‘L’operaio, il trattato filosofico e metafisico di Jünger. L’operaio come forma sovraindividuale, lontano da qualsiasi ideologia, prima che divenisse categoria sociale

L’operaio affronta i temi centrali del dibattito che la cosiddetta “letteratura della crisi” sviluppa nel periodo tra le due guerre mondiali che concerne la critica della civiltà occidentale, nel contesto culturale di grave crisi dell’Europa. L’operaio di Ernst Jünger, edito nel 1932, costituisce uno dei documenti più rappresentativi della “letteratura della crisi”, vale a dire di quel dibattito ricco e articolato, sviluppatosi nel periodo tra le due guerre mondiali, che concerne la critica della civiltà occidentale, nel contesto culturale di grave crisi dell’Europa. L’operaio affronta i temi centrali di quel dibattito, quali la conclusione di una civiltà e la sua lettura come crisi dell’idea stessa di Zivilisation, intesa come insieme delle norme e dei comportamenti di carattere convenzionale e contrattualistico, la dissoluzione dello stato borghese e dei valori che lo rappresentano, il significato e il ruolo del nichilismo in questo processo di disfacimento, la tecnica e la sua funzione spersonalizzante nei confronti dell’individuo, con i connessi sviluppi antiumanistici e antilluministici, la concezione della storia come destino. Intento di questo lavoro è capire Jünger, e segnatamente L’operaio, da un punto di vista rigorosamente scientifico, individuandone i fondamenti filosofici, ricostruendone struttura e argomentazioni, mettendone in luce la profonda unità tematica. La chiave che consentirà di realizzare questo compito è la metafisica, un termine al quale l’autore, dopo aver condannato al non senso ogni nostalgia filosofica, toglie a priori qualsiasi possibilità d’uso tradizionale – ove, secondo la definizione classica, essa costituisce la scienza prima, ovvero la scienza che ha come proprio oggetto l’oggetto comune a tutte le altre scienze e come proprio principio un principio che condiziona la validità di tutti gli altri -, ma anche qualsiasi connotato genericamente moderno.

Cosa Jünger precisamente intenda utilizzando il termine “metafisica”, è Martin Heidegger – il filosofo tedesco che fin dagli anni Trenta più e meglio lesse e commentò L’operaio – a rivelarcelo. Proprio parlando di quest’opera di Jünger egli scrive che: «(…) essa rimane un’opera che ha la sua patria nella metafisica. In conformità a quest’ultima tutto l’ente, mutevole e mosso, mobile e mobilitato, è rappresentato a partire da un “essere che è in quiete», e questo anche là dove, come in Hegel e in Nietzsche, l’ “essere” (la realtà del reale) è pensato come puro divenire e assoluta mobilità. La forma è “potenza metafisica”. Possiamo quindi individuare in Heidegger il padre di una corrente interpretativa del pensiero jüngeriano che vede nella Gestalt un concetto che designa l’essere “teorizzato” nella sua differenza con l’ente, cioè che designa la trascendenza o la metafisica come tale. L’“essere in quiete” di cui parla il filosofo di Messkirch è, dunque, la forma  scaturente dal “solco dell’essere”, orizzonte indistinto, ineffabile e atemporale, ed essa stessa immobile, eterna, ma non chiusa in se stessa poiché si dispiega nello spazio e nel tempo attraverso il tipo (argomento principale del capitolo secondo), manifestazione vivente della forma e, come la forma, sovraindividuale.

Si delinea, così, un’impalcatura ontologica gerarchicamente articolata che vede al primo livello, per così dire, il piano indistinto dell’essere e, a quelli immediatamente successivi, la forma e il tipo. In questo quadro ontologico l’operaio è una delle forme attraverso cui, in un determinato arco temporale, l’indistinto si rivela; non indica un singolo individuo né una classe sociale come la intendiamo noi oggi: è, in qualità di forma, un’entità metafisica, e dunque sovraindividuale; né, tantomeno, è un “prodotto” della storia: è imposto dalla forma al magma energetico che costituisce quello che Jünger chiama l’elementare (capitolo terzo), e proprio questa imposizione gli conferisce una valenza destinale: è tramite l’operaio, infatti, che l’uomo partecipa al destino metastorico della sua epoca; l’epoca del dominio della tecnica (i cui contenuti saranno sviluppati nel quarto e ultimo capitolo dell’opera). Alla tecnica è riconosciuto un valore positivo, conferitole proprio dall’“anima” metafisica che la contraddistingue. E’ ancora Heidegger che coglie perfettamente questo aspetto, quando scrive: «Vero è ciò che corrisponde all’essenza della tecnica. Questo rapporto essenziale non è mai raggiunto nell’operare tecnico immediato, cioè nel carattere di volta in volta speciale del lavoro. Esso consiste nella relazione col carattere totale del lavoro. (…) Qual è la determinazione dell’essenza della tecnica che ne risulta? È il simbolo della forma del lavoratore». “Tecnico” non sarà colui che svolge una mansione particolare, attenendosi semplicemente ad un compito pratico, ma chi riconoscerà nel lavoro, di volta in volta, il suo carattere di totalità. La totalità è il “movimento” della forma predominante – quella dell’operaio e, dunque, del lavoro – e la sua tendenza a penetrare in ogni spazio vitale, pratico o teoretico.

Sfogliando L’operaio dunque si ha la sensazione che temi di varia natura siano talmente e finemente interconnessi che appaia assai arduo procedere ad una de-composizione funzionale alla comprensione dei presupposti. Ad una lettura più attenta si “vede” invece perfettamente ciò che, nell’intento dell’acuto “sismografo”, si cela sotto la multiforme matassa.
Secondo Jünger esisterebbe un “solco” ineffabile definito di sovente eterno e immobile, di cui ogni forma (Gestalt) sarebbe il modo temporale. La Forma è una irradiazione (Strahlung) dell’Indistinto eterno ed immoto, è il modo tramite cui l’essenza numinosa della forma si fa tempo; la forma è un tutto che non si riduce alla somma delle sue parti. Ciò fa pensare che l’essenza della Gestalt non nasca e non muoia con gli elementi che ne garantiscono l’epifania, anche se il rapporto tra la forma e il suo evento è pressoché necessario. L’uomo non ha la possibilità di rappresentare la forma nella sua essenza, non la può cioè porre davanti a sé come un oggetto materiale o spirituale per poi misurarla razionalmente. Essa, in sé, è come l’Uno di Plotino. Ma l’uomo può “avvicinarsi” alla forma vivendola, cioè incarnandola. Vivere la forma significa dis-porsi alla sovraindividualità che è la modalità grazie a cui la forma si appresta a dominare globalmente. L’uomo travalica la propria individualità facendo spazio al dipanarsi della forma, tras-formandosi in Tipo. La Forma si manifesta infatti nel tipo. Essa è il sigillo, dice Jünger, rispetto al tipo che è l’impronta.

Se la forma nelle sue vestigia mortali è una declinazione dell’eternità, il tipo dovrebbe quindi essere considerato come la guisa temporale della forma. Esso infatti, in un certo senso, attualizza il Destino della Forma. Tale Destino, come suggerito dal titolo de L’operaio, è il Dominio della Forma. Un Dominio che, lo si diceva, non è parziale, che cioè non si espande in un solo piano della realtà, ma a livello del pensare, del sentire e del volere oltre che nello spazio tramite la tecnica e la distruzione che essa comporta. Nello scritto del 1963 Typus, Name, Gestalt si legge che “Tipo” è più di “individuo” nella stessa misura in cui è meno di “forma”.

La tecnica è “la maniera in cui la forma dell’operaio mobilita il mondo”. L’operaio è così quella Forma che mobilita il mondo tramite la tecnica. Heidegger commenta che allora la tecnica coincide con la mobilitazione -totale- del mondo attuata dalla forma dell’operaio. Alain de Benoist, rifacendosi al saggio del 1930 intitolato Die Totale Mobilmachung, fa presente come ”mobilitare”, nel gergo di Jünger, non significhi solo mettere in movimento, ma vorrebbe indicare anche “essere pronto, rendere pronto”. La mobiltazione va da un lato di pari passo con la distruzione e si realizza nello spazio con la tecnica bellica (18); da un altro lato, già nella sua opera di demolizione, prepara il terreno per la parusia di una nuova Figura e innesca il meccanismo necessario affinché il nuovo Dominio della Forma si realizzi. Come si diceva, il tipo umano è altro dall’individuo. Ora, l’uomo si fa tipo tramite la tecnica, la quale incide sull’essenza dell’uomo grazie alla messa in moto di radicali processi spersonalizzanti che aprono l’individuo alla uni-formità e dunque alla sovra-individualità. L’uomo che inizialmente crede di perseguire tramite la tecnica (strumento da lui inteso in senso neutrale) la felicità (la tecnica si propaga facilmente e velocemente e ingenera l’illusione che tramite essa si possa superare il dolore), poi diventa parte del dispositivo che accende.
La spersonalizzazione che la tecnica introdurrebbe prelude al totale oltrepassamento del modo che sino a quel momento, secondo Jünger, si aveva di interpretare la libertà intesa come “misura il cui metro campione venga fissato dall’esistenza individuale del singolo”. L’uomo è parte di un processo dove perdono di importanza le qualità e la vita del singolo, dove, come si diceva, risulta fondamentale rendere il mondo funzionante per lavorarlo in vista della produzione, cioè della mobilitazione. Il lavoro, mezzo che la forma utilizza per piegare a sé il mondo, si propaga in ogni settore della vita.

Jünger non condivide il presupposto che starebbe alla base del modello economico proposto dalla società liberal-capitalista, secondo cui la felicità e il benessere di una nazione si ottiene tramite la soddisfazione economica degli individui (atomi) che compongono la stessa società.
L’idea per la quale soddisfare i propri esclusivi interessi conduca alla felicità della nazione, è fermamente rifiutata da Jünger. Egli ritiene che l’interesse privato debba essere garantito nell’alveo degli interessi sovraindividuali dell’organismo comunitario. Fondare una ideologia che a partire dalla metafisica, tramite l’interpretazione altrettanto metafisica della tecnica, attacchi nei fondamenti l’individuo e la sua idea di libertà, significa chiaramente avere come bersaglio il liberalismo che sull’individuo e sulla tutela dei suoi diritti basa la propria dottrina. I rivoluzionari conservatori si sentivano “vitalisti” proprio nel senso che aderivano nichilisticamente alle contraddizioni della realtà, specialmente laddove queste conducevano alla demolizione dell’apparato politico ed ideologico delle classi dominanti.

 

 

Ernst Jünger, teologo della nuova epoca, pedagogo della libertà, autore di capolavori come “Nelle tempeste d’acciaio” e del profetico “L’operaio”

Ernst Jünger (Heidelberg 1895 – Riedlingen, Alta Svevia, 1998), fu maestro insuperabile della contemplazione, esempio memorabile di azione, teologo della nuova epoca, platonico moroso, entomologo competente, pedagogo della libertà. Infine amante dell’Italia, dalla Dalmazia irredenta all’assolata Sicilia, da quel di Napoli fino alla più amata di tutte, quella Sardegna dalla terra «rossa, amara, virile, intessuta in un tappeto di stelle, da tempi immemorabili fiorita d’intatta fioritura ogni primavera, culla primordiale». 

«Le isole – insegna Jünger – sono patria nel senso più profondo, ultime sedi terrestri prima che abbia inizio il volo nel cosmo. A esse si addice non il linguaggio, ma piuttosto un canto del destino echeggiante sul mare. Allora il navigante lascia cadere la mano dal timone; si approda volentieri a caso su queste spiagge» (Terra sarda). E la sua opera fu un’isola di luce lontana dalla baruffa letteraria del Novecento, oasi per gli spiriti assetati di libertà.

L’anno è il 1895. Röntgen era vicino alla scoperta dei raggi X; in Francia esplodeva l’affaire Dreyfus. Amava ricordare questi due avvenimenti, Ernst Jünger. Essi attraversarono tacitamente la sua vita e le sue riflessioni, le quali non sono altro che lo specchio di un secolo: quel Novecento veloce e potente come il fulmine di Eraclito, fulmine che «governa ogni cosa», come era scritto sopra la soglia della baita di Heidegger nella Selva Nera. La scoperta di Röntgen aprì il secolo della tecnica, dando la possibilità all’uomo di “vedere l’invisibile”, di osservare ciò che al microscopio era precluso, di sviluppare la ricerca sull’atomo e sulla fissione nucleare. Cinquanta anni separarono la tanto casuale quanto fortunata scoperta del 1895 da Little Boy, dolce artificio statunitense, che Hiroshima ricorda come fuoco celeste: meno modesto del giottesco bagherino luminoso di San Francesco, più furioso dell’infuocato carro del Libro dei Re, dipinto da Roerich sulle calde tonalità del rosso. L’atomica non lasciò niente; non rimase a terra il mantello che a Elia cadde durante l’ascesa. Chi ha vissuto il Novecento ha timore dell’uomo più che di Dio, le cui distruzioni narrate nell’Antico Testamento sembrano delle grazie in confronto ai massacri di due guerre mondiali.

Il caso Dreyfus inaugurò invece l’arma migliore delle democrazie occidentali: l’opinione pubblica, lama dotata della più affilata critica, aumentò il grado di incertezza politica, incassando una vittoria sulle baffute e polverose forze conservatrici. Il secolo passato è stato mutevole come l’acqua, oltre che terribile come il fulmine. Ernst Jünger è nato così: con l’invito a riflettere sulla tecnica e sulla politica, ma senza cadere nella spirale della sola contemplazione. Il tempo dell’uomo è limitato, l’educazione costosa. Alla contemplazione riunì l’azione, ma lo fece in modo più armonico e costante del giapponese Mishima, altro equilibrista a metà tra la luce notturna del pensiero e quella diurna dell’atto senza scopo. La bellezza, ne siamo suggestionati, è un tramonto: il momento in cui le forze lunari e solari si dividono il campo, e contemplazione e azione diventano Uno, nell’ascesa di un pilota verso la stella più vicina, su un affilata lama dei cieli. Mishima in Sole e acciaio insegna che «corpo e spirito non si fondono mai».

Jünger lottò con l’acciaio, quello dell’artiglieria inglese e francese, sul fronte occidentale. E, checché ne dica un beffardo adagio militare, non bastò la colazione a tenere insieme anima e corpo: ci volle ben altro. Già nel 1913, appena maggiorenne e fuggito dall’ambiente borghese della casa familiare, si arruolò nella Légion étrangère, covo di avventurieri e delinquenti più che di disciplinati soldatini. L’esperienza algerina a Sidi-bel-Abbès, a suo dire «avvenimento bizzarro come la fantasia», fu pubblicata in forma di confessione romanzata nel 1936, con il titolo di Afrikanische Spiele (Ludi africani). Ma Jünger allora era già noto per le sue imprese nella Prima guerra mondiale. Rimpatriato dall’Africa per l’intercessione del padre Ernst Georg Jünger, farmacista confidente più con la vetreria da laboratorio che con le pallottole, accolse con gioia l’invito del 1914, arruolandosi come volontario nell’esercito del Kaiser Guglielmo II. Aveva da poco incontrato su carta ciò che stava per vedere sul fronte. Le letture di Friedrich Nietzsche lo gettarono tra le braccia della guerra come un vitello che, spinto al mattatoio, si sente nel suo palazzo reale. Ma la carne di Jünger non fu tenera come quella di un vitello, e sopravvisse con estremo ardimento a ben quattordici ferite, di cui l’ultima molto grave, passando da semplice fante a Strosstruppfüher (capo di commando d’assalto), fino all’onore di portare al petto due Croci di Ferro, una Croce di cavaliere dell’Ordine di Hohenzollern e una Pour le Mérite, riconoscimento di una volontà dura come il ferro della medaglia, privilegio che ebbero solo dodici ufficiali subalterni dell’esercito imperiale.

In una caserma della Reichswehr (madre della Wehrmacht), tra il 1918 e il 1923, scrisse i suoi primi libri, tra cui un titolo imprescindibile per chi subì (e subisce) il fascino della Grande guerra: In Stehlgewittern (Nelle tempeste d’acciaio), frutto della rielaborazione di appunti dalla trincea sotto forma di memorie belliche, pubblicato nel 1920. Il destino dell’opera fu diverso da quello di altri racconti di guerra. Non è Il fuoco di Barbusse, apparso in pieno conflitto, ma nemmeno il celebre Niente di nuovo sul fronte occidentale di Remarque. Se il successo di questi fu lesto e universale, In Stehlgewittern – pubblicato tardi in traduzione italiana (1961) – circolò in ambienti di destra, tra circoli militari, associazioni di reduci, gruppi nazionalisti e conservatori, i quali ne compresero solo in parte lo spirito.

L’esperienza bellica – descritta poi in altre memorie quali La battaglia come esperienza interiore (recentemente pubblicato per i tipi di Piano B), Il tenente Sturm, Boschetto 125, Fuoco e sangue – non solo aveva catturato la gioventù «come un’ubriacatura» ed emancipato le nuove generazioni di tedeschi dal «minimo dubbio che la guerra ci avrebbe offerto grandezza, forza, dignità», ma aveva il sapore dell’«iniziazione che non apriva soltanto le incandescenti camere del terrore, ma anche le attraversava». Le incessanti esplosioni degli shrapnels, angeli del cielo che più che nuove portano palle di piombo a lacerare la carne, furono soltanto uno degli aspetti più terribili di quella guerra tecnica, di materiali. Non è la Francia dipinta dagli impressionisti, quella di macchie e pennellate giustapposte, ma è terreno di mutilazioni, di corpi insanguinati e ricoperti di fanghiglia, di un cielo di pallottole. È la guerra di trincea. È il soldato «che canta spensierato sotto una volta ininterrotta di shrapnels», come immaginato con futuristica eccitazione da Marinetti.

E il giovane Jünger coglie tutto ciò con un nichilismo estetizzante, cristallizzato in una prosa magistrale. Il soldato e l’artista qui celebrano la loro intima parentela, giacché la guerra è un’arte e viceversa. Valgono le parole riferite ad Aschenbach, protagonista de La morte a Venezia di Thomas Mann: «Anche lui era stato soldato e uomo di guerra come alcuni dei suoi maggiori; poiché l’arte è una guerra, è logorante battaglia». In Stehlgewittern, libro ora dimenticato, ma tra i migliori romanzi sulla guerra, privo di enfasi e di retorica, è una splendida glossa a Novalis, spirito europeo e cristiano, nella sua esaltazione del dinamismo poetico della guerra. La notorietà procuratagli dal libro permise a Jünger un’attiva partecipazione a movimenti nazionalistici e antidemocratici e la collaborazione a giornali come «Arminius», «Der Vormarsch» e «Widerstand», rivista dell’amico nazionalbolscevico Ernst Niekisch. Fu nel primo dopoguerra che cominciò la sua produzione saggistica, incisa ne La mobilitazione totale, Il dolore, L’operaio. Hans Blumenberg non aveva torto quando affermava che Jünger è l’unico autore tedesco ad aver lasciato testimonianze di un confronto pluridecennale con il nichilismo.

Nella sua opera sono forti l’inevitabilità del suddetto confronto e la sfida a tale problema. Egli ha cercato il nulla, l’annientamento del vecchio mondo di borghesi, scienziati e parrucconi; lo ha inseguito, infaticabile, nel deserto (Ludi africani), nello sprezzo della vita di fronte alla guerra raccontato con uno stile secco e crudo, a tratti notarile (Nelle tempeste d’acciaio), nell’ebbrezza (Avvicinamenti. Droghe ed ebbrezza), nel dolore (Sul dolore), «equivalente metafisico del mondo illuminato-igienico del benessere» (Blumenberg, L’uomo della luna). L’annientamento dell’uomo passa per il suo innalzamento, per la pianificazione totale della società “mobilizzata” nel lavoro e nello studio, per la riduzione finale della persona nella monade tecnico-biologica prospettata nella metafisica de L’operaio, libro fondamentale, per nulla ideologico (anche in questo sta la sua grandezza) e tra i più crudeli e profetici del Novecento nelle tappe dell’evoluzione intellettuale del pensatore tedesco, testo oggetto di studio per due grandi filosofi come Martin Heidegger, che negli anni Trenta organizzò sul tema dei seminari privati, e Julius Evola, che ne fece un commento (L’operaio nel pensiero di Ernst Jünger).

Ma c’è un evento nel mezzo della vita del nostro, luminoso come quella cometa di Halley che Jünger contemplò due volte (Due volte la cometa). Mentre lo Stato totale del lavoro da lui immaginato andava realizzandosi, ecco una «svolta imprevista, che va annoverata tra gli eventi più importanti della storia spirituale tedesca» (ancora Blumenberg): Sulle scogliere di marmo, il diamante prezioso tra i piccoli vetrini luccicanti nell’asfalto. Soffermarvisi è d’obbligo. I precedenti biografici del libro chiariscono meglio la svolta. Come ebbe a dire Goebbels, Ministro della Propaganda del Terzo Reich, «abbiamo offerto a Jünger ponti d’oro, ma lui non li volle attraversare». L’insofferenza dello scrittore per i modi pacchiani e volgari del Partito Nazionalsocialista gli procurò antipatie tra i gerarchi: la stampa smise di parlare dei suoi libri e la Gestapo gli perquisì la casa. Nel romanzo decisivo per la sua vita, egli descrive un Paese – la Marina, in cui ogni elemento sociale e politico è in armonia – minacciato da un pericoloso popolo di confine, barbaro, portatore di violenza e distruzione, dallo stile terribile e plebeo, guidato dal Forestaro (figura che molti identificarono con Hitler, altri con Stalin).

La canaglia del bosco si muove contro la civiltà, l’anarchia nichilistica contro le forze della Tradizione. I due protagonisti, due fratelli (allusione all’autore stesso e a suo fratello, Friedrich Georg), sono supportati da quattro personaggi: Padre Lampro, dietro cui si può scorgere la Chiesa, o almeno la forza spirituale della religione; Belovar, vecchio e coraggioso barbuto a rappresentanza del vecchio mondo rurale; di nobile stirpe, invece, il principe Sunmyra, la cui testa mozzata dopo un’eroica impresa è recuperata dal protagonista e diventa oggetto di rituali; infine Braquemart, bellicoso sodale del principe ed effigie del nobile intellettuale nichilista, che interpreta la vita come meccanismo le cui ruote motrici sono la violenza e il terrore, uomo di «fredda intelligenza, sradicata e incline all’utopia». Chiunque abbia confidenza con la letteratura jüngeriana ricorderà le parole che aprono Sulle scogliere di marmo: «Voi tutti conoscete la selvaggia tristezza che suscita il rammemorare il tempo felice: esso è irrimediabilmente trascorso, e ne siamo divisi in modo spietato più che da quale si sia lontananza di luoghi». La ricerca della bella morte in guerra fa spazio alla «vita nelle nostre piccole comunità, in una casa ove la pace regni, fra buoni conversari, accolti da un saluto affettuoso a mattina e a sera». A chi vive l’esistente come poesia non resta altro che chiedere asilo ai manieri della propria interiorità, confidando nella resistenza dei nobili contro il nulla, nella sublimazione di tutto nel fuoco catartico dello specchio di Nigromontanus.

Fu Hitler a salvare Jünger da morte certa. Il Forestaro apprezzava la penna che lo tratteggiò. Lo salvò anche dopo il 20 luglio del 1944, data del celebre attentato al Führer. Se è vero che non furono trovate prove della collaborazione tra gli attentatori e Jünger (che durante la Seconda guerra mondiale si occupava dell’ufficio di censura a Parigi, come ufficiale dello Stato Maggiore), lo è altrettanto il fatto che i sospetti su di lui erano più che forti, tanto da fargli recapitare un’espulsione dall’esercito per Wehrunwürdigkeit (indegnità militare). Era definitivamente finito il tempo dell’eroe di guerra, cominciava quello del contemplatore solitario. Sottoposto a censura durante l’occupazione alleata, sorte condivisa con gli amici Martin Heidegger e Carl Schmitt (il quale era, tra le altre cose, padrino del secondo figlio di Ernst, Alexander Jünger), si ritirò nel paesino di Wilflingen, prima nel castello degli Stauffenberg (famiglia da cui proveniva Claus Schenk von Stauffenberg, organizzatore del fallito attentato a Hitler), poi nella foresteria del conservatore delle acque e delle foreste della stessa famiglia, edificio che fu sua abitazione fino alla morte.

Vasta è l’opera di questo grande scrittore tedesco. Fu il diarista del Novecento, interprete del suo spirito. La costanza con cui annotò fatti e riflessioni sui suoi diari è nota. Anche nella scrittura, Ernst Jünger mostrò coraggio: il diario è più di altre la forma stilistica attraverso la quale un pensatore o un letterato si mostra nella sua intima debolezza di uomo, sottoponendosi a una dilapidazione di credibilità; l’estrema rinuncia alla plasticità dell’artista in cambio dell’autenticità dell’origine dei propri pensieri. I diari completano gli altri scritti, dimostrando che Jünger non offrì prodotti, ma indicò vie. Lo fece in tutta la letteratura successiva a Sulle scogliere di marmo, da Heliopolis a Eumeswil, da Il libro dell’orologio a polvere a Al muro del tempo, da Il nodo di Gordio (dialogo a due voci con Carl Schmitt) a Oltre la linea (con Martin Heidegger). Proprio in quest’ultimo testo, composto da due scritti che omaggiano il sessantesimo giorno genetliaco del rispettivo interlocutore, avviene il confronto sul tema del nichilismo tra due dioscuri simbolici del tramonto vivo di un’epoca, un duello a colpi diretti nel quale ognuno, ça va sans dire, si compiace della maestria dell’altro. Interrogarsi sul nichilismo è, nel secondo dopoguerra, cercare una risposta alla domanda: quale poesia dopo Auschwitz?

Difficile condividere il giudizio di Evola sul secondo Jünger. Non fu un pluridecorato «normalizzato e rieducato», come ebbe a mugugnare il filosofo romano durante un colloquio con Gianfranco de Turris, ma un pensatore capace di profonde riflessioni, di analisi e previsioni rivelatesi tanto esatte quanto inquietanti. Fu uno dei pochi che riuscì a disvelare, con tormentata quiete, la patina ideologica che copre la realtà. Ecco, le ideologie. Egli non le amava, perché «un errore diviene colpa soltanto quando si persevera» (Sulle scogliere di marmo); rifuggì tutti gli ismi, ma si arrogò il diritto di vivere la vita come un esperimento, non come un processo soggetto a logiche limitative. «Il suffisso ismo ha un significato restrittivo: accresce la volontà a spese della sostanza» (Eumeswil). La sua scrittura è «espressione di ciò che è problematico, del qui e del là, del sì e del no», come si espresse Thomas Mann pensando a se stesso nelle Considerazioni di un impolitico.

 

L’intellettuale dissidente

 

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