“Here’s Little Richard”: la via nera al rock’n’roll

Here's Little Richard-Specialty Records-1957
Here’s Little Richard-Specialty Records-1957

Il rock’n’roll non è nato dal nulla. Per anni studiosi e musicologi hanno tentato di capire quale fosse la fonte primigenia ed indiscutibile della “musica del diavolo” senza tuttavia riuscire a trovare una risposta univoca e soddisfacente. Persino sulla data di nascita c’è discordanza. Personalmente ritengo che il rock’n’roll sia nato da due filoni musicali differenti per poi fondersi in un’unica corrente. Esiste il r’n’r “bianco”, derivato da country e bluegrass ed il r’n’r “nero, derivato da blues, gospel, jazz e swing. Bill Haley, Elvis Presley, Jerry Lee Lewis, Johnny Cash erano aspiranti cantanti country che hanno cercato di svecchiare la tradizione americana. Chuck Berry, Little Richard, Bo Diddley dal canto loro sono bluesman o cantanti di gospel che hanno tentato di diffondere e “nobilitare” la musica nera. In particolare Little Richard (nato Richard Penniman) è una delle figure iconiche del genere che, grazie ai suoi pezzi infuocati, al suo look eccessivo ed alle sue interpretazioni superlative ha semplicemente fatto scuola aprendo la strada al funk ed al soul. La sua infuocata miscela di piano “boogie”, ottoni incandescenti, l’uso del non-sense, i caratteristici urli che spezzano il cantato, una voce roca, implorante, altissima, lo rendono immediatamente riconoscibile e ne fanno uno dei più grandi artisti dell’ultimo mezzo secolo.

“Venivo da una famiglia in cui a mio padre non piaceva il rhythm and blues. Bing Crosby, “Pennies From Heaven”, Ella Fitzgerald: ecco tutto ciò che mi capitava di ascoltare. E sapevo che c’era qualcosa che poteva essere molto più rumoroso, ma non sapevo dove trovarlo, Poi lo scoprii in me” (Little Richard- Rolling Stone-1970)

Brani semplici, trascinanti, testi immediatamente memorizzabili e cantabilissimi ne decretano l’immediato successo che arriva all’indomani della pubblicazione di una manciata di singoli che saranno poi riuniti nell’epocale album di debutto, Here’s Little Richard, pubblicato nel marzo del 1957.

Little Richard sul palco

Il primo brano in scaletta basta a dare la scossa. Tutti Frutti con la sua leggendaria intro, forse uno dei testi più ispirati e noti di sempre, non ha certo bisogno di presentazioni. Ricantata praticamente da tutti è un’evergreen ancora in grado di riempire ogni sala da ballo del pianeta. True Fine Mama è un altro indiavolato boogie basato sul botta e risposta tra la voce principale ed il coro. Il blues (che si trasforma magicamente in uno slow) di Can’t Believe You Wanna Leave concede una piccola pausa prima che il ritmo torni ad essere travolgente con Reddy Teddy, semplicemente uno dei brani più celebri del rock. La splendida Baby, la magnifica Slippin’ And Slidin’, con la sezione fiati in grandissima evidenza, l’arcinota Long Tall Sally, vera materia d’esame anche per i Beatles, l’accorata Miss Ann, l’implorante Oh Why?, la tambureggiante Rip It Up (altro classico), gli urli di Jenny Jenny, la trascinante She’s Got It, non ne fanno solo un’ottima raccolta di singoli ma uno delle opere fondamentali del r’n’r. Non ci sono pause al ritmo, la tensione rimane sempre altissima dalla prima all’ultima canzone. Non c’è impegno intellettuale, denuncia sociale o poesia in musica, liriche semplici, onomatopeiche, quasi scioglilingua, adatte a far ballare la gente, facili da ricordare e da cantare. Semplici storie giovanili, che siano d’amore o di divertimento poco conta, asservite alla melodia ed al ritmo della canzone. Non importa ciò che dice Little Richard, importa come lo dice. Dal punto di vista compositivo e tecnico i brani sono basati su un giro armonico di pochi accordi, che li rende immediati, accattivanti ed assolutamente riproducibili, sia dal ragazzo con la chitarra come dalla big band. Forse è proprio questa trasversalità il segreto del successo praticamente perenne di quest’album che, evidentemente, trascende ogni limitazione spazio-temporale per assumere lo status di “pietra miliare” o di “patrimonio culturale dell’umanità”. Certo gli anni ’50 sono passati da un pezzo, il rock è cambiato, si è evoluto, ma sfido chiunque a rimanere fermo ogni volta che qualcuno attacca “A wop bop a lu bop a lop bam boom”.

At Folsom Prison: la resurrezione di Johnny Cash

Johnny Cash At Folsom Prison-Columbia Records-1968

L’album At Folsom Prison di Johnny Cash rappresenta una favola, esso infatti è solo il punto di arrivo di un percorso fatto di tormento, sofferenza, umanità e redenzione. A metà degli anni ’60, la parabola artistica di Johnny Cash,  è in fase decisamente calante. Il successo travolgente degli esordi, in cui era perno del Million Dollar Quartet insieme a Elvis Presley, Jerry Lee Lewis e Carl Perkins durante il periodo d’oro della Sun Records, è un lontano ricordo. I giovani, affascinati da nuove sonorità sembrano voltargli le spalle. Le vendite sono in picchiata e nessun produttore è pronto ad investire un solo centesimo su di lui. A ciò si devono aggiungere i numerosi problemi con la legge causati da un crescente abuso di droghe che ne rafforzano la cattiva reputazione e ne accrescono la fama di “fuorilegge”. Non proprio un momento felice dunque il cui superamento richiede un grandissimo sforzo umano e professionale. L’amore di June Carter gli fornisce la forza per disintossicarsi ed il coraggio per tentare un’impresa apparentemente assurda atta a celebrare la sua seconda vita.

L’idea è di incidere un live, ma deve essere qualcosa di epocale, di indimenticabile, in grado di presentare al mondo “il nuovo Johnny Cash”. La scelta ricade su un concerto per i detenuti del carcere di massima sicurezza di Folsom in California. Ovviamente la decisione desta scandalo. E’ la prima volta che un artista si esibisce in un penitenziario. Il rischio sia commerciale che fisico è altissimo. D’altro canto però è un’impresa che denota grande sensibilità umana e notevole impegno sociale. The Man In Black ha sempre mostrato interesse per le condizioni in cui versano i carcerati, a causa dell’arresto subito nel 1965, e vive questa possibilità come un atto dovuto. E’ entusiasta di esibirsi tra le mura di Folsom e se ne infischia di tutti coloro che gli consigliano di rinunciare e di optare per una soluzione più semplice. Anche il produttore Bob Johnstone si dimostra favorevole ed il progetto va in porto. Il 13 gennaio del 1968 si tiene, dunque, uno degli show più memorabili della storia. Carl Perkins apre il set con la sua Blue Suede Shoes , gli Statler Brothers con Flowers On The Wall e This Old House traghettano la platea verso il pezzo forte dello spettacolo. Johnny Cash fa il suo ingresso sul palco e, dopo la sua consueta frase di saluto “Hello i’m Johnny Cash”, guida gli estasiati spettatori verso una cavalcata trionfale.

Il set si apre ovviamente con Folsom Prison Blues, sul cui verso “but I shot a man in Reno just to watch him die” i detenuti vanno letteralmente in delirio, e prosegue snodandosi attraverso Dark As A Dundgeon, I Still Miss Someone, Cocaine Blues, 25 Minutes To Go (una sorta di conto alla rovescia verso la forca), Orange Blossom Special, Send A Picture Of Mother, Jackson, Green Green Grass Of Home, Greystone Chapel, tutte canzoni maledette di cui Cash fornisce magistrali interpretazioni dovute, con tutta probabilità, al clima di totale empatia tra pubblico ed artista instauratosi durante il concerto. Nel disco è infatti chiaramente percepibile il feeling tra i carcerati, che considerano Cash quasi come uno di loro ed il cantante che nutre simpatia ed infinito rispetto per quei suoi spettatori cosi particolari.

Pieno di quella emotività che raramente si trova nel rock” (Richard Goldstein-The Village Voice)

A fronte del piccolissimo investimento economico iniziale l’album riscuote un successo strepitoso. Vola al primo posto della country charts e al 13 posto della hit parade. Ma è il valore storico e documentale dell’opera che conta. At Folsom Prison è stato il primo live di rilevanza “sociale” della storia ed il suo esempio è stato seguito da numerosi artisti nel corso degli anni. Cash stesso pubblicherà due anni dopo il disco At San Quentin, BB King tenterà un’analoga esperienza dando alle stampe nel 1971 il Live At Cook Country Jail, fino ad arrivare ai Metallica che nel 2003 girano il video di St. Anger nel carcere di San Quintino.

Johnny Cash at Folsom

La musica country e rock entra per la prima volta in luoghi fino ad allora considerati tabù e si fa portavoce di diritti umani e solidarietà tralasciando per una volta il mero calcolo economico e le regole dello spettacolo. L’artista si spoglia momentaneamente del suo status di star schierandosi apertamente a favore dei disagiati mettendo a disposizione la sua potente voce per attirare l’attenzione su problematiche ed istanze troppe volte ignorate. Johnny Cash è stato il primo a capire che le sue canzoni, oltre a far soldi, potevano servire ad uno scopo più nobile ossia portare un po’ di sollievo dove ce n’è bisogno, a chi ne ha bisogno. Tutto il resto per un momento può aspettare.

“Elvis Presley”: la nascita di un mito

Elvis Presley-RCA-1956

Dopo le prime, storiche, incisioni per la Sun Records di Sam Phillips, l’allora vent’enne Elvis Presley era già un uomo da 35.000 dollari. Tale infatti è la somma sborsata dalla RCA per accaparrarsi la voce, le movenze, i diritti e l’istinto del giovane artista di Tupelo. Questa manciata di registrazioni effettuate per la piccola label di Memphis, unitamente alle prime incendiarie esibizioni nei teatri locali, avevano, infatti, contribuito a ridefinire i parametri della musica giovanile degli Stati del Sud. Del resto Elvis aveva delle caratteristiche che nessun cantante fino ad allora aveva mai posseduto. La sua sensualità debordante, la sua abilità nel “tenere” il palcoscenico, la capacità di catalizzare l’attenzione di occhi e orecchie suscitando veri e propri fenomeni d’isteria collettiva unitamente alla voce più sexy mai udita, lo trasformano ben presto in una icona il cui impatto sulla cultura americana è paragonabile, per forza ed effetto, solo al terremoto di San Francisco del 1906.

Prima di Elvis il mondo era in bianco e nero. Poi è arrivato… ed ecco un grandioso technicolor”. (Keith Richards)

Il passaggio alla RCA segna la definitiva consacrazione del giovane Presley (consentendo alla Sun Records di sopravvivere ancora qualche anno; quel tanto che basta per lanciare altri “mostri sacri” quali Johnny Cash, Carl Perkins, Jerry Lee Lewis e Roy Orbison) ed il suo trionfale ingresso nello star system. La nuova casa discografica, intelligentemente, per cercare di riprodurre il clima di spontaneità che regnava nel piccolo studio di Memphis, lascia praticamente carta bianca al cantante arrivando ad affiancargli perfino gli stessi musicisti che lo hanno accompagnato nelle prime prove davanti al microfono (Scotty Moore alla chitarra e Bill Black al contrabbasso). I risultati non sono però elettrizzanti. L’aria che si respirava nelle stanze della grande multinazionale, probabilmente impediva ad Elvis di lavorare con la scioltezza sia fisica che mentale sfoggiata alla corte di Sam Phillips tanto che, nel disco d’esordio, intitolato semplicemente Elvis Presley, sono contenuti brani registrati qualche anno prima nella sua città natale. Nonostante tutto la furia iconoclasta della nuova stella giovanile esce fuori in tutta la sua potenza dai microsolchi di questa epocale opera prima.

Elvis “The Pelvis”-1956

Da Blue Suede Shoes ad I Got Woman, da Just Because a Tutti Frutti, da Blue Moon a Money Honey, quest’album rappresenta la quint’essenza del rock, la fonte primigenia da cui nascerà la musica popolare della seconda metà del XX secolo. Pubblicato nel marzo del 1956 diventa il primo disco della storia a vendere un milione di copie. La storica copertina, con il nome del cantante in lettere rosa e verdi, viene ripresa da un’ infinità di gruppi (i Clash in London Calling, Tom Waits in Rain Dogs, K.D.Lang in Reintarnation solo per citarne alcuni) diventando un oggetto di culto. Ma non è di certo solo il fascino della copertina o la bravura del cantante a farne una pietra miliare. La sua forza sta nell’essere l’indiscusso trait d’union tra bianco e nero, tra melodia ed istinto, tra country e blues ovvero le due grandi anime della musica americana. Una commistione rarissima, quasi un miracolo di fronte al quale non si poteva in alcun modo restare indifferente, nel bene o nel male. Inoltre si può dire che Elvis Prelsey sia stato il primo disco di un giovane per i giovani, concepito e dedicato ai teenager, che fino a quel momento erano praticamente ignorati dall’industria discografica. Una vera e propria rivoluzione copernicana dopo la quale niente sarà più come prima.

“Nebraska” di Bruce Springsteen: Il Boss è nudo!

Bruce Springsteen nel 1988

Si sarebbe potuto scrivere un articolo su Born To Run….certo; su Human Touch o su The Wild, The Innocent & The E-Street Shuffle ma perché scegliere un disco di minor prestigio come “Nebraska” per omaggiare Bruce Springsteen? Il perché è presto detto. “Nebraska” è puro Springsteen. Inciso in perfetta solitudine e con strumenti acustici, quest’album presenta il lato più vulnerabile, poetico e malinconico del Boss. C’è tanto dolore e tanta speranza, sogni infranti e ricordi traslucidi scovati tra le pieghe di un’America in bianco e nero.

In fondo basta poco, una chitarra, un’armonica a bocca, un mandolino, un tamburello, un registratore a quattro piste ed una manciata di brani splendenti come diamanti per dare vita ad un capolavoro. Nato come semplice demo di inediti da incidere successivamente con la mitica E-Street Band, “Nebraska” è uscito esattamente come era stato registrato. Lo stesso Springsteen, dopo innumerevoli ed insoddisfacenti tentativi di arrangiamento per gruppo rock, ha preferito mantenere le versioni originali.
“Stava per essere una demo. Poi avevo un piccolo Echoplex, ho mixato i brani e questo è tutto. E quello era il nastro che poi sarebbe diventato il disco. Era fantastico quello che avevo fatto, perche portavo quella cassetta con me nella mia tasca senza un motivo per un paio di settimane, solo per portarla in giro. Infine, ci siamo resi conto, “Uh-oh, abbiamo l’album” (Bruce Springsteen-Rolling Stone-1984)
Pubblicato nel 1982, classico vaso di terracotta tra due vasi di ferro quali The River e Born In The USA, questo lavoro inizialmente spiazzò sia fan che addetti ai lavori a causa della sua lentezza e semplicità.
Mancano il rock muscolare e gli inni da stadio tipici dello stile springsteeniano, a favore di atmosfere più rarefatte “casalinghe”, un cantato più sussurrato e suoni decisamente unplugged. Il favore del pubblico e della critica però non tarda ad arrivare grazie all’indiscutibile bellezza di brani come Mansion On The Hill, Atlantic City, Reason To Believe e l’incredibile Highway Patrolman, forse una delle poche canzoni ad aver ispirato un film (“The Indian Runner” di Sean Penn). “Nebraska” non è che l’apice di un mutamento nella musica di Springsteen cominciato con Darkness On The Edge Of Town e confermato, poi, nei lavori successivi. L’entusiasmo giovanile, la spensieratezza, l’amore cedono il passo alla disillusione, al disincanto, all’amarezza sullo sfondo di un’America che smette di essere the promised land per trasformarsi in un luogo pieno di contraddizioni, violenza e dolore. Uno dei primi ad apprezzare quest’album è stato un monumento della musica mondiale: Johnny Cash che ha inciso sentite versioni di Higway Patrolman e Johnny 99.

 

 

Nebraska-Columbia Records-1982

Numerosi altri artisti, nel tempo, hanno seguito la scia del Man In Black. Nel 2000 esce addirittura un album, intitolato Badlands: A Tribute To Bruce Springsteen’s Nebraska, in cui musicisti del calibro di Ben Harper, Steve Earle, Ani Di Franco, Hank Williams II, ripropongono integralmente questo oscuro capolavoro (chiaramente riveduto e corretto). L’impatto di “Nebraska” sulla cultura musicale, americana e non, è stata e continua ad essere più forte del previsto. Probabilmente le tematiche altamente evocative ed una miscela particolarmente riuscita tra parole dalla forte valenza poetica e note straordinariamente suggestive hanno reso questo disco un classico imperdibile; è Springsteen che canta sé stesso e per sé stesso.

Non ci è stato un lungo tour promozionale, non ci sono stati estratti singoli spacca-classifiche; “Nebraska” è la testimonianza di un artista che ha il coraggio di guardarsi dentro, affrontare i suoi demoni e sconfiggerli imprigionandoli su nastro. Il resto non conta. Segno evidente che il Boss era cambiato, che il mondo era cambiato, forse in maniera irreversibile.

 

Di Gabriele Gambardella.

Exit mobile version