‘Brama’ di Ilaria Palomba, una radiografia della psiche

Possedere l’altro, primeggiare, schivare le attenzioni di una madre morbosa, meritare il riconoscimento di un padre inarrivabile sono i desideri che animano Bianca, fragile trentenne, ricoverata più volte in psichiatria per i suoi vani tentativi di suicidio e protagonista del romanzo di Ilaria Palomba dal titolo Brama, edita da Giulio Perrone.

L’incontro con il filosofo Carlo Brama, ambivalente oggetto di desiderio, rende maggiormente precario lo stare al mondo della vulnerabile Bianca, e le apre un viaggio a ritroso nell’infanzia e nell’adolescenza pugliese, frugando tra i segreti di una famiglia borghese piena di scheletri nell’armadio.

L’amore non è una fiaba a lieto fine ma una radiografia della psiche, un legame tanto carnale quanto spirituale che, come in un rito, nel suo compiersi conduce al trascendimento della ragione. Tra Carlo e Bianca c’è un gioco crudele che diventa una condanna, una tessitura di destini, sacra e terribile, cui cercano entrambi di sfuggire.

Ilaria Palomba cita subito in esergo due concezioni della brama, secondo Alberto Savinio e Jung;  la protagonista desidera “come la terra brama il cielo”, ma poi citando “Il diario del seduttore” di Kierkegaard scrive che è “la paura il desiderio più grande,  la natura dell’anima umana” e nel capitolo 30 i termini desiderio e brama sono intercambiabili: questo non significa assolutamente confusione o inesattezza, ma difficoltà a stabilire differenze ontologiche tra brama e desiderio per chiunque.

La protagonista di Brama si alterna tra relazioni tormentate, autodistruzione, tentativi di suicidio sotto forma di “abbuffata di farmaci”, cure psichiatriche conseguenti e rischio reale di essere “lobotomizzata da farmaci”, che stabilizzano l’umore, annullano deliri e psicosi, ma allo stesso tempo appiattiscono la vita psichica.

La Giulio Perrone conferma ulteriormente con questo romanzo di pubblicare libri di elevata qualità. Quest’opera è senza ombra di dubbio frutto di grande talento e coraggio. È un’analisi psicologica incessante, arricchita da citazioni letterarie, psicologiche, filosofiche. Le rare volte in cui si descrive atti sessuali non c’è mai volgarità ma modernità. Il sesso poi non è mai estremo. Il sadomasochismo è soprattutto psicologico/esistenziale: come scrive magistralmente la Palomba è una “sfida a fottersi entrambi” da parte dei due amanti.

Vengono anche descritte le dinamiche patologiche familiari. Bianca infatti si sente una pazza depressa e una figlia ingrata, ma interiormente prova un forte disagio, tant’è che si definisce la “somma di pezzi non assemblati”. Carlo, il suo amante, non vuole solo il sesso o l’amore, ma soprattutto la mente; tuttavia anche la protagonista è considerata da chi la conosce bene una manipolatrice mentale.

In ambito sentimentale la stragrande maggioranza delle persone ha un archetipo definito, dei gusti definiti che portano a scegliere spesso la stessa tipologia di partner. Si usa dire che chi si somiglia si piglia. Ma non c’è una regola certa. A volte si possono scegliere persone complementari, mentre a volte si attraggono le persone totalmente opposte, completamente agli antipodi.  Sapere poi perché siamo esseri così abitudinari è difficile a dirlo.

Perché i nostri comportamenti sono incasellati sempre in pochi pattern, in poche categorie? Perché fanno parte della nostra identità e della nostra personalità di base che è sempre così stabilita e predeterminata? Siamo davvero degli esseri così prevedibili? È ciò che un lettore si domanda dopo aver letto Brama. In fondo siamo ciò che pensiamo e siamo ciò che facciamo e inoltre facciamo sempre ciò che pensiamo? I nostri desideri agiscono per noi? Siamo agiti dalle nostre sub-personalità?

Siamo come automi già programmati con schemi sia innati che appresi? Gli studiosi della mente cercano di dare risposte, ma c’è poco di certo. Tutti concordano nel dire che il cervello umano è “schematico” per adattarsi meglio all’ambiente,  per essere coerenti con noi stessi (dato che siamo ricercatori di coerenza e stabilità), per mettere ordine al disordine, per interpretare più efficacemente il mondo. Tutti siamo soggetti a schemi cognitivi, costituiti da modelli e rappresentazioni mentali, da convinzioni radicate nell’animo. Il problema è che alcuni hanno degli schemi “disfunzionali” e finiscono per imbattersi sempre nelle solite situazioni, nei soliti episodi.

Bianca è in un certo qual modo disfunzionale in amore. È anche vero che quando ci imbattiamo in una situazione viene attivata la memoria e in essa vengono cercate delle reazioni e dei comportamenti a situazioni simili che abbiamo già vissuto. È molto difficile cambiare, comportarsi in modo completamente nuovo ed originale.

Alcune domande sorgono spontanee. In che modo viene generato un modello di comportamento? Fino a che età si può cambiare schemi di comportamento? Una persona poi può cambiare i suoi schemi di comportamento senza snaturarsi totalmente? Una cosa è certa: molte persone sono molto conservatrici, hanno così paura del nuovo, dell’ignoto, del cambiamento, che preferiscono stare malissimo pur di rimanere tali e quali.

Il problema principale, croce e delizia al tempo stesso, è che la nostra esperienza è sempre troppo limitata per fare delle inferenze efficaci per il futuro. L’autrice infine ci fa domandare come potremmo Imparare a non farsi del male, a volersi bene. Sartre a tal proposito sosteneva: “È vero che non sei responsabile di quello che sei, ma sei responsabile di quello che fai di ciò che sei.”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’Io e mondo nella poesia italiana

Gadda ne “La cognizione del dolore” scrive: “[…] l’io, io!… il più lurido di tutti i pronomi!… I pronomi! Sono i pidocchi del pensiero. Quando il pensiero ha i pidocchi, si gratta come tutti quelli che hanno i pidocchi… e nelle unghie, allora… ci ritrova i pronomi: i pronomi di persona”.

Però Gadda lo fa dire al protagonista, suo alter ego nevrotico, in una crisi parossistica. Non dimentichiamo che Gadda era notoriamente nevrotico, per quanto geniale, e ha messo molto del suo io empirico nevrotico in quel romanzo. Alcuni oggi, che vorrebbero rimuovere l’io lirico, citano questo brano dell’ingegnere.

Inoltre per Gadda tutti i pronomi sono “pidocchi del pensiero”, per cui non ci sarebbe via di uscita. Ogni narrazione sarebbe perciò tarata a priori. Infine queste frasi non vanno decontestualizzate. Estrapolare delle frasi dal loro contesto può essere fuorviante ed indurre in errore. Si tratta pur sempre di un romanzo, La cognizione del dolore, che ha senza ombra di dubbio un suo contenuto di verità, ma che è anche creazione di un mondo fittizio e di personaggi immaginari grotteschi e paradossali.

L’io tra nevrosi e impersonalità

Il problema è quanto della propria nevrosi, delle proprie fratture, dei propri vuoti uno riversi nella propria opera e ciò non è  necessariamente detto che sia un male. Chi impone che l’impersonalità e il distanziamento siano degli obblighi della narrazione? E la narrazione di Gadda può essere forse presa di esempio?

Bisogna sempre stare attenti quando si cita a non farlo a sproposito, a non strumentalizzare la fobia dell’io di Gadda. Qui non si tratta di canoni della letterarietà, ma di una difesa ad oltranza di quel poco che resta del soggetto freudiano (visto e considerato che il soggetto cartesiano è stato distrutto dai maestri del sospetto e del cogito, ergo sum resta solo il coito, ergo sum).

La rimozione dell’io lirico

Ad ogni modo ognuno è sempre circondato da se stesso, come scriveva Sartre, indipendentemente dagli escamotage narrativi. A proposito di io e scrittura, oltre al celebre detto “Conosci te stesso”, Gramsci in un articolo citava Novalis, che a sua volta scriveva: «Il supremo problema della cultura è di impadronirsi del proprio io trascendentale, di essere nello stesso tempo l’io del proprio io. Perciò sorprende poco la mancanza di senso ed intelligenza completa degli altri. Senza una perfetta comprensione di noi, non si potranno veramente conoscere gli altri». Ma può valere anche il contrario.

Insomma sono  necessarie anche l’autoconoscenza, l’autodeterminazione. Per decenni l’intimismo ha fatto da padrone nella cosiddetta poesia lirica. Attualmente in Italia alcuni letterati vogliono rimuovere l‘io lirico e demonizzano l’io in senso lato.

Voler rimuovere l’io lirico significa non poter scrivere in prima persona nelle poesie, essendo costretti a trattare gli altri che possono essere proiezioni del proprio io o riproposizione delle solite figure parentali. Insomma la psicanalisi ci insegna a ragione che è lecito diffidare anche di chi parla troppo degli altri e che talvolta così facendo finisce per deformarli troppo  con la sua lente o per rispecchiare sé stesso.

Poeti introversi ed estroversi

Alcuni sostengono che i poeti contemporanei siano affetti da egolatria. È difficile dire quale sia il discrimine tra normalità e patologia. E poi si pensi al fatto che anche Stendhal scrisse Ricordi di egotismo. La stessa poesia moderna americana è un continuum ai cui poli opposti ci sono la schiva Emily Dickinson e il titanico Walt Whitman.

Da una parte l’introversione e dall’altra l’estroversione. Prima ancora che un atteggiamento intellettuale, filosofico, letterario, conoscitivo scegliere uno o l’altro di questi poli è questione di personalità. Ci sono introversi ed estroversi. Non c’è niente di giusto o sbagliato. Ci sono pro e contro di entrambe le condizioni esistenziali.

Questi due diverse modalità di approcciare la realtà sono frutto prima di tutto questione di personalità. Dalla personalità consegue il modo di interfacciarsi al reale. Come esiste un orientamento sessuale, politico, valoriale esistono anche varie tipologie di personalità. Ma i critici letterari non dovrebbero giudicare il modo in cui gli autori si volgono alla conoscenza.

C’è chi sceglie insomma prevalentemente l’interno e chi l’esterno. In alcuni autori gli altri si riflettono in loro stessi ed in alcuni autori l’io si riflette negli altri. Si tratta pur sempre di rimandi continui, di un perenne gioco di specchi. Partire dagli altri e finire nell’io o viceversa è solo un punto di partenza.

Cosa significa privilegiare l’io

Privilegiare l’io o il mondo non deve essere una posa, basata su premesse teoriche. Esimersi dal tranciare giudizi approssimativi è senza dubbio un atto di onestà intellettuale; è fuori luogo anche il fatto che a seconda dello spirito dei tempi sia di moda quando l’intimismo e quando invece gli altri. Un altro aspetto risibile  è che alcuni autori postulino la rimozione dell’io e poi scrivano dei romanzi o delle raccolte poetiche autobiografiche.

Evidentemente egoriferiti sono sempre gli altri. In questi ultimi anni in poesia nelle polemiche letterarie evidentemente vince chi dà per primo dell’egoriferito all’altro. È una moda come un’altra. Non è frutto di una evoluzione stilistica o letteraria. Non è un punto di arrivo della letteratura come vorrebbero far credere alcuni. Un tempo c’era la vecchia disputa molto divisiva tra realisti ed idealisti.

La conoscenza di se e degli altri

Il vero atteggiamento conoscitivo equilibrato sarebbe trovare un equilibrio tra io e mondo e questo trascendendo i propri tratti di personalità. Ma ciò è quasi impossibile perché l’io o il mondo sono come calamite. C’è chi è attratto dall’uno e chi dall’altro, molto probabilmente più per attitudine che per scelta, più per natura che per cultura.

Un interrogativo che sorge spontaneo è se la propria personalità di base sia un nucleo costante ed inalterabile o se invece oggi come oggi sia modificabile. La cosa si complica perché sembra che le vecchie teorie sulla personalità come i tipi psicologici di Jung siano oggi inadeguate per decifrare il Sé così sfuggente dell’uomo contemporaneo.

Sembra che entrino in gioco in ognuno di noi anche le cosiddette sub-personalità. Anche gli altri sono però sfuggenti. In ogni caso è vero che cresciamo e maturiamo grazie all’immagine che gli altri hanno di noi, ma è altrettanto vero che per conoscere bene gli altri bisogna conoscere bene sé stessi.

È un circolo ermeneutico che dura tutta la vita. Sia la conoscenza di noi stessi che del mondo è sporadica, superficiale, discontinua. Di noi stessi conosciamo la nostra voce interiore, il nostro discorrere tra sé e sé. Degli altri conosciamo una minima parte dei loro comportamenti e delle loro espressioni verbali.

Uno dei problemi filosofici ancora irrisolti è come, nonostante i nostri limiti intrinseci, riusciamo a conoscere tutto quello che conosciamo. La questione dell’io in letteratura è un intreccio inestricabile di letterarietà e psicologia. Non può essere altrimenti e le persone ponderate dovrebbero riconoscerlo senza tacciare chi la pensa diversamente di psicologismo.

Non vi preoccupate comunque poeti introversi ed intimisti: l’io tornerà di nuovo in auge. E poi perché estrovertersi sia necessariamente un bene e concentrarsi su di sé è necessariamente un male? La preghiera, il raccoglimento interiore, la meditazione dovrebbero essere allora un male?

 

Davide Morelli

L’alienazione dal sacro e il continuo manifestarsi delle ierofanie tradizionali e moderne, tra Pasolini e Jung

Tramontate le ipotesi di un futuro senza religione, il sacro o l’archetipo tendono ad assumere un’apparenza tecnica, accettabile senza difficoltà anche dalla forma mentis illuministica; così, pure attraverso manifestazioni degenerate, quali teorie ufologiche, psicologie sacralizzate o feticci tecnologici, esse continuano a parlarci di una ineliminabile dimensione altra. L’occhio d’improvviso gli splende, il tono della voce si accalora, il discorso conosce l’inconoscibile tenerezza, scrisse Pier Paolo Pasolini («Tempo», 5 aprile 1969) ma non per descrivere l’incontro tra due amanti o il passaggio ad uno stato estatico, quanto l’ultima ierofania possibile: il discorso sul motore. L’ultima emozione in grado di scuotere i giovani spentisi nella società del benessere occidentale: parole di amore e di adorazione innanzi ad un cruscotto, quali estremi rantoli dell’agonia di Dio. Tale agonia, secondo Pasolini, non sarebbe durata ancora a lungo, salde allora le previsioni o piuttosto la “fede” in un futuro assolutamente non religioso infine mai giunto, smentito clamorosamente dal fuoco dei fondamentalismi, come dal rinnovato manifestarsi della religione quale realtà culturale necessaria alla comprensione dell’umano e del sociale fin dentro la modernità più tarda.

Pratiche e credenze religiose risultano infatti tutt’ora ben lungi dal dissolversi, anche nel modo secolarizzato, tra la resistenza, più o meno strenua, delle istituzioni religiose tradizionali, la pretesa antimoderna dei modernissimi fondamentalismi e le tendenze fluide della religiosità New Age; queste ultime spesso assai armoniche agli irresistibili processi disgregativi all’opera in ogni campo. Credenze e riti religiosi invece che scomparire, anche quando la globalizzazione ha mandato in frantumi i rispettivi contesti e le rispettive istituzioni di appartenenza tradizionale, sono caduti preda della forza centrifuga del tempo; offrendosi quali frammenti-merce ai moderni individui consumatori, anch’essi più o meno frantumati. I quali, nel contemporaneo super market del religioso, hanno conseguito la possibilità di acquistare, provare ed eventualmente gettare via in un secondo momento, credenze, pratiche, miti e riti, componendoli liberamente tra loro per ottenere una religiosità personale, unica e privata, scollegata dall’originale provenienza dei frammenti e naturalmente in qualunque momento revocabile, modificabile ad libitum. I templi moderni non si innalzano verso il cielo ad onore di Dio, quanto ad onore del proprio mutevole, umano capriccio consumista.

Così, contrariamente alle previsioni di Pasolini, anche la ierofania del motore ha continuato a manifestarsi, raggiungendo il massimo grado nel feticismo del telefono cellulare: medium del legame sociale e di legami sociali effimeri, nemico di limiti e giuste misure, nella sua rincorsa infinita verso sempre nuovi modelli, fondatore di una temporalità ultima dove tutto è subito e niente può valere, costare o distare più dell’attimo di un clic. Se non possono più Apollo e Dioniso, surrogano pertanto oggi gli smartphone, aprendo ecstasy solari apatiche verso la flebile luminosità dei touchscreen o scatenamenti tellurici, ritmati dalla continua ripetizione di toni e vibrazioni della messaggistica.

In maggior grado che il motore, proprio il telefono cellulare ha infatti portato alle conseguenze estreme quanto già aveva osservato Pasolini. Esso, dopo essersi lasciato adorare, da strumento è giunto a confondersi con la soggettività che ha creduto di utilizzarlo: insieme all’adorazione per questo oggetto privilegiato c’è una tendenza alla fusione e all’identificazione con esso: io sono il mio motore [telefono cellulare]… oppure: io manco di motore [telefono cellulare], quindi sono privo di comunicazione col divino. Non sorprende affatto la cogenza con la quale il moderno capitalismo riesce a suscitare il desiderio di acquisto verso sempre nuovi prodotti, spesso desiderata tecnologici, scatenanti la ierofania del momento, alla quale è sempre più difficile rinunciare; pena la perdita di comunicazione con il divino nonché della propria personalità. Va in oltre da sé, come il pericolo di tali perdite non possa essere scongiurato definitivamente, stante la folle corsa alla novità inesausta dei prodotti e delle credenze, invertendo la tendenza di una storia delle religioni che aveva fin qui manifestato la novità quale elemento di eccezione, lontana dal rappresentare la regola.
Esiste però anche un’altra ierofania moderna o piuttosto una teofania, le cui forme hanno mantenuto una maggiore costanza rispetto a quelle dei desiderata tecnologici; apparentemente meno distante dalle manifestazioni del sacro tradizionali: l’ossessione per gli ufo. Carl Gustav Jung ha dedicato uno dei suoi ultimi studi al fenomeno: Un Mito Moderno, le cose che si vedono in cielo (1958). Attraverso tale opera, sospendendo il giudizio sulla realtà fisica degli ufo, certo concretissimi per coloro i quali li osservano, Jung ha analizzato i dischi volanti dal punto di vista psichico; rendendo pertanto poco significante la distinzione tra l’eventualità di fenomeni psichici capaci di originare una sensazione visiva, confermata da un’eco radar e la comparsa reale di oggetti fisici, incidentalmente utili all’inconscio, al fine di manifestare quanto non può più assumere una forma mitologica tradizionale.

Sempre che tali ipotetiche corrispondenze tra fenomeni fisici e psichici, piuttosto che in termini causali, non possano spiegarsi meglio tramite una constatazione di sincronicità; al modo di quella che secondo Jung, avrebbe affiancato la realtà dolorosa di un’umanità scissa al sincronico rappresentarsi delle due polarità sessuali in ottica di antitesi: con la raffigurazione del principio maschile nella stella rossa dell’Unione Sovietica e del principio femminile nella stella bianca degli Stati Uniti, applicando la lettura simbolica dei colori propria dell’alchimia occidentale.
La forma circolare degli ufo rappresenterebbe così soprattutto, nella geometria archetipale comune (ad esempio la mandala), l’unione degli opposti e l’integrità dell’anima; bisogno inconscio di un individuo moderno, interiormente minacciato da rischi di scissione dell’io e oppresso al di fuori dalla spaccatura dell’umanità tra i blocchi degli Usa e dell’Urss, in bilico sul precipizio spaventoso dell’apocalisse nucleare. Nota di fatti Jung, come spesso gli ufo preferiscano sfidare le leggi fisiche del volo attraverso i cieli degli Stati Uniti ed effettuare le proprie evoluzioni nelle prossimità di aeroporti o installazioni nucleari; mentre diverse teorie ufologiche siano solite spiegare tale propensione, proiettando sugli abitanti di altri mondi l’umana preoccupazione per lo sviluppo dell’arma atomica e la nostra capacità di esplorare lo spazio cosmico. Quanto ai rischi di scissione dell’io, ad essi non è estraneo il modello educativo contemporaneo, di tipo tecnico, estremamente specialistico ed esclusivamente materialista che, rivolto allo sviluppo di una singola facoltà dell’essere umano, esclude l’inconscio e contribuisce alla disgregazione anche della società. No, non sorprende che l’ossessione per gli ufo si sia manifestata prima negli Stati Uniti e di lì progressivamente, assieme allo stile di vita americano, si sia diffusa nel resto del mondo.

Innanzi a questo uomo ultimo, razionale, illuminista, ormai lontano dalle concezioni religiose dei suoi antenati, avvinto dalla fede nel mondo terreno e nella propria potenza, convinto di poter fare a meno di inconscio, dei e spiriti, occorre che l’archetipo assuma in contrasto con i suoi aspetti precedenti una forma concreta, anzi addirittura tecnica, per evitare l’indecenza di una personificazione mitologica. Ciò non di meno va rilevato come neanche tale uomo riesca davvero a rinunciare alla speranza di un intervento divino salvifico, inconsciamente percepita l’impossibilità di superare con le sole sue forze un’epoca divenuta ormai intollerabile; eppure perfino le divinità devono sottostare al primato della tecnica che, già dispiegatosi su tutti i campi del sociale, va appropriandosi anche della dimensione del sacro, alienandola dalle manifestazioni tradizionali quali le religioni, Dio o gli Dei, in favore di nuove espressioni più plausibili scientificamente come teorie ufologiche, ipotesi di fisica quantistica, arti della guarigione o psicoterapie sacralizzate. L’uomo moderno accetta senza difficoltà ciò che presenta un’apparenza tecnica, così anche le più recenti manifestazioni del sacro assumono tale aspetto.

Pare pertanto potersi concludere come la civiltà contemporanea, con il suo primato della tecnica, piuttosto che svilupparsi verso un futuro assolutamente non religioso, tenda piuttosto ad appropriarsi anche della non eliminabile dimensione del sacro; ma non di meno anche come, se pure per tramite di un cellulare connesso ad Internet – meglio se costoso – o di un alieno, percepito come divino perché più ricco di tecnica, l’uomo moderno, alla dimensione del sacro, desideri ancora rapportarsi. Le ierofanie, moderne o tradizionali, continueranno a manifestarsi e ad esercitare un ruolo significativo nel futuro dell’umanità.

 

Alessio Mariani

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