James Joyce e Italo Svevo. Dello scrivere di sé

Si ricordi di me se in qualsiasi momento il mio aiuto potrà servire a mantenere vivo il ricordo di un mio vecchio amico per il quale ho sempre nutrito affetto e stima. A lei, cara Signora Schmitz, e a Sua figlia tutta la nostra solidarietà. Sono le ultime righe della lettera di James Joyce del 24 settembre 1928 spedita a Livia Veneziani, rimasta vedova dopo che, undici giorni prima, Ettore Schmitz, in arte Italo Svevo, era deceduto a seguito delle complicazioni di un incidente stradale a Motta di Livenza, in provincia di Treviso.

All’epoca Joyce viveva da tempo a Parigi, era fra gli autori più famosi a livello internazionale a seguito della pubblicazione di Ulisse e da alcuni anni si stava dedicando alla scrittura di Finnegans Wake. Italo Svevo, rimasto per quasi tutta la vita in ombra come scrittore, ebbe solo pochi anni per godersi la tanto agognata fama infine riconosciutagli in Europa e soprattutto in Italia, a seguito dell’uscita nel del suo ultimo romanzo La Coscienza di Zeno, grazie agli interventi del suo amico James Joyce in primis e di Eugenio Montale poi.

Grazie del romanzo con la dedica. Ne ho due esemplari anzi, avendo già ordinato uno a Trieste. Sto leggendolo con molto piacere. Perché si dispera? Deve sapere ch’è di gran lunga il suo migliore libro.                                                        

(Lettera di James Joyce a Italo Svevo del 30/1/1924)

I due si conobbero presumibilmente fra il 1906 e il 1907 a Trieste, città nella quale Joyce, abbandonata l’Irlanda nel 1903, viveva assieme alla compagna Nora e al piccolo Giorgio. Galeotto fu l’inglese, la lingua che Svevo doveva perfezionare per i suoi viaggi di lavoro per conto della ditta di vernici del suocero, durante quel lungo periodo in cui si trovò a trascurare la sua passione letteraria, scottato dagli insuccessi dei suoi primi due romanzi, Una vita e Senilità, stampati a sue spese sul finire del secolo XIX. Anche Joyce era ancora distante dalla fama che otterrà negli anni ’20, avendo da poco pubblicato il suo primo libro, la silloge poetica Musica da Camera, con scarso riscontro di vendite e critica. A Trieste però era già un rinomato insegnante di inglese per la Berlitz School, cosicché Svevo, vent’anni più grande di lui, non se lo lasciò sfuggire e le lezioni cominciarono.

Ciò che dal loro incontro fece fiorire una vera amicizia non fu però tanto l’inglese, quanto la passione per la scrittura che li accomunava; fin dai primi incontri si confessarono le reciproche predilezioni letterarie e si scambiarono i propri scritti. Joyce lesse i due romanzi di Svevo e ne rimase colpito, Svevo ebbe la possibilità di trovarsi fra le mani i manoscritti dei primi capitoli del Ritratto dell’Artista da Giovane e di ascoltare dalla stessa voce di Joyce la lettura di alcuni dei racconti che sarebbero anni dopo confluiti nella raccolta I Dublinesi. L’amicizia era iniziata.

 

Caro Sig. Joyce, molte grazie per il Suo gentile regalo. Può immaginare con quanta attenzione leggerò il lavoro del mio maestro e amico. Sicuramente parlerò del nuovo libro con tutti coloro che credo possano essere interessati a un’opera in inglese di contenuto irlandese. […] Spero che presto mi offrirà l’opportunità di parlare con Lei delle tante Sue pagine che ho avuto modo di leggere.

(Lettera di Italo Svevo a James Joyce, 26/6/1914)

Già dalle lettere che si scambiarono è evidente come nel tempo il loro legame si fece duraturo e solidale. Svevo aiutò più volte economicamente Joyce, sempre a corto di denaro, e Joyce, quando divenne famoso con Ulisse, riuscì a rendere famoso anche il suo amico con La coscienza di Zeno, che uscirà nel 1923, un anno dopo Ulisse. Sono infatti proprio le pagine dei loro grandi romanzi a restituirci e confermarci ancora oggi le tracce delle loro intese.

Possiamo riconoscere molti aspetti tipici di Italo Svevo in Leopold Bloom, il protagonista di Ulisse, fra cui il fatto di essere entrambi ebrei ribattezzati di origini ungheresi, nati in una patria assoggettata (Dublino sotto l’impero britannico e Trieste sotto quello austro-ungarico). Così come fu lo stesso Joyce a informare l’amico di essersi ispirato a sua moglie, Livia Veneziani, per il personaggio di Anna Livia Plurabelle in Finnegans Wake: i suoi lunghi capelli biondo-rossastri gli ricordavano il fiume Liffey di Dublino, del quale la protagonista del libro diviene personificazione. Pochi mesi prima della sua improvvisa scomparsa, Svevo scrisse a Joyce di volergli fare dono di un ritratto della moglie dipinto da un noto amico e pittore triestino, Umberto Veruda:

 

Vorrebbe Lei averlo? Dica in una cartolina postale la sola parola sì ed io glielo invio. Senza il Suo consenso non oso inviarLe il ritratto di mia moglie. Di lavori di Veruda io ne ho molti, e in quanto al soggetto io mi tengo caro l’originale.

(Lettera di Italo Svevo a James Joyce, 27/3/1928)

 

Senza dubbio si trattava di un’amicizia sincera e fiduciosa, considerata la sfrenata gelosia che legava entrambi gli scrittori alle rispettive consorti. I loro libri sono pieni di riferimenti ai loro impeti possessivi. La gelosia di Joyce aveva un’azione persino “retroattiva”, coinvolgendo anche gli amanti che Nora aveva avuto prima di conoscere lui (fattore che ispirò il tragico racconto di Gretta Conroy ne I Morti).

 

Ho paura che mi venga mostrata anche solo un ritratto di te da ragazza perché penserò “allora né io conoscevo lei né lei me. Quando andava a messa la mattina, a volte lanciava lunghi sguardi a qualche ragazzo per la strada. Agli altri ma non a me”. Ti chiedo, mia cara, di essere paziente con me. Sono assurdamente geloso del passato.

(James Joyce > Nora Barnacle, 21/8/1909)

 

Mentre nella Coscienza, gli effetti della gelosia di Zeno gioca d’anticipo sul futuro, fin oltre la fine della propria vita:

 

Ma mi colse allora un’altra piccola malattia da cui non dovevo più guarire. Una cosa da niente: la paura d’invecchiare e sopra tutto la paura di morire. Io credo abbia avuto origine da una speciale forma di gelosia. L’invecchiamento mi faceva paura solo perché m’avvicinava alla morte. Finché ero vivo, certamente Augusta non m’avrebbe tradito, ma mi figuravo che non appena morto e sepolto, dopo di aver provveduto acché la mia tomba fosse tenuta in pieno ordine e mi fossero dette le Messe necessarie, subito essa si sarebbe guardata d’intorno per darmi il successore ch’essa avrebbe circondato del medesimo mondo sano e regolato che ora beava me.

In Senilità, il romanzo si Svevo a cui Joyce era più affezionato, si narra quella che oggi definiremmo una “relazione tossica”, fra la giovane Angiolina e l’assicuratore Emilio tormentato dai sospetti di tradimenti della ragazza, in cui è coinvolto anche l’amico artista Stefano Balli, che in spavalderia e virilità tanto somiglia a Buck Mulligan e Blazes Boylan, gli antagonisti di Stephen Dedalus e Leopold Bloom in Ulisse.

Anche Bloom sa che la moglie Molly lo tradisce con Boylan e questo pensiero lo rincorre e lo rattrista durante tutta la giornata del 16 giugno 1904 in cui si svolge il romanzo e durante il quale Bloom si ritrova a girovagare per tutta la città di Dublino, fra osterie, ospedali, farmacisti e persino un funerale, pur di ritardare il ritorno a casa, dove la moglie l’avrà tradito nel loro stesso letto. Ulisse in fondo è la storia di un funerale e di un tradimento, di amore e di morte – quest’ultimo altro argomento cruciale che lega le vite e le opere dei due scrittori.

 

Sede degli affetti. Cuore spezzato. Dopotutto una pompa, che pompa migliaia di litri di sangue ogni giorno. Un bel giorno si blocca ed eccoti lì. Ce ne sono molti qui intorno: polmoni, cuori, fegati. Vecchie pompe arrugginite: al diavolo tutto il resto. La risurrezione e la vita. Una volta che sei morto sei morto.                            

(Ulisse, episodio VI, Ade)

 

L’argomento era già esplicitato nel titolo citato I Morti, celebre racconto conclusivo della raccolta I Dublinesi, ma anche nell’ambientazione del primo che fra questi Joyce era riuscito a far pubblicare su rivista, Le Sorelle, che si apre con l’agonia e poi la morte di padre Flynn. Guido, il cognato-antagonista di Zeno, si suicida, così come Alfonso, il protagonista di Una vita, il primo romanzo di Svevo. Di suicidio morì in Ulisse anche il padre di Bloom, mentre di morte prematura suo figlio Rudy. Stephen Dedalus, già fin dalle prime pagine del medesimo romanzo, è ossessionato dalla tragica morte della madre, per cui indossa ancora l’abito a lutto, e il ricordo delle allucinazioni di lei ci riportano a quelle di Amalia, la “pallida sorella” malata di Emilio in Senilità. Laddove nella Coscienza è il mirabile racconto del padre che con uno schiaffo in punto di morte si imprime sulla mente, oltre che sulla guancia, del protagonista, Zeno, l’inetto e il malato ipocondriaco assillato dalla morte:

M’ostinai e asserii che la morte era la vera organizzatrice della vita. Io sempre alla morte pensavo e perciò non avevo che un solo dolore: La certezza di dover morire. Tutte le altre cose divenivano tanto poco importanti che per esse non avevo che un lieto sorriso o un riso altrettanto lieto.

Se però provassimo a seguire il filo delle ossessioni dei due autori, ne incontreremmo tante altre ancora e probabilmente le più celebri sarebbero anche quelle più meschine o meno elevate: l’alcol per Joyce e il fumo per Svevo. Del suo vizio l’autore irlandese non si esprimeva tanto nelle sue scritture private, quanto nelle sue opere; in particolare si ricorderanno gli episodi notturni di Ulisse, dalla conclusione del quattordicesimo al quindicesimo che devono il loro stile visionario e allucinato alle alterazioni etiliche dei personaggi, e quello successivo, il sedicesimo, scritto nella “prosa rilassata”, tipico dei postumi da sbornia.

Eccerto, sì. Che dire? Alla taverna. Sbronzi. Ti ho viscto, scignore. Bantam, due giorni sciobrio. Trincando nient’altro che chiaretto. Ma dai! Tiello d’occhio, eh. Mioddio, io sia dannato. E al barbiere se n’è andato. Troppo colmo per le parole. Con un tale delle ferrovie. Come mai stai così? L’opera gli andrebbe? Rosa di Castiglia. Cosa di Famiglia. Polizia Stradale! Un po’ di H2O per un uomo svenuto.

(Ulisse, episodio XIV, Armenti del Sole)

 

Mentre Svevo del suo vizio del fumo, oltre a intitolarne il primo famoso capitolo della Coscienza, ne tratta maniacalmente anche nei suoi scritti personali, specie quando si tratta di sconfessare ogni intento a smettere:

 

Fumo al solito come un turco e non vedo vicino il momento in cui saprò disfarmi di questa odiosa abitudine più gravosa ancora quando ho qualche sopracapo perché allora fumo il doppio.

(maggio 1898)

 

È chiaro che negli anni in cui stavano esordendo le prime teorie psicanalitiche e Svevo stesso, che padroneggiava la lingua tedesca, poté avvicinarsi direttamente ai primi scritti di Freud, la domanda non poteva che essere: può la psicanalisi guarire dalla nevrosi, dalla malattia, dall’ossessione, dal vizio? Svevo considerava Freud un grande uomo “più per i romanzieri che per gli ammalati”; c’era da capirlo, dato che l’affezionato cognato Bruno Veneziani, affetto di disagi psichici e dipendenze, fu giudicato inguaribile da Freud in persona, il quale tuttavia non si fece scrupoli a presentare la parcella a trattamento fallito. Così come nella Coscienza di Zeno, da sempre presentata scolasticamente come un romanzo psicanalitico, apprendiamo fin dall’inizio il disappunto dello psicologo per essere stato piantato in asso dal paziente e protagonista del libro.

E Joyce? Non la pensava tanto differentemente, se consideriamo che il suo più grande dolore fu quello di non essere riuscito a prendersi cura di una figlia schizofrenica, l’amatissima Lucia, la quale a seguito dell’infruttuosa terapia di Jung finì i suoi giorni lontano dalla famiglia in un ospedale psichiatrico; la psicoanalisi, secondo Joyce, è una forma di ricatto: “se ne abbiamo bisogno, teniamoci alla confessione”.

Fu con le loro opere che i due grandi scrittori riuscirono ad arrischiarsi nell’oceano delle ossessioni, delle gelosie, dei vizi, delle malattie. Si sarebbe dovuto attendere che la psicanalisi si evolvesse almeno fino agli sviluppi di Lacan, il quale decise di lasciare la mano di Freud come guida per prendere quella di Joyce: colui che attraverso le sua arte riuscì a permettere che dentro di sé il proprio processo di sintomi, ovvero il modo in cui l’inconscio funziona procurandosi godimento, lavorasse non più al costo della sofferenza del soggetto, bensì, incredibilmente senza alcuna seduta analitica, agganciandolo alla sua soddisfazione.

 

La salute non analizza se stessa e neppure si guarda nello specchio. Solo noi malati sappiamo qualcosa di noi stessi.

(La Coscienza di Zeno, La moglie e l’amante)

 

I due scrittori avevano compreso fin dalle prime giovanili esperienze con la penna fra le dita, che attraverso la loro arte non dovevano aspettarsi di guarire, ma di poter parlare di loro stessi, nella loro reale quotidianità, fra desideri e delusioni, propositi disattesi e riconoscimenti inaspettati: la creazione artistica non poteva prescindere dalla loro stessa autobiografia, dal consapevolezza di esistere, dal ritrovarsi al mondo fra cose visibili e invisibili, dal conoscerle e dal conoscersi, dall’incontrarsi e dall’essere amici.

 

 

[Per approfondimenti si consiglia l’intervista “Joyce + Svevo. Con Enrico Terrinoni, Andrea Pagani, Riccardo Cepach”, online su YouTube: https://youtu.be/cCoRJdXBwCM ]

‘Gli Eletti’: la nuova collana della casa editrice Alter Ego per riscoprire le pietre miliari e libri meno conosciuti della letteratura

Gli Eletti è una delle collane proposta dalla casa editrice Alter Ego. Alter. La casa editrice è stata fondata nel 2012 a Viterbo da Danilo Bultrini e Luca Verduchi ed è specializzata nella pubblicazione di narrativa. Attiva inizialmente sul territorio della Tuscia e del Lazio, dal 2014 ha esteso il proprio raggio d’azione a tutta l’Italia, ed è distribuita a livello nazionale. Dal 2020 la casa editrice ha aperto alla pubblicazione di autori contemporanei stranieri.

I romanzi di Alter Ego raccontano gli uomini e le donne di oggi, noi, la nostra società. Particolare attenzione viene riservata al tema del “doppio”.  Una ricerca sapientemente condotta attraverso le molteplici collane: Specchi, Spettri, Egonomia  e Crocevia. Le prime contengono generi  che spaziano dal romanzo di formazione al romanzo psicologico, passando attraverso il distopico il romanzo umoristico, fino ad arrivare al giallo e al thriller. In Crocevia, invece, trovano spazio alcune proposte che si discostano dal resto del catalogo. Insomma, pubblicazioni dai mille sapori capaci di accattivare i gusti di qualsiasi lettore.

Oltre ad editare nuovi talenti la casa editrice, fin dalla sua fondazione, si è proposta di indagare nel panorama culturale internazionale riscoprendo le gemme dimenticate della letteratura. Da questo presupposto nasce gli Eletti: capolavori della letteratura italiana e internazionale in formato economico e tascabile. La collana valorizza i classici intramontabili del panorama letterario, riproponendoli in una veste completamente originale.

La grande attenzione alla cura editoriale del progetto – grazie alla consulenza letteraria di Dario Pontuale – la grafica ricercata e le traduzioni inedite  rendono gli Eletti unici e collezionabili.

Nel catalogo sono presenti le Pietre Miliari, immancabili nelle librerie di un lettore, come Alice nel paese delle meraviglie, Attraverso lo specchio, La sirenetta e Canto di Natale. Ma non mancano le Gemme, perle dimenticate o introvabili dell’opera letteraria delle grandi penne del passato: I racconti di viaggio di Charles Dickens, La cucina futurista di Filippo Tommaso Marinetti e racconti di Guy De Maupassant, Robert L. StevensonHonoré de Balzac, Edgar Allan Poe, Luigi Capuana e tanti altri. Questo  consente di far conoscere ai lettori, a partire dai giovanissimi, i grandi autori al di là dei loro romanzi più famosi.

Per consultare la collezione completa: http://www.alteregoedizioni.it/gli-eletti/

Ad aggiungersi alla già ricca collana sono altri due titoli: L’informatore di Joseph Conrad e I morti di James Joyce.

 

Gli Eletti e le new entry: L’informatore di Conrad e I morti di Joyce

Fresco di pubblicazione, inserito nel catalogo, è  l’Informatore di Joseph Conrad:

Ambientato nell’Inghilterra vittoriana del 1908 il racconto ha come sfondo il microcosmo dei circoli anarchici, di cui l’autore si prende sistematicamente gioco. Spie, doppiogiochisti, anarchici cinici,  anarchici convinti e finti anarchici sono i protagonisti di questa commedia nera. Il narratore si trova così immerso nel racconto di una vicenda sporca, intricata, dove il signor X racconta dei suoi sforzi per scoprire l’identità del viscido delatore che si nasconde tra le fila di  un gruppo di anarchici londinesi e che ne sabota sistematicamente i piani. Un racconto che parla di ideali traditi, di significati sfuggenti, di maschere e pose, della fine di un’era e dell’inizio di un’altra. Un racconto che si racconta da sé, fin dal titolo: L’informatore – un racconto ironico.

 

L’altra new entry è I morti di James Joyce.

In questo ultimo, breve e stupendo racconto della raccolta Gente di Dublino, e come in tutti i precedenti, i personaggi di James Joyce rinunciano ai sogni e alle illusioni. “Era venuto per lui il momento di andare a ovest”, scrive Joyce: dove si trova Michael Furey, dove si trovano i morti e il loro ricordo. Nel racconto i coniugi Gabriel e Gretta si rendono conto che il presente è inscindibile dal passato, così come i vivi sono inscindibili dai morti.

Accanto agli Eletti c’è anche Gli Eletti XL che vanta titoli come Con gli occhi chiusi di Federigo Tozzi, Il primo fuoco e altre novelle di Gabriele D’annunzio e le Lettere d’amore tra Guido Gozzano e Amalia Guglielminetti.

La Casa editrice Alter ego è infinitamente sorprendete, nuovi progetti si stagliano all’orizzonte.  Tante sono le novità di prossima pubblicazione: un testo di Pavese, un racconto Fitzgerald, una selezione di racconti di Lovecraft e la raccolta di racconti popolari Nani e folletti dell’antropologa Maria Savi Lopez.

Un appuntamento importante è fissato a settembre 2020 per la collana di narrativa contemporanea straniera. In arrivo il primo titolo di un’autrice canadese, pluripremiata e mai tradotta in Italia, dedicato alla vita di Emily Dickinson.

Proprio la citazione della Dickinson “A tutti è dovuto il mattino, ad alcuni la notte. A solo pochi Eletti, la luce dell’aurora“ è stata scelta dalla casa editrice Alter ego per presentare al pubblico la loro nuova collana.

 

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Personaggi e destino nel romanzo del ‘900

“Un divorzio si è consumato tra il protagonista e ciò che gli succede. Si è rotto il rapporto di pertinenza, di legalità tra personaggio e vicenda. Come dire: tra l’uomo e il suo destino”. Queste parole del critico Giacomo Debenedetti registrano acutamente i mutamenti dell’assetto del romanzo del ‘900, muovendosi in quella terra di nessuno nella quale pare essersi lacerato il ruolo storico dell’“epica della realtà” senza che vi abbia trovato spazio l’“epica dell’esistenza”.

Debenedetti ha indicato in Proust, Pirandello, Kafka, Svevo, Joyce i testimoni esemplari di una crisi dell’epica della realtà, epica che ha caratterizzato il romanzo ottocentesco con il suo naturalismo e che nel ‘900 si risolve in “rivolta dei personaggi“, non più disposti ad accettare i loro precedenti rapporti con l’autore. I personaggi “scioperano”, desiderano l’autonomia letteraria. Tale tema, già analizzato da Debenedetti nel saggio L’avventura dell’uomo d’occidente (1946), è oggetto in Personaggi e destino, “di un ripensamento non neutrale alla luce delle risposte successivamente offerte dalla psicoanalisi e dall’esistenzialismo: la ratifica dello scarto che separa l’ottimismo progressivo di Freud dalle diverse filosofie dell’assurdo è compiuta da Debenedetti opponendo alla distruzione di ogni nesso tra personaggio e vicenda prodotta dalla morale provvisoria degli esistenzialisti” (F. Contorbia).

Nell’epica moderna quindi vi sono due specie di romanzo, la prima è rappresentata dall’epica della realtà, la seconda dall’epica dell’esistenza. Nella prima vediamo il personaggio muoversi in un mondo con il quale c’è ancora una possibilità di intesa reciproca, l’uomo è fiducioso, riesce a concepire un collegamento tra se e il mondo, riuscendo a dare delle spiegazioni ai problemi che gli si presentano. Nell’epica dell’esistenza invece il personaggio è abbandonato da tutto e ciò che gli succede è visto come qualcosa di assurdo e inspiegabile. Non c’è più un collegamento, una possibile intesa tra uomo e mondo. Ma la stessa epica della realtà, è davvero riuscita a trovare le favole giuste per i propri personaggi? Per un po’ di tempo era sembrato che l’America avesse inventato un nuovo repertorio di queste favole, ma anche quel tipo di mitologia moderna ha accusato i colpi del tempo e appare stanca, usurata. L’epica della realtà ha trovato i suoi più validi protagonisti in Zola, Vittorini, Pavese, Flaubert e ha vinto ma come le è accaduto di morire?

Sono stati tentati dei prestiti di linguaggio, innesti di vite americane, per sollecitare il punto di intesa tra romanzo nostrano e quello d’oltreoceano. Pensiamo ad esempio a Paesi tuoi di Pavese: il passo all’americana impresso ad alcuni contadini piemontesi consente che il loro muoversi risuoni come qualcosa di straniero, ma la persuasione è più nell’autore che nei personaggi. Il Vittorini della Conversazione in Sicilia ha vinto la sua partita sfogando nel surreale la carica che il linguaggio aveva addensato nel protagonista. L’epica della realtà dunque ha avuto una scossa. Ma poi ha fatto capolino il problema dell’assurdo: l‘epica della realtà e dell’esistenza possono apparentemente influenzarsi, ma sostanzialmente si escludono. Si giunge inevitabilmente a Proust, tra gli scrittori più amati da Debenedetti: ci aiuta infatti la piccola lapide in memoriam che l’autore de La Recherche ha posto all’epica della realtà in uno dei saloni della Marchesa di St. Euverte, mentre si svolge la scena dei monocoli. M. de Breauté domanda: “Come, caro, voi qui? Ma che potete aver da fare voi qui?” ad un romanziere mondano da poco installatosi all’angolo dell’occhio di un monocolo e che risponde con aria misteriosa: “Osservo”. I personaggi di Dalla parte di Swann appartengono all’ultimo ventennio del secolo scorso ma Proust scriveva nel primo ventennio del nostro ed è palese che proietta su quel passato le opinioni del suo presente. E allora cosa è accaduto in meno di quarant’anni? Quel fatto, dice il critico piemontese, che si chiama Proust, Pirandello, Joyce nelle cui opere si pronuncia una rivolta dei personaggi i quali non sono più disposti ad accettare i loro precedenti rapporti con l’autore. Il personaggio reclama i propri diritti, non vuole più essere trattato come un fenomeno di fisica; Proust seguita a dichiarare che sta cercando delle leggi, ma in lui si è potuto vedere quasi immediatamente il cosiddetto“sciopero dei personaggi”. In effetti i personaggi di Proust, vivi come sono, finiscono col fare coro per testimoniare una finalità, una destinazione del vivere che non vale per essi, ma per il loro autore. Proust conduce l’autore ad una delle più alte esperienze religiose del ventesimo secolo.

Pirandello invece è lui ad esigere la rivolta dei personaggi, animato da profondo dolore e passione per le sue creature troppo smaniose e vive, che, pur di stare nel mondo, accettano di contraddirsi e si sa quale sentenza di patimento il grande scrittore siciliano pronunciava contro quella smania di vivere. Joyce invece, nel suo Ulisse, usa il metodo opposto: cerca di lenire il male dei personaggi che hanno perso il mondo della sicurezza, i destini a chiusura garantita, di cui godevano al tempo di Zola e di Maupassant, ed esprimono la loro sofferenza, appunto, con la rivolta. E cosa propone Joyce ai suoi personaggi? Di identificarsi psicologicamente con gli eroi dell’Odissea; sulle ermetiche pagine dell’Ulisse, questa soluzione “magica” dello scrittore irlandese può apparire complicata ma in realtà è molto semplice. Nel punto stesso che constata la crisi dei personaggi, Joyce offre anche una via di accomodamento, perlomeno provvisoria. La soluzione provvisoria di Joyce è stata ripresa anche dai nostri contemporanei, nota Debenedetti, ogni volta che la crisi dei personaggi diventava sempre più aggrovigliata.

Una grande stagione di epica della realtà era morta di questa crisi, probabilmente, solo Zola, distinguendo un tempo dell’immaginazione e un tempo di senso della realtà, segnava i corsi e ricorsi della storia dell’epica. Tocca infatti all’immaginazione prestare i suoi servizi, inventando storie piacevoli affinché l’homo sapiens, accetti l’invasione nello spazio della propria vita, dell’homo fictus, nato da una massa di parole. Ma se il personaggio è tornato uno sconosciuto e il patto è rotto, è necessario riconciliarsi nuovamente. L’epica della realtà cerca di prolungare i suoi giorni guardando stupita le risposte dei suoi personaggi, mentre l’epica dell’esistenza approfitta della condizione di “sconosciuto” dei propri personaggi, compiendo il lavoro che toccherebbe all’immaginazione.

Vi è una sola famiglia di nuovi personaggi che consolida l’epica della propria realtà ma probabilmente Kafka è riuscito proprio per le ragioni per le quali altri hanno fallito. Egli ha obbedito con grande zelo al dettame dell’Antico Testamento: “Non ti farai simulacri del dio ignoto”. Ha avuto il coraggio di rinunciare a ogni garanzia e aiuto della realtà prestabilita; dietro la materia opaca e invisibile, il personaggio di Kafka somiglia solo all’invisibile delle proprie angoscie e conflitti. La differenza tra Kafka e i romanzieri esistenzialisti italiani, è che lui, arrivato sugli orli dove si apre lo spazio non più euclideo,, ha guardato senza soffrire di vertigini e non ha più chiesto riferimenti alle forme della buona geometria che misurava la Terra. In parole povere, e qui entra in gioca la psicoanalisi di Freud (“Tu soffri, ti incolpi e ti umilii del tuo male di vivere. Danne invece la colpa al padre; è stato lui a fabbricare il coperchio di divieti, con cui reprime il naturale, sacro ribollire dei tuoi istinti e lo ricaccia nel fondo a fare da corpo estraneo”. Non è vero che il padre se ne sia andato, è stato più maligno. Si è nascosto nell’angolo buio per continuare a farti soffrire con i suoi divieti, senza più aiutarti con la sua presenza”), è il figlio che ha perso il padre e della propria orfanezza e degli squallori della solitudine, fa la sua nuova condizione umana, con uno spietato coraggio che non scende a compromessi con la nostalgia.

 

Bibliografia: G. Debenedetti, Saggi, a cura di F. Contorbia.

Stephen Dedalus: il martire e il mito di Joyce

“Vivere, sviarsi, cadere, trionfare, ricreare la vita dalla vita”: questa potrebbe essere la frase del protagonista di Stephen Dedalus che racchiude l’intero significato del romanzo di Joyce.

Pubblicato nel 1914-1915, Stephen Dedalus fa parte della trilogia irlandese (con Gente di Dublino e Ulyses); un’opera non sempre di facile comprensione, ma che rivela la sua potenza espressiva chiaramente solo nel finale, in cui il lettore si rende conto del significato di pagine e pagine di romanzo, dominate soprattutto da una tecnica simile al “flusso di coscienza”.

Pochi discorsi ma molte immagini, descritte dalla mente del protagonista, infatti caratterizzano questa opera: Stephan Dedalus, il protagonista che mischia già nel nome sacro e profano (Stefano, il primo martire e Dedalo, l’eroe mitologico) è stato visto da molti come l’alter ego di Joyce. Ma più di questo è interessante capire come si sviluppi il personaggio durante l’arco del racconto: Stephen è un giovane che studia presso un collegio gesuita: l’adolescenza sarà per lui l’età che devasterà il suo animo, sempre desidoroso di conoscenze e di domande e che poco si confà alla rigida educazione impartita nel collegio. Qui scopre l’amore, i piaceri della carne, le pulsioni bestiali che ogni ragazzo adolescente prova: solo successivamente, in confessione, scopre che i peccati carnali da lui commessi, i pensieri impuri sognati sono in realtà atroci peccati che vanno contro la morale religiosa.

Inizia così il suo cammino di redenzione: l’autore ce lo offre con pagine e pagine di descrizioni interiori, di squarci di una esistenza dominata dal grigiore e dalla irreprensibilità di leggi severe a cui obbedire, senza farsi domande. Seguire i precetti, pregare, confessarsi, studiare problematiche teologiche e filosofiche (come il problema dell’estestica). Tutto fino a una notte, in cui incontra alcuni suoi vecchi compagni che, dominati da un istinto leggero, fanno il bagno durante la notte: lo chiamano, vogliono che si aggiunga a loro. Dedalus, dopo un primo tentennamento, si lascia anche lui andare: nella penombra, vede una ragazza che fissa il mare, gli appare magnificamente bella, va in estasi e gli viene in mente, pensando a se stesso, questa domanda: “dov’era la sua adolescenza?”. Dove l’aveva nascosta? Esisteva ancora, nascosta tra le pieghe dei libri e dispersa tra le stanze del collegio?

Ed ecco che, quando si trova a frequentare l’università, i suoi pensieri sono ben altri: non crede più come prima. O meglio, crede nel farsi domande, crede nell’uomo: questo lo porta a una crisi religiosa, lo porta a liberare anche il suo talento letterario, riconosciuto anche dai suoi colleghi.

La crisi sarà suggellata dal dialogo finale con Cranly, suo fedele compagno di studi, in cui si palesa l’avvenuta trasformazione: la libertà come risposta, la solitudine come rischio da correre, per sfuggire alle catene della morale e del pensiero comune.
Stephen Dedalus è un’opera complessa, ricca di spunti, ma che porta solo e soltanto a una conclusione: il viaggio di Stephen è una catarsi, una espiazione che è completa solo se si è potuto sperimentare su se stessi il dolore dell’incomprensione con il proprio animo, la tragicità della dissociazione con una società che non è lo specchio delle proprie pulsioni. Il martire Stephen non esiste più, ora c’è Dedalo che ha costruito le ali per volare fuori dal labirinto del Minotauro.

 

 

Giorgio Bassani: una vita tra letteratura e antifascismo

Figlio di una agiata famiglia ebrea borghese, Giorgio Bassani nasce a Bologna nel 1916: negli anni della formazione si iscrive alla facoltà di Lettere di Bologna, dimostrando una mentalità aperta alle contaminazioni che fioriscono in quell’ambiente. Si dimostrerà infatti particolarmente vivace nei rapporti con altri esponenti non solo letterari di metà novecento, come Bacchelli, Longanesi e Morandi. Negli anni trenta Bassani si cimenta quindi con le prime prove di scritture: “Nuvole e mare” e “I mendicanti” vengono pubblicati nel 1936, suscitando l’apprezzamento di Roberto Longhi, suo grande maestro. Successivamente attiva una proficua collaborazione con la rivista “Il padano” : in questo periodo si accosta a quello che dichiarerà essere il suo principale ispiratore, ovvero Benedetto Croce.

Nel 1937, a causa delle leggi razziali, inizia a dedicarsi all’attività antifascista: tutti gli ebrei sono costretti ad emigrare e anche Bassani, diventato professore quello stesso anno, dovrà esercitare la sua professione nella scuola del ghetto ebraico di Ferrara.
Nel 1940, con lo pseudonimo di Giacomo Marchi, pubblica “Una città di pianura”: con uno stile lirico descrive la decadenza della borghesia e quest’opera sarà la definitiva prova giovanile prima di convicersi a calcare completamente la strada della scrittura.
Nel maggio del 1943 viene condotto in carcere, con l’accusa di antifascismo: vi resterà per poco meno di due mesi, visto che nel luglio di quello stesso anno il fascismo vedrà la sua fine. L’esperienza del carcere lo segna profondamente, infatti scrive lettere piene di malinconia e amarezza, che veranno pubblicate nel 1984 sotto il titolo di “Di là dal cuore”.

Segue  il  matrimonio, ostacolato però dalle pesanti ristrezze economiche e dall’ansia della liberazione anglo americana: nei periodi successivi si dedica alla poesia e a varia collaborazioni con riviste e biblioteche: nel 1948 gli viene affidata la redazione di “Botteghe oscure”, dove Bassani limerà il suo sprito critico.
Nel 1956 pubblica “Cinque storie ferraresi”, con cui vince il Premio Strega: storie che poi confluiranno nell’edizione definitiva de “Il romanzo di Ferrara” del 1980. Tutte le storie sono contrassegnate da un senso di esclusione e di amarezza, dettati dall’esperienza negativa che ha subito con il fascismo. Negli anni cinquanta diventa  amico di Pasolini e si cimenta anche in rielaborazioni cinematografiche: scrive sceneggiature per Mario Soldati e collabora con Pasolini nella sua “Ricotta” del 1963.

Nel 1962 pubblica il suo romanzo più noto, “Il giardino dei Finzi Contini”, che lo consacrerà nel pantheon della letteratura italiana: romanzo da cui, diranno i critici, emerge tutto il vero Bassani, la sua testimonianza memoriale, la sua prosa equilibrata e tutta la sua esperienza politica e sociale. I rapporti con la neo nata “Officina 63” si fanno difficili: critica il libro “Fratelli d’Italia” di Arbinio e quindi risente di un allontamento da un certo ambiente letterario, ma non lo scoraggia nella produzione. Nel 1964, infatti, pubblica  “Dietro la porta”, nel 1968 “L’airone”(che rappresenta un punto di svolta nel percorso letterario dello scrittore, data l’eliminazione della barriera spazio-temporale tra l’io personaggio e l’io narrante ) e numerosi saggi, con cui completa la sua produzione letteraria. In questi anni gli vengono assegnati numerosi premi e entra anche in politica, diventando presidente di “Italia Nostra”, allontanandosi dal PCI e avvicinandosi ai repubblicani.

Gli ultimi anni sono dedicati alla revisione delle sue precedenti opere: “L’odore del fieno” del 1972, è infatti una revisione di testi e poesie già pubblicati nei suoi numerosi saggi. Nel 1972, sempre nell’ambito delle revisioni, esce “Dentro le mura”, una edizione riveduta e corretta delle “Storie ferraresi”. Nel 1977 pubblica “Epitaffio”, ovvero un insieme di componimenti e versi che seguono il suo antico filone lirico, inaugurato in gioventù. Non apprezzerà, poi molte delle rielaborazioni cinematografiche dei suoi romanzi (come  “Gli Occhiali d’oro” e “Il giardino dei Finzi-Contini”), perché non si rivela mai convinto della congiunzione tra soggetto romanzesco e soggetto cinematografico.

Muore a Roma nel 2000, dopo aver ricevuto molteplici onorificenze, tra cui una laurea honoris causa a Ferrara e 1993 viene organizzato un convegno in suo onore come risarcimento simbolico dell’allontanamento patito nel 1938.

Il merito letterario di Giorgio Bassani sta nell’essere riuscito ad esprimere un punto di vista totale sulle questioni storiche  e sociali non affidandosi al realismo ma alle istanze novecentesche di Proust, Joyce, Kafka creando delle tensioni drammatiche estreme in maniera analitica, senza riscontrare identificazione tra vita e arte, ponendosi in questo modo, agli antipodi delle avanguardie. Inevitabili sono stati gli attacchi nella prima metà degli anni Sessanta da parte della critica marxista e della neoavanguardia nei confronti di Bassani; ma si è trattato di attacchi di natura prettamente ideologica, un pò come è avvenuto nei riguardi di Carlo Cassola.

 

Secondo il critico Ferretti il tema dominante delle storie bassaniane è quello “dell’individuo solo, incomprensibile, isolato in una realtà non modificabile, in un mondo ostile e inesorabilmente uguale a sè stesso” (G. C. Ferretti, “Bassani e Cassola tra idillio e storia”). Ferretti prosegue la sua analisi bassaniana ponendo la sua attenzione sulla concezione delle storia che ha lo scrittore bolognese: “la mancanza di una matura coscienza storica spiega l’istanza genericamente moralistica di Bassani, che, se mostra acutezza nello scandagliare il suo cosmo ferrarese, lo fa sempre e solo fino ad un certo punto”.

Il critico non ha tutti i torti, Bassani sembra non essere molto toccato dagli eventi storici, non li rende influenti per i suoi personaggi enigmatici; ma probabilmente questi personaggi che vivono un profondo conflitto tra l’elemento tragico e quello epico, come ha giustamente notato Italo Calvino, non hanno dei giudizi critici sulla Storia perché non la comprendono fino in fondo.Cogliere una particolare dimensione interiore del personaggio e la sua incomunicabilità non può rappresentare un limite per uno scrittore nè una tendenza da essere oggetto di dileggio da parte dei detrattori di Bassani (il quale rifiuta eticamente il concetto stesso di avanguardia)che lo reputavano uno scrittore mediocre.

Nel 1973 Bassani risponde a Ferretti dalla pagine de “Il mestiere di scrittore” di F. Camon: “Invece di scendere sul mio terreno, e leggere i miei testi, Ferretti applica, a me, schemi che non sono i miei.”

Come dare torto a Bassani…Il difetto di molti critici sta proprio nel non cercare di entrare nel mondo di chi scrive una storia, lasciandosi imbrigliare dal gusto, dalle tendenze dell’epoca, dal clima culturale vigente. Semmai, il “limite” dello scrittore potrebbe essere quello di non aver aperto le porte della scrittura introspettiva al mistero.

 

 

 

 

“Ulisse”: l’epica rovesciata di James Joyce

James Joyce  inizia a sviluppare l’idea per il suo Ulisse ( pubblicato nel 1922) nel 1914. Inizialmente l’Ulisse venne concepito come una novella da aggiungere alle quattordici scelte per il volume Gente di Dublino, il testo fu considerato, infatti,  “una novella non scritta”. La storia è quella dell’incontro di un gruppo di persone che avviene nell’arco di una giornata (precisamente dalle otto del mattino alle 2 di notte del 16 Aprile 1904) e che, da quel momento in poi, vedranno le loro vite intersecarsi.  Tra i  protagonisti : Leopold Bloom, uomo medio, eroe che sbaglia (la sua storia è in sostanza quella dell’eroe dell’ Odissea), incapace ad instaurare rapporti umani,  Stephen Dedalus,   più idealista e alla ricerca di valori spirituali  ma che, come Bloom, non riesce a raggiungere i suoi obiettivi ed, infine,  Molly,  la rappresentazione della natura femminile in tutta la sua essenza. I primi due, nella loro ansiosa ricerca,  non sono altro che incubo, mentre Molly, al contrario, emerge come la figura più risolutiva, colei che trasforma l’incubo in estasi.  Le esperienze di questi personaggi ci arrivano attraverso i loro monologhi interiori,  o meglio quello che è definito, in letteratura,  flusso di coscienza che in realtà è stato inventato da Tolstoj con Anna Karenina.

Joyce sceglie Dublino perché rappresenta la città in cui  la morale cattolica si è ormai cristallizzata, gli stessi abitanti sono fermi, non conducono una vita autentica e sono letteralmente oppressi dalla religione e dal nazionalismo. Joyce respinge tutto ciò, scelta che, come vedremo, lo condurrà a trascorrere molti dei suoi anni in  esilio.

Ulisse, nel romanzo di Joyce è l’eroe che sbaglia, non ha patria e si tiene lontano da certe sovrastrutture. Proprio come Ulisse che peregrina per terre e mari lontani, così l’ eroe che viene fuori da questo romanzo trascorre le sue intere giornate per le strade ed i bar della città. Attraverso la lettura di questo romanzo,  potremmo azzardare un’analisi della figura umana, oltre che delle dinamiche e dei riti quotidiani che, nello specifico, la riguardano. La ricerca del padre, la ricerca del figlio e l’esilio sono alla base di una ricerca più grande che investe l’uomo nella sua integrità fisica e, per questo, temi inevitabilmente ricorrenti. Potremmo azzardare che dietro ogni personaggio, si celi  l’autore stesso che,  diventato più maturo, riesce a vedere se stesso da lontano, come un ‘estraneo’.

Joyce adotta uno stile schematico, rivisitato più volte. Quello che ci è giunto prevede una disposizione ternaria  e schematica ( lo Schema Linati).  Tecnicamente,  l’autore divide il libro in 18 episodi cercando di seguire l’ordine delle avventure che compaiono nell’Odissea. Questa varietà di tecniche narrative, la continua parodia e la confusione degli stili adottati, la percezione che ha l’autore dell’umanità rendono questo romanzo “vitale”, “contemporaneo” e, sicuramente, una delle opere più rivoluzionarie della letteratura mondiale.

Si è provato a recensire questo libro straordinariamente ipnotico, ma l’Ulisse non è un romanzo, piuttosto un’opera letteraria a sé e sarebbe velleitario cercare di trovare il pelo nell’uovo quando in realtà non si è capito nulla della letteratura/ non letteratura di Joyce, troppo facile dire: “non fa capire nulla”, “è contorto”, “è noioso” e via dicendo…Semmai si potrebbe e dovrebbe ragionare di più sul perché lo scrittore irlandese attua questo rovesciamento, perché fa la parodia della letteratura stessa (oltre che la religione), giocando con le parole e mettendo in atto tutti i tipi di scrittura possibili. Ha voluto dimostrare  deliberatamente che la letteratura moderna è questo oppure l’ Ulisse è lo specchio della sua nevrosi, dando quindi inizio alla rivoluzione che è contemporaneamente stilistica, paesaggistica ( sono percepibili i sospiri della sua Irlanda, come se Joyce avesse piazzato una webcam su quel microcosmo) linguistica, ottica ( il tempo che impieghiamo a leggere il libro è più lento rispetto all’azione della narrazione stessa, a differenza di altri romanzi, compreso Anna Karenina), inconsapevolmente., ma come se fosse un invito all’accettazione del disordine. Se fosse un film sarebbe sicuramente diretto da Robert Altman.

Imperdibile ma non immediato.

Carlo Emilio Gadda: l’ingegnere “aggrovigliato”

Nato a Milano in una famiglia borghese, la vita di Carlo Emilio Gadda (Milano, 14 novembre 1893 – Roma, 21 maggio 1973) è stravolta dalla morte del padre, nel 1909, poiché la madre costringe i propri figli a durissimi sacrifici per mantenere un regime di vita adeguato alle apparenze della borghesia lombarda. Simbolo di questo desiderio sociale è la Villa di Longone, costruita dal padre con investimenti folli, per ostentare l’alto tenore di vita borghese. Ogni decisione familiare è subordinata alla ricerca di persistere in quello status symbol: è per questo che Gadda è costretto ad abbandonare le vocazioni letterarie per iscriversi a ingegneria. Tali elementi biografici sono alla base della nevrosi dell’autore, diviso tra l’amore per la propria madre, e l’odio per la stessa.

Gli studi universitari furono interrotti nel 1915 per la chiamata alle armi. Le esperienze della guerra in trincea e della prigionia si rivelano decisive per la formazione della personalità gaddiana, aggravando la sua depressione già resa insostenibile dalla morte del fratello Enrico, visto da sempre come un vero e proprio mito personale contro il quale misurare la propria impotenza e inutilità. Ottenuta la laurea in ingegneria, si guadagna da vivere facendo l’ingegnere, lavoro che lo porta a viaggiare molto, sino a Firenze, dove entrerà in contatto con l’ambiente di “Solaria” e con Montale, da sempre considerato un mito verso il quale si considera “goffo”. È l’inizio dell’esperienza letteraria di Gadda, pubblicando le sue prime prose narrative. Alla morte della madre,  lo scrittore vende la villa di Longone e avrà i soldi e il tempo per dedicarsi a un’opera rimasta incompiuta, che ripercorre la sua giovinezza e i difficili rapporti con la madre. Tra il 1940 e il ’50 vive stabilmente a Firenze, dove trascorre uno dei periodi più fertili e creativi della sua vita, infatti tra il ’46 e il ’47 pubblica a puntate su <<Letteratura>> la prima edizione di “Quer pasticciaccio brutto di via Merulana”, ripubblicato poi in un volume unico nel 1957.

Nel 1950 si trasferisce a Roma, dove inizia a lavorare come responsabile culturale nei programmi Rai. Dedica gli ultimi anni della sua vita a un intenso lavoro di risistemazione e pubblicazione delle sue opere, sempre avvolto nell’isolamento e nella sofferenza causata dalla nevrosi. Muore nel 1973.

La formazione culturale di Gadda è influenzata dall’illuminismo, imperniata sull’amore per la razionalità e l’ordine tipico della borghesia imprenditoriale, in contrasto con l’intricata situazione familiare e sociale del giovane  scrittore. Tuttavia, dopo la delusione bellica, l’autore si scaglia contro la borghesia che, ai suoi occhi, assume le sembianze di un’inetta attrice di un tradimento storico: in ogni opera critica i ceti dominanti e ogni modello concreto di ordine con parodia e sarcasmo, in favore di modelli e valori del passato, riprendendo il concetto di stato di Cesare. Da qui la celebrazione di tutte le forme di vitalità (per di più adolescenziali e femminili) orientate contro la morale repressiva borghese: benché Gadda fosse spaventato da ogni forma di disordine si trova alla fine a patteggiare per chi sovverte ogni sistema. In conclusione, tanto l’ordine quanto il disordine spaventano l’autore in egual misura.  Egli si fa portavoce del declino degli intellettuali tra la prima guerra mondiale e il fascismo, rifiutando con disprezzo l’idea del poeta vate dannunziano. Scrivere rappresenta la dura lotta con la realtà esterna con cui l’io deve misurarsi.

per lui il mondo è un groviglio caotico di cose e fenomeni che rende impossibile e ridicolo ogni tentativo dell’io di fondare giudizi sulla propria soggettività, dato che è lo stesso soggetto ad essere elemento di disordine e irrazionalità all’interno di un caos infinito. Se, dunque la scrittura è conoscenza del reale, l’unica realtà conoscibile per mezzo della lingua è proprio la realtà linguistica, per questo Gadda, attraverso un linguaggio sia tecnico che gergale, aspira a ricostruire le innumerevoli relazioni della realtà, mescolando i codici linguistici, abbandonando la lingua unica, in favore della frammentarietà linguistica che serve per rappresentare la frammentazione caotica della realtà e delle sue possibili chiavi interpretative.

Contini  ha definito la scrittura di Gadda con il termine francese <<pastiche>>. Infatti, l’effetto artificiale della lingua gaddiana ha la funzione di mettere in rilievo, grazie allo straniamento linguistico, il non senso della normalità.

Lo stesso corpus dell’opera gaddiana si presenta come un caotico groviglio, anche i racconti più importanti sono spesso definiti porzioni di scritture più vaste, parti di un tutto che manca. Accade così che anche l’insieme dell’opera gaddiana partecipi alla rappresentazione del caos e l’impossibilità di dominarlo, proprio come accade in ogni singola sua composizione. Questi elementi hanno fatto accostare Gadda a scrittori come Rabelais e Joyce.

OPERE

 

la cognizione del dolore

 Morta la madre nel 1936, Gadda affronta la propria nevrosi familiare scrivendo nel 1937 “La cognizione del dolore”. Il libro si apre con una immaginaria conversazione tra Autore ed Editore e si chiude con la poesia Autunno, definito il testamento di Gadda. La mancata adesione alla struttura tradizionale del giallo, fa si che al lettore sia consegnato un testo lirico anziché l’assassino. La vicenda è ambientata in un immaginario paese del sud America (facilmente identificabile con l’Italia) uscito vincitore dalla guerra contro un paese confinante (evidentemente l’Austria). I protagonisti della vicenda sono Gonzalo ingegnere nevrotico e depresso (doppio di Gadda) e sua madre, chiamata “La signora”. Questi dopo la perdita del capofamiglia e di un fratello di Gonzalo vanno a vivere in una villa (chiaro richiamo alla biografia dell’autore milanese e alla villa di Longone).

La madre intende aprire le porte della propria villa per impartire lezioni di francese alla gente del posto, per colmare il vuoto lasciato dalla morte precoce degli altri componenti della famiglia, Gonzalo è del tutto restio a questa apertura, e intende lo spazio domestico come il luogo chiuso nel quale trova protezione dall’orrore e dalla volgarità del mondo esterno. In questo desiderio nevrotico di chiusura convergono: il timore che la madre vecchia e ammalata, possa aggravarsi e una gelosia evidentemente edipica. L’uccisione della madre avviene in situazioni misteriose e Gadda non ci fornisce la risoluzione del caso. Una delle probabili soluzioni è il matricidio: l’uccisione della madre si presenta come folle possibilità di liberazione dal vincolo nevrotico. La nevrosi di Gonzalo denuncia i limiti della società borghese e i suoi malati rapporti d’affetto. Questa condizione pare alludere a quella del ceto intellettuale nel ventennio fascista, con un pessimismo senza riscatto: se la letteratura è forma di conoscenza (e quindi di cognizione) l’unica realtà da essa conoscibile sarà quella del dolore.

Quer pasticciaccio brutto de via Merulana

 Nel 1946 Gadda decide di lavorare a un racconto giallo, “Quer paticciaccio brutto di via Merulana” prendendo spunto da un fatto di cronaca: l’omicidio ad opera di un ex-domestica, di due vecchie signore romane. Nello stesso anno l’opera esce sulla rivista <<Letteratura>> in 5 puntate per poi uscire nel 1957 in un edizione unica priva di conclusione. Sebbene Gadda avesse promesso un continuo dell’opera con un altro libro, vi rinuncia dichiarando che l’opera è letterariamente compiuta, poiché essa è espressione di quel pasticciaccio cui allude il titolo: il nodo, groviglio o gnommero (gomitolo in romanesco) degli eventi fortemente correlati e privi di una risoluzione. “Il pasticciaccio” è il delitto di via Merulana emblema del caos e della terribilità delle cose.

La vicenda si svolge a Roma, nel febbraio del 1927, anno in cui Mussolini instaura il regime fascista: l’ordine deve regnare ovunque. Il commissario Ciccio Ingravallo, 35enne dai capelli neri arruffati, simbolo di quel garbuglio si occupa di un furto ai danni della Contessa Menegazzi avvenuto in Via Merulana, zona ricca e borghese. Pochi giorni dopo si consuma un orrendo delitto nell’appartamento di fronte a quello del furto: l’uccisione di Liliana Balducci, amica di Ingravallo per la quale egli prova ammirazione e amore quasi viscerale.

“Il pasticciaccio” è stato un vero e proprio caso letterario, incentrato soprattutto sull’utilizzo del dialetto. Da quel momento qualsiasi esperimento linguistico doveva fare i conti con Gadda e i continuatori di questa scuola furono chiamati da Alberto Arbasino i nipotini dell’ingegnere”.

Molte sue opere  inedite vengono pubblicate durante la Neoavanguardia : “I viaggi e la morte”, “Verso la certosa”,   “Eros e Priapo”, “La meccanica”.

 

Il portale-rivista ‘900 letterario

Perché dedicare un sito di letteratura proprio al secolo del Novecento? Si potrebbe pensare alla vicinanza temporale, quindi,  ad un maggiore riconoscimento e conoscenza di questo periodo in quanto pone l’accento  sulla crisi esistenziale dell’uomo, ma sarebbe riduttivo. Specialmente il romanzo del Novecento rappresenta un genere totalmente nuovo, dove la parola d’ordine è sperimentazione atta a rappresentare al meglio la scissione, i tormenti, la sensibilità e le inquietudini dell’uomo moderno attraverso i vari personaggi-uomo dei romanzi che si definiscono in base alla loro mutevolezza, ai loro pensieri e sensazioni. E qui entra in gioco anche un altro importantissimo elemento, il tempo: i fatti non sono più raccontati secondo il loro ordine cronologico ma secondo il cosiddetto “flusso di coscienza” come direbbe James Joyce, ovvero quando si alternano continuamente presente e passato, ricordi, pensieri (secondo il francese Butor“il romanzo è una risposta ad una certa situazione della coscienza”). Nasce “Il tempo interiore”, “il monologo interiore”  tanto ambiguo e misterioso che coinvolge non solo i personaggi del romanzo ma la Storia stessa che si interseca con quella personale; è il tempo teorizzato dal filosofo Henry Bergson, dove gli istanti si dilatano o restringono a seconda della volontà del soggetto. Lo spazio non è più autonomo, la ragione del suo esistere è in funzione del personaggio che lo guarda, quindi anche dell’io-narrante che adotta la restrizione di campo: il lettore conosce i fatti solo attraverso le percezioni dei protagonisti.

Non si può prescindere naturalmente da un’analisi storico-culturale che da sempre ha influito sulla produzione letteraria, nel Novecento si raggiunge una maggiore consapevolezza dei limiti della scienza, e si fa molto affidamento alla psicologia, all’esplorazione della propria identità e la loro crisi, non a caso la maggior parte dei romanzi sono scritti in forma autobiografica, si pensi a Svevo, Pirandello, Mann, Kafka, Proust.

In questo senso, avendo parlato di sperimentazione, il Novecento è un secolo affascinante perché rischia di più, mette in discussione la tradizione e la parola per poi recuperarla, perché è sempre da li che si parte per innovare; per conferire alla letteratura una efficace valenza conoscitiva utilizzando il montaggio di un insieme di unità a scapito dell’azione che invece era fondamentale del romanzo dell’Ottocento.

I temi, già accennati, di questo secolo ci sono ben noti: l’inspiegabilità del male, il senso dell’assurdo e quello di colpa,lo smarrimento, acuiti dall’esperienza della guerra e che gli scrittori di questo periodo tentano di rendere universali come Italo Calvino. Le guerre e questi sentimenti ci sono sempre stati, spesso erroneamente, si crede che la letteratura muta perché mutano gli eventi  e le sensazioni ma in realtà cambia il modo di prendere coscienza di tali eventi e sentimenti, cambia il modo di rappresentarli, nel Novecento vi si imprime un afflato collettivo e un piglio sociale, impegnato, basta citare alcuni  intellettuali della prima metà del Novecento come Albert Camus, George Orwell, Ignazio Silone, Elio Vittorini. Negli anni Cinquanta si fa largo l’esigenza di evadere, di scappare dai vicoli del realismo verso una deformazione visionaria, ci riescono benissimo Carlo Emilio Gadda, Alberto Arbasino e Pier Paolo Pasolini. Negli anni Settanta prende forma la letteratura come strumento di indagine e di analisi critica, volta alla ricerca di un nuovo metodo; diventa poi una forma di spettacolo alla fine degli anni Settanta con George Perec ed Umberto Eco per una ridefinizione del racconto abbracciando la filosofia e la ricostruzione storica.

Si giunge al postmodernismo, di cui il maggior esponente è l’argentino Borges con le sue parodie e giochi tecnici per fare delle letteratura, ancora una volta, uno strumento conoscitivo; al modernismo di Pessoa e a scrittori internazionali che sono l’emblema del passaggio da una cultura all’altra come il praghese Kundera, francesizzato e il russo Nabokov, divenuto americano.

Di grande glamour risultano anche i romanzi gialli, molto popolari nelle loro diverse accezioni, dal thriller al noir, dal poliziesco al serial killer. Leonardo Sciascia che si è cimentato nel giallo, sull’esempio di Borges , disse che questo genere  non è altro che “l’avventura della ragione alla ricerca della verità”.

‘900 letterario non è solo una rivista, ma anche un portale che invita i propri visitatori alla scoperta e alla riscoperta dei romanzi più significativi ed importanti del Novecento, i cui protagonisti sono cosi intriganti perché sfuggono dalle mani dei loro autori, esteticamente sono anche poco piacenti (Federigo Tozzi infligge ai suoi personaggi la bruttezza fisica) come ha giustamente notato il grande critico Giacomo Debenedetti che non esita a definire il romanzo novecentesco con la suggestiva espressione rubata a Proust “una grande intermittenza di un succedersi di intermittenze” ovvero momenti privilegiati che rimandano a cose passate. Ma non solo; il portale oltre ad occuparsi delle recensioni dei romanzi più belli e significativi del Novecento, dedica delle sezioni a giovani scrittori emergenti e non, dando spazio anche agli autori più contemporanei di maggior successo nelle categorie “Autori emergenti”, ai “Best seller”,  agli “Eventi letterari” come il Salone del libro e ai vari Premi istituiti con i relativi vincitori oltre alla “Poesia”e alla “Classifica” dei libri più letti.” Vi è poi uno spazio riservato alla riflessione sulle sorti della critica letteraria e quindi anche della letteratura stessa: “Critica” e uno spazio dedicato agli approfondimenti, a tematiche e ad aspetti più specifici: “Focus”. Vi sono inoltre due rubriche dedicate al cinema, alla politica, all’attualità e alla musica.

Il romanzo del Novecento e solo questo genere di narrativa in prosa, ha disoccultato la realtà, ha portato alla luce il conflitto tra IO-ES e SUPER IO per dirla alla Freud, relazionandosi con le  grandi discipline del nostro tempo: sociologia, antropologia, psicoanalisi, arte che a loro volta offrono una valida chiave di lettura per la letteratura.

BUONA NAVIGAZIONE.

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