Boris Vian, tra musica e letteratura, sperimentatore ineffabile

In nemmeno quarant’anni di vita, Boris Vian si è inserito nel panorama culturale parigino del primo Novecento nelle vesti più disparate: ingegnere, musicista, scrittore impegnato ed ironico. Un malato di cuore che per questo non è mai sazio di una vita di cui già presagisce la brevità. Nato nel 1920 a Ville-d’Avray e morto nel 1959 a Parigi, egli è al contempo figlio e padre del proprio tempo, subendone le tendenze e al contempo ravvivando queste ultime negli aspetti più prolifici. Con la sua variegata produzione artistica, tra musica e letteratura, sperimenta ogni possibilità di innovazione, indaga le profondità dell’animo umano in maniera insolita, ineffabile, sottendendo messaggi malinconici e reali, così attuali che si stenta a non classificare la produzione di Vian come profetica e futurista nel suo genere.

“Un poeta / è un essere unico / in tanti esemplari, / che pensa solamente in versi / e non scrive che in musica / su soggetti diversi / sia rossi che verdi / ma sempre magnifici.”
Boris Vian e la musica sono figli di una stessa epoca. Quando alleva un Vian adolescente, trombettista in erba, la musica riveste un ruolo materno; diverrà invece quasi una figlia, una protetta, quando sarà seguita, animata, promossa nelle sue forme più innovative da un Vian maturo, che di musica s’intende, che musica produce e promuove. Dall’acquisto, nel 1934, della prima tromba con la quale suona nel complesso costituito da amici e dai fratelli Lélio e Alain, a quando ingaggia Miles Davis nel 1957, di tempo ne è passato.

Le evoluzioni di Boris Vian in campo musicale sono da ascrivere al clima di generale rinnovamento artistico in cui il Jazz la fa da padrone, configurandosi come nuova tradizione, destinata a porsi come erede del Charleston degli Anni ‘20. Se la felice temperie culturale parigina ha contribuito ad attirare in Francia musicisti come Duke Ellington, ben presto si assiste al fiorire di nuovi gruppi Jazz quali il Quartet du Hot Club de France, oltre alle riviste settoriali nelle quali lo stesso Vian scrive numerosi articoli di critica e ritratti di artisti dell’epoca. Quando il jazz prende piede, a dispetto delle critiche antimoderniste ed antiamericaniste che rifiutavano il cosiddetto bepop, Boris Vian si colloca nei club del quartiere parigino di Saint-Germain, pian piano sostituitosi nella sua funzione a Montmartre. Cafè de Flore, Tabou, Saint-German (di proprietà dello stesso Vian) sono i club che si configurano come incubatori di una tradizione, punto di ritrovo non solo per musicisti ma anche per intellettuali (Quenau, Merleau-Ponty, Lemarchand, Camus, Sartre).

Se il Jazz degli Anni ’20, ai tempi della sua prima importazione, si inserisce a latere di una tradizione secondo la quale nei club si ballano ancora Tango e Valzer, ai margini di ciò che è comune e istituzionalizzato rimane anche più tardi, negli Anni ’40,  quando il governo di Vichy, collaborazionista e conservatore, tra le sue riforme moralizzatrici inserisce l’imperativo “rasare gli zazous”- i giovani con capelli lunghi raccolti in un codino, vestiti di giacche lunghe, pantaloni attillati e ombrello. Ancora una volta ai confini del divertissement si colloca dunque le zazou, un jazz che è una forma di resistenza, un passatempo contestatario, avverso al regime poiché sospettato di simpatizzare con gli alleati e i neri americani. Scampato ai rastrellamenti a causa dei problemi di cuore, Vian emblema della Saint-German di quell’epoca non fa nulla per mettere a tacere le voci che gridano allo scandalo del preteso libertinismo caratteristico dei club, degli orari d’apertura prolungati nella notte, dell’immaginario del club come catacomba moderna dove la buona gioventù si dissolve assieme ai buoni costumi. Proprio quei luoghi, tutt’altro che ricettacolo di corruttela e depravazione, sono stati banco di prova unico di un Boris Vian (divenuto direttore del reparto jazzistico della Philips) ormai punto di riferimento per i musicisti americani di transito in Francia, e al contempo banco di prova ultimo per una Parigi che dopo il periodo di Saint-Germain, a partire dalla metà degli Anni ’50 non sarà più un’attrattiva per i musicisti come lo era per le vecchie generazioni e non potrà più competere con una New York che si avviava ad essere l’indiscussa capitale del Jazz.

Se fin qui si può pensare che ci sia molta storia e poco Boris Vian, si è destinati a ricredersi. Nel momento stesso in cui l’attività artistica di Vian non può essere nettamente definita in un preciso ruolo, un determinato genere, una cronologia costante, si vede come ciò che rimane da considerare è il tempo inteso come “lunghezza”, se si considera l’arco della sua vita (1920-1959) come “epoca”, se si considera che la temperie culturale in cui l’akmè di Boris Vian va collocata influenza e contemporaneamente è influenzata da quest’ultimo, che ne è parimenti figlio e padre. Ecco come Vian non è solo nella Saint-Germain del jazz e della cultura, ma è la Saint-Germain del jazz e della cultura.
Qualora si tenti di definire entro confini netti la produzione di Vian, ci si accorge di trovarsi a camminare su un terreno paludoso. Difficile inquadrare, riassumere, sintetizzare i prodotti della sua attività, restia ad essere soggetta ad etichettature. Ineffabile è l’aggettivo che per certi versi risulta adeguato a descrivere lo stesso Vian autore, lontano dal voler essere digerito dalla critica in una determinata veste o in un determinato ruolo. In meno di quarant’anni è vissuto un Vian “imprenditore” (proprietario del club Saint-German), come un Vian laureato in ingegneria metallurgica; c’è poi il giornalista critico, il traduttore, il romanziere, lo sceneggiatore teatrale, il Patafisico. A ben guardare, se musica e letteratura non sono le uniche componenti della sua vita, sono senz’altro i campi in cui l’estro di Vian si esprime in maniera più prolifica e completa. Autore di più di cinquecento canzoni, dieci romanzi, sette opere teatrali, è senz’altro al suo lettore che  Boris Vian fornisce la più funzionale chiave d’accesso per la comprensione della sua poetica e della sua persona. L’aspetto più affascinante che emerge dalla lettura delle sue opere è la contraddizione tra l’uno e il molteplice.

La spiccata tendenza alla poliedricità che si riscontra nella sua biografia, la si può trovare nella stessa produzione letteraria. Le sue molte vite si intravedono forse nella eteronimia degli pseudonimi: si pensi al famoso Vernon Sullivan col quale, per sfuggire alla censura, pubblicò romanzi hard boiled (neonato genere americano di noir caratterizzato da lessico e descrizioni forti e crude). L’eclettismo si coglie nei romanzi in cui l’intreccio tendente all’assurdo e all’inverosimile, è intriso di particolari, indizi, sfumature senza cogliere i quali la comprensione del romanzo risulterebbe parziale e manomessa. La stessa tecnica di allusione, le atmosfere surreali e quasi oniriche, le metafore, la retorica dell’assurdo, vogliono deliberatamente stravolgere la prosa canonica, la classica comprensibilità del buon romanzo borghese.

In Autunno a Pechino ad esempio, si nota un utilizzo del titolo e delle citazioni improntato al non-sense: se da una parte le citazioni introduttive a ciascun capitolo sembrano non aver nulla a che vedere con l’argomento del capitolo che segue, dall’altra non c’è alcuna pertinenza fra contenuto del romanzo e un autunno a Pechino. Anzi, una dimensione parallela e desertica denominata Exopotamia fa da sfondo desolante alle vicende che coinvolgono i personaggi, giunti lì per contribuire alla costruzione di una ferrovia destinata a non portare in nessun luogo. Il romanzo trasmette un messaggio ineffabile, che inizialmente si stenta a cogliere nel suo significato più profondo ma di cui si sente l’eco tremendamente malinconico. Di nuovo, unicità e molteplicità si ravvedono ne La schiuma dei giorni, storia d’amore che letteralmente inghiotte i due protagonisti. E’ solo una trama a sfondo sentimentale? In esso c’è il germe di una critica sociale? Trasmette una visione tragica, una morale nichilista, pessimista? Probabilmente tutte queste domande costituiscono possibili chiavi di lettura e di ri-lettura. Ognuna di esse fornisce una lettura pluralista, uno sguardo focale sul molteplice. L’irrealismo e l’assurdo non si configurano dunque come contrapposizione alla realtà, rifugio da essa, negazione di essa ma al contrario sono sua lucida rappresentazione. Ineffabilità mista a concretezza, singolarità e molteplicità, sono affiancate da un linguaggio del tutto originale e talvolta straniante, caratterizzato da giochi di parole e neologismi. Con Boris Vian sembra quasi che la poesia e i suoi stilemi siano penetrati nella prosa. Insolito narratore ed abile dissacratore, conduce una sottile critica ad ogni forma di diktat culturale. Da animatore del club di Saint-Germain, alla velata parodia dell’erudizione fine a se stessa, dell’esistenzialismo ormai divenuto di moda in quegli anni – lo ridicolizza proprio lui che collaborava con la rivista Les Temps Modernes e che era amico di Sartre.

Le sue peculiarità sono distorsione, straniamento, manomissione assieme a straordinaria profondità di riflessione, sensibilità, originalità. Artista engagé ma al contempo ironico, è caratterizzato dal rifiuto di ogni economia, ogni astensione, da uno spirito vitalistico sfrenato che non scade mai nell’esaltazione o nell’autodistruzione.
Un sano e sfrenato desiderio di vivere che si spense con lui la mattina del 23 giugno 1959, a trentanove anni, nel Cinema Marbeuf dove Boris Vian assisteva alla prima cinematografica di J’irai cracher sur vos tombes (Sputerò sulle vostre tombe),controverso romanzo edito sotto pseudonimo.

“Distruggono il mondo / In pez i /Distruggono il mondo / A colpi di martello / Ma non mi importa / Non mi importa davvero/| Ne rimane abbastanza per me / Ne rimane abbastanza / Basta che io ami / Una piuma azzurra / Una pista di sabbia / Un uccello pauroso / Basta che io ami / Un filo d’erba sottile/| Una goccia di rugiada / Un grillo di bosco / Possono rompere il mondo / In frantumi / Ne rimane abbastanza per me […].”

 

Fonte: BorisVian-L’intellettuale dissidente

“Trilogy”: in ricordo di Keith Emerson

Trilogy-Island-1972

In ricordo di Keith Emerson

In questo annus horribilis per il rock è da segnalare la scomparsa, il 10 marzo scorso, di Keith Emerson, forse il miglior pianista, tastierista, organista (insieme a Rick Wakeman) dell’intero panorama musicale del secondo dopoguerra. Geniale, istrionico, raffinato, spettacolare (leggendarie le coltellate inflitte sul palco al suo organo Hammond), tecnicamente inarrivabile, Keith Emerson è stato paragonato più volte a Jimi Hendrix per le innovazioni, i suoni e le soluzioni armoniche apportate allo strumento. Gran compositore, arrangiatore e produttore è stato capace di unire i tumulti del rock alle suggestioni classiche diventando immediatamente un gigante del progressive rock. Innovatore, sperimentatore, è stato un pioniere nell’utilizzo del sintetizzatore Moog da lui immediatamente trasformato in un classico per milioni di tastieristi. Non va però dimenticata la sua folgorante parabola musicale cominciata con i T-Bones, proseguita egregiamente con i Nice e culminata nel trionfo degli EL&P con cui diventa una superstar ed assurge a gloria imperitura. E’ proprio con uno degli album del più celebre supergruppo degli anni ’70 che intendo omaggiare Keith Emerson: il magnifico Trilogy. Pubblicato nel luglio del 1972, è l’album in cui il sound del gruppo assume la sua forma definitiva grazie allo sviluppo di suggestioni musicali già presenti in Tarkus (1971) e Pictures At An Exhibition (1971).

“Se fossi costretto a scegliere un solo album dal catalogo di ELP, allora probabilmente sarebbe Trilogy, Questo disco fu registrato nel momento in cui ispirazione e affiatamento all’interno della band erano al massimo: suonavamo in trio da un arco di tempo sufficiente a formare la nostra precisa identità musicale” (Greg Lake)

La monumentale suite The Endelss Enigma prende buona parte del lato A. Divisa in tre movimenti, Part.1, Fugue e Part.2, vede in grande evidenza la batteria tonante di Carl Palmer e le inarrivabili divagazioni pianistiche di Emerson. Di stupefacente bellezza tecnica, questo pezzo mette in mostra le grandissime doti dei tre musicisti capaci, di riprodurre le suggestioni di un’orchestra sinfonica. La stupenda ballata From The Beginning evidenzia le voce di Greg Lake e le sue qualità di bassista-chitarrista, dando vita ad pezzo dilatato, sognante e malinconico.

Keith Emerson

La sincopata The Sheriff introduce una grandissima rivisitazione di Hoedown, brano di Aaron Copland, che diventerà un classico delle esibizioni live del gruppo. La mastodontica title-track è il capolavoro pianistico di Keith Emerson che qui mette in mostra tutto il suo genio, giocando con le note e gli effetti, supportando magnificamente il cantato lunare di Lake e l’energia percussiva di Palmer. Il rock di Living Sin traghetta verso Abbandon’s Bolero che con il suo maestoso crescendo chiude il disco. Si tratta di un disco difficile che necessita della conoscenza approfondita di linguaggi musicali distinti, quali il jazz, l’honky tonk, la musica classica, per essere capito ed apprezzato fino in fondo. La bellezza è indubbia ma si tratta di un opera di difficile digestione che certamente può non colpire al primo ascolto. Tuttavia le vendite sono enormi e le recensioni entusiastiche. I concerti diventano l’occasione per milioni di fan di vedere le pirotecniche esibizioni degli EL&P, fatte di luci, spettacolo e milioni di note. Emerson diventa un guru del rock capace di incantare chiunque con la potenza delle sue performance la magia del suo organo. Subito dopo Trilogy il gruppo si perderà, nonostante la fama, in scelte sbagliate e cali di creatività finendo inevitabilmente per sciogliersi nel 1979. I vari progetti solisti non porteranno i tre ai traguardi raggiunti negli anni ’70, relegandoli al mito di una stagione musicale eccezionale ed esaltante e, soprattutto adesso che Keith Emerson se n’è andato, probabilmente irripetibile.

“The Dictionary Of Soul”: la grammatica di Mr.Redding

Che cos’è il soul?

The Dictionary Of Soul- Atlantic Records-1967

La risposta a questa semplice domanda può essere molto complessa. Il termine stesso implica un “sentire” di difficile definizione. Si può scegliere di darne una descrizione molto standardizzata, ossia: sottogenere musicale scaturito dal Rhythm And Blues in cui si fondono influenze gospel, jazz, blues e doo woop; oppure si può ascoltare “Complete & Unbelievable: The Otis Redding Dictionary of Soul”, che già nel titolo contiene l’atto di nascita e la definitiva consacrazione della “musica dell’anima”. In questo caso la risposta non si ottiene tramite le parole, ma attraverso l’ascolto e le sensazioni che questo stile è in grado di suscitare. E’ il modo forse più semplice di approcciare e capire cosa sia la “soul music”. Lo sa bene Otis Redding che riesce ad infondere, in tutto il suo repertorio ma soprattutto in quest’album, tanto pathos, tanto fascino e tanta suggestione da divenire, in breve tempo, il più famoso e celebrato artista soul di tutti i tempi. Basti pensare che nel giugno del 1967 è l’unico rappresentante del genere ad essere invitato sul palco del Monterey Pop Festival a fianco di artisti quali Jimi Hendrix, Janis Joplin, The Animals e Simon & Garfunkel.

 “Il cantato di Redding ricorda una fervente preghiera nera” (Michael Campbell and James Brody- Rock and Roll: An Introduction)

The Dictionary Of Soul rappresenta Redding al suo apice. La voce grezza ed implorante, gli ottoni infuocati, il ritmo pulsante fanno dei brani contenuti in quest’album dei classici immediati sia che si tratti di cover, sia che si tratti di pezzi originali. Basta ascoltare i fiati sinuosi di Fa Fa Fa Fa Fa (Sad Song), storico brano di apertura, per capire immediatamente l’atmosfera che permea il disco.

Otis Redding At Monterey Pop Festival-1967

A dispetto del titolo e del testo malinconico, il ritmo è travolgente e accattivante caratterizzato, nel ritornello, da un originale duetto in forma di “domanda/risposta” tra la band ed il cantante. Si prosegue con la torrida I’m Sick Y’All, la malinconica Tennesse Waltz, la torrenziale Sweet Lorene, per arrivare alla monumentale Try A Little Tenderness, forse il brano più rappresentativo del disco ed uno dei più significativi di Redding in assoluto. La voce passa da un cantato confidenziale fino ad esplodere in una disperata richiesta d’amore, sostenuta dall’incredibile lavoro strumentale dei Booker T. & M.G.’s e dei Bar-Kays. La beatlesiana Day Tripper passa dalle squillanti tonalità tipiche del Liverpool Sound, alle sonorità ruvide e scure del Mississippi. Il lato B è quasi interamente composto da brani originali tra i quali spicca My Lover’s Prayer mirabile distillato di puro Memphis Soul. Continuando il viaggio attraverso gemme quali She Put The Hurt On Me, Ton Of Joy, You’re Still My Baby, Hawg For You e Love Have Mercy, si può arrivare a capire il vero significato della parola soul e la grandezza di Otis Redding quale personaggio chiave della black music, Nella sua voce è racchiusa tutta l’evoluzione della musica nera americana dallo spiritual cristiano fino al moderno R’N’B, passando per il lamento blues di Robert Johnson, il gospel di Mahalia Jackson e le finissime incisioni di Sam Cooke. Pochi altri artisti hanno avuto la capacità di suscitare sensazioni così intense e profonde col semplice ausilio delle corde vocali proprio grazie a questa abilità di riassumere le caratteristiche principali di ognuno di questi generi incanalandole in uno stile innovativo e affascinante. L’influenza è, nemmeno a dirlo, enorme. Tutti gli artisti neri, dalla fine degli anni ’60 in poi, pagano pegno, in un modo o nell’altro, alla figura di Otis Redding. Basta ascoltare le incisioni di Aretha Franklin, Stevie Wonder, Marvin Gaye, Curtis Mayfield e Sly & The Family Stone per rendersene conto. Una gloria continua, un fascino innegabile ed inesauribile che neppure la morte è riuscita a scalfire.

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