel 1987).

Gente di Dublino focalizza la sua attenzione soprattutto su due aspetti importanti, comuni tra l’altro a tutti i racconti: la paralisi ( definita da Joyce “Paralysis”) principalmente morale e causata dalla politica e dalla religione dell’epoca e la fuga, intesa come conseguenza della paralisi, proprio quando i protagonisti prendono coscienza della loro condizione. Tutta la città è “spiritualmente debole”, gli abitanti sono schiavi della loro cultura e quando la “paralisi” si rivela alle “vittime”, quello è il punto di svolta della storia. Conoscere se stessi è la base della morale, se non la morale stessa. Tuttavia lo scrittore irlandese non si comporta come un educatore, anzi il tema principale di Gente di Dublino è proprio l’impossibilità di uscire da questa situazione. Potremmo dire quindi che questa sorta di “fallimento” della fuga rappresenta un altro nodo importante nell’opera.

Lo stile dei racconti è realistico, la descrizione dei paesaggi è molto dettagliata, quasi il lettore riesce a percepire l’odore vecchiotto della città, le birrerie, il vento freddo e i suoi bizzarri abitanti. Così come in Gustave Flaubert e in Emile Zola il realismo ed il naturalismo sono combinati con tratti simbolici. Joyce inoltre abbandona la tecnica del narratore onnisciente, utilizzando invece punti di vista diversi, così quanti ne sono i personaggi.

Certamente questo capolavoro di realismo e audacia non è il tipo di lettura che intrattiene, è uno di quei libri cervellotici che colpiscono la mente più che il cuore, non sconvolgono più di tanto il nostro animo. Gente di Dublino è piuttosto un libro-denuncia delle condizioni in cui versava l’Irlanda ad inizio ‘900. Joyce si muove con disinvoltura dal generale al particolare, dalla situazione socio- politica, economica, religiosa, a quella psicologica di ogni singolo individuo. Il significato spesso è oscuro, incomprensibile o comunque non immediato, anche per evitare il bavaglio della censura. Essenziale e affascinante, ma non per tutti, Gente di Dublino richiedono una profonda riflessione e molte riletture. I concetti di “epifania”, “paralisi e fuga” risultano spesso ermetici.

Con Gente di Dublino Joyce ha stravolto i concetti del racconto, non più logico e costruito su rapporti di causa-effetto, ma conseguenza di parole, con assonanze, analogie, memorie improvvise e senza tempo. Lo scrittore irlandese ci propone degli affreschi che ricordano la picica uggiosità delle città nordiche, sono dei quadri monocromatici aderenti alla realtà. Alcuni racconti hanno trame inesistenti, ma sono ricchi di episodi, di oggetti della vita quotidiana, di persone, che diventano rivelatrici del vero significato della vita a chi riesce a percepire il loro valore simbolico. I protagonisti di Gente di Dublino sono abitanti (presentati in diverse stagioni della loro vita: infazia, adolescenza, maturità) “spiritualmente deboli”, che hanno paura degli altri e sono schiavi della loro cultura, della loro vita familiare e politica, ma soprattutto della loro vita religiosa. Se la paralisi investe la sfera morale, intellettuale e pratica, la fuga, destinata a fallire, è la naturale conseguenza della staticità, nel momento in cui i protagonisti comprendono la propria condizione e risultano essere impotenti. Geniale l’epilogo dell’opera, intitolato I morti che ripercorre il culmine della crisi morale di Gabriel Conroy, insegnante e scrittore.

James Joyce: sperimentatore introspettivo

James Joyce (nome completo James Augustine Aloysius Joyce) nasce a Dublino nel 1882, in una numerosa quanto conformista famiglia benestante, caratterizzata da un cattolicesimo imperante e da un rapido, ineluttabile declino economico.

Nonostante le sopraggiunte difficoltà monetarie e l’alcolismo del padre, al giovane Joyce non manca mai (anche per suoi meriti accademici) la possibilità di ricevere un’educazione e un’istruzione di altissimo livello.

Bambino prodigio, ad appena 9 anni James Joyce compone il suo primo pamphlet, invettiva decisa e ispirata (probabilmente dalle idee politiche del padre) nei confronti di un noto leader nazionalista, accusato di aver abbandonato la causa in un momento di forte difficoltà.

Durante gli anni universitari (nei quali si dedica soprattutto allo studio delle lingue, in particolare francese, italiano e inglese), Joyce sviluppa un deciso anticonformismo e un fermo anticlericalismo (in risposta all’ambiente familiare), oltre a radicalizzare una profonda ostilità verso il provincialismo (soprattutto culturale) di un’Irlanda comunque costantemente presente nei suoi scritti, seppur sovente in tono di polemica e disappunto.

L’esordio nella scrittura è considerato Chamber music (1907), raccolta di poesie dalla quale si evince una spiccata sensibilità musicale che gli procurerà l’apprezzamento di Ezra Poud.

Pur non essendo particolarmente copiosa, la sua produzione artistica influenzerà la cultura dell’epoca e ancor più quella futura, crescendo di pari passo con lo sviluppo delle nascenti tecniche psicanalitiche (complice la schizofrenia galoppante di sua figlia Lucia e il conseguente incontro con C. J. Jung).

James Joyce cerca la forma espressiva più confacente all’anelito di rinnovamento che si respira in quegli anni di rivalsa culturale, e sente di dover scandagliare l’animo umano alla ricerca di un diverso tenore d’analisi, improntato a processi mentali prima inesplorati. Aderisce sempre più alla corrente modernista (forse la inizia, certamente la rafforza), ne condivide l’esigenza intimista, talvolta oscura ma anche per questo seduttiva. Le tecniche espressive si modificano, performandosi alle esigenze narrative e diventando sempre più fluide e descrittive. Il flusso di coscienza vive di flash back, si nutre di metafore e similitudini, si genera in storie incastonate in altre storie, ripropone un divenire di idee, pensieri, ricordi ed emozioni avulse dal rispetto di un ordine grammaticale, sintattico e interpuntivo precostituito e rispettato. Tutto è caos nella memoria umana, e resta tale nel racconto di questo flusso inarrestabile.

Gente di Dublino (1914) è una raccolta di quindici brevi racconti (il primo, “The sisters”, precedentemente pubblicato sotto lo pseudonimo di Stephen Daedalus) che costituisce un realistico spaccato della realtà dublinese dalla quale Joyce non riesce a staccarsi mai del tutto. Lavora adesso come insegnante d’inglese a Trieste, ed è appena diventato padre, versando in condizioni economiche ancor più critiche; nonostante ciò, alla richiesta dell’editore londinese di operare tagli e modifiche sull’opera per scongiurare il rischio di censura, risponde con il ritiro immediato del manoscritto, ritenendolo evidentemente destinato ad altri tempi. C’è nei racconti una Dublino immobile, statica, quasi quiescente, che incatena i suoi abitanti a una serie di retropensieri da cui non tutti hanno la forza di liberarsi. Quasi nessuno, in verità. Unica speranza per farlo è la fuga. E qui compaiono i primi tratti caratteristici dell’autore dell’intimo, e si affacciano alla sua mente quelle epifanie che contraddistingueranno la sua scrittura successiva. Fulminee rivelazioni, questi espedienti narrativi focalizzano l’attenzione su una consapevolezza spirituale acquisita per caso, attraverso la pratica di un gesto in apparenza privo di significato ma praticato in un momento di grande crisi emotiva. Tutti i protagonisti del romanzo vivono l’epifania e dunque la consapevolezza della propria condizione, ma nessuno riesce a staccarsene e il fallimento delle interconnessioni umane diviene inevitabile. Le cose cambiano, irrimediabilmente, e il soggetto riesce a vedere la realtà con una lente d’ingrandimento prima preclusa al suo sguardo. Il flusso di coscienza è quasi predittivo, e si concretizza nell’uso del discorso indiretto libero, sempre più estremizzato (quasi esasperato), fin quasi a rendere difficoltosa la lettura di alcuni passi. Il narratore non s’intromette mai, e il registro linguistico ben si confà a età, condizione sociale e grado culturale dei parlanti.

Ritratto dell’artista da giovane (noto come Dedalus in alcune traduzioni italiane – pregevole quella di Cesare Pavese – del 1916) ed Esuli (suo unico dramma, che risale al 1917) rappresentano delle manifestazioni “primitive” ma longeve dell’ardimento letterario di Joyce e dei suoi profondi moti di ribellione attraverso l’uso dei conflitti. Il personaggio dell’autobiografico Ritratto, Stephen Dedalus, verrà per esempio riesumato nell’Ulisse.

Ed eccolo l’Ulisse (pubblicato nel 1922), scritto quando lo James Joyce ha già raggiunto una maturità espressiva e contenutistica fuori dal comune. Il testo consta di 18 capitoli, ciascun capitolo destinato al racconto di un particolare periodo della giornata, cui si associano anche un colore, una scienza e una parte del corpo. Ambientato nella sua Dublino, è il racconto di una vita intera cristallizzato in una sola giornata. Nonostante la lunga gestazione creativa (quasi un decennio) il romanzo registra una sola giornata di vita (sceglie una data a lui cara: il 16 giugno, giorno in cui conosce la moglie Nora) di un uomo comune, l’eroe moderno Leopold Bloom. Il parallelismo con l’epicità anche strutturale dell’Odissea omerica si ritrova nell’apparente normalità di un uomo che con pacato, eroico coraggio affronta la sua quotidianità in una metropoli moderna, ricca di insidie e imprevisti capaci di consumare, silenziosamente, un uomo che neanche nella propria intimità casalinga è certo di trovare un porto sicuro. L’inquietudine e le perplessità del protagonista e degli altri personaggi vengono raccontati come da un nastro registrato, senza l’aggiunta di alcuna spiegazione accessoria. Joyce è autore silenzioso, equidistante, oggettivo. Senza la sua compartecipazione emotiva i pensieri scorrono liberamente e il lettore diventa spettatore di un’intimità nella storia dei protagonisti che si dipana senza sosta, e di cui inevitabilmente si entra a far parte. Segni particolari sono la successione spesso illogica o sconnessa delle frasi, la ridondanza (assenza di fantasia lessicale realistica nel suo essere istintiva, tipica di un parlato immediato) di alcune frasi o espressioni,  la notevole carenza di punteggiatura. Il monologo interiore non risparmia che pochi corpuscoli di vita; per il resto, le caleidoscopiche visioni delle coscienze che attraversano le strade di una interscambiabile Dublino raccontano delle lesioni di una quotidianità perturbante.

Finnegans wake (“Frammenti scelti”, 1939) è il suo ultimo romanzo, definito dallo stesso autore “L’ultimo delirio della letteratura prima della sua estinzione”. Disintegrato il romanzo tradizionale, resta ritmo e musicalità in quest’opera non sempre accessibile dal punto di vista della comprensibilità, a causa dell’avvicendamento di elementi onirici, mitologici, fantastici, religiosi, simbolici e umani, associati da leggi soggettive e personali che non rispondono ad alcuna logica precostituita.

Nel 1947 viene pubblicata postuma un’opera profondamente autobiografica ma ritenuta poco interessante dagli editori. Data alle fiamme, verrà parzialmente salvata dalla moglie, cosa che ne consentirà la pubblicazione col titolo Stephen Hero.

Dopo aver decretato la morte del romanzo tradizionalmente inteso sarà James Joyce stesso a morire, quasi cieco, nel 1941. Lascerà però al mondo una nuova identità letteraria, eredità impagabile e preziosa di un uomo che ha ricostruito una mentalità.

James Joyce è come il suo Leopold Bloom, maniacale, sfuggente ed ambiguo, sperimentatore introspettivo, lontano dai fatti e dalla politica del suo tempo, come dal  cattolicesimo,la cui dottrina è inconciliabile con la natura dello scrittore:

«Quando un’anima nasce, le vengono gettate delle reti per impedire che fugga. Tu mi parli di religione, lingua e nazionalità: io cercherò di fuggire da quelle reti. »

Tuttavia il moderno Joyce  pur opponendosi ai dettami della Chiesa cattolica, dentro di se ha sempre rivendicato l’appartenenza a quella tradizione.

 

 

Exit mobile version