Ricordando Kafka. Il paradosso della corporeità nelle ‘Metamorfosi’

Confrontarsi con un ‘classico’ della letteratura è molto complicato, recensirlo, sarebbe impossibile. De La metamorfosi di Kafka è stato detto moltissimo, tutto forse; tuttavia la densità della narrazione consente di pensare, e ripensarsi, di fronte a temi centrali del panorama culturale contemporaneo, quali: alienazione, principio di autorità, crisi della soggettività.

La trama di questo celeberrimo racconto è nota: il commesso viaggiatore Gregor Samsa dopo una notte segnata da sogni inquieti, si risveglia nella propria angusta stanzetta piccolo-borghese tramutato in insetto. Dapprima indotto a considerare tale condizione
come fittizia, quasi onirica, e quindi come causata dai ritmi lavorativi o meglio, esistenziali, indotti dalla sua professione commerciale e dal proprio contesto sociale; deve poi prenderne pian piano coscienza in quanto obbligato dalla trasformazione del proprio spazio corporeo e, conseguentemente, della percezione di sé.

Da questo momento in poi, la metamorfosi sarà definita, nelle sue tappe fondamentali, dalle figure familiari del padre, della madre e della sorella, tanto care allo scrittore e indicative della forte carica autobiografica del racconto. Partendo dall’arrovellarsi dei pensieri del protagonista circa la sua condizione, non più prettamente umana, all’interno delle quattro mura della stanza, la narrazione si articola seguendo da un lato la modificazione della percezione di sé come percipiente; dall’altro lato considerando la differente percezione che gli altri individui (in particolare quelli del medesimo nucleo familiare) hanno del protagonista.

La mancata presenza sul luogo di lavoro, con la conseguente visita del procuratore, segnerà l’inizio della rescissione del legame sociale; di fronte alle richieste di spiegazioni da parte del superiore, Gregor, seppur nella totale preoccupazione verso il proprio futuro lavorativo, risponderà esplicitando tutte le sue motivazioni in una articolazione linguistica che agli altri suonerà come priva di senso e simile alla ‘voce’ di un animale.

In questo primo stadio del racconto, da una parte il protagonista è ancora coscienzialmente preso dalle proprie preoccupazioni umane (mantenere il posto di lavoro e quindi esaurire il debito della propria famiglia). Dall’altra parte, a fronte del riconoscimento della propria bestialità da parte dei familiari e del procuratore, prende avvio il processo di individuazione determinante il realizzarsi della consapevolezza circa la propria animalità, processo articolato attraverso i ruoli svolti dai personaggi familiari: padre (principio di autorità, tipico della famiglia patriarcale borghese), sorella (complicità quasi incestuosa), madre (figura di legame inscindibile con la propria umanità).

La metafora dell’insetto esibisce sicuramente l’atto di dissidenza di un giovane nei confronti dell’autorità paterna, e mostra chiaramente l’anelito di Gregor verso il compimento della propria individualità al di fuori degli obblighi sociali – dissidenza tuttavia votata allo scacco e segnata dalla morte ultima cui porta la metamorfosi del protagonista: un finale tragico che esprime l’idea della morte intesa come unico risultato possibile per l’azione svolta da un personaggio che porta in sé la colpa di cedere all’illusione di una possibile realizzazione dell’ipseità al di fuori del vincolo familiare. Al di là di ogni personale interpretazione non si
può negare la messa in evidenza della necessità del vincolo biologico, fra il sé e la famiglia (con tutte le sue relazioni), ma anche fra l’io e la propria sfera corporea. Superando le appropriate e assodate analisi psicoanalitiche de La metamorfosi, propongo di considerare il ruolo paradigmatico della corporeità all’interno di questo ‘classico’.

Nello svolgersi dei tre paragrafi che costituiscono il racconto, la corporeità funge da tessuto connettore; specifica, la complessità della situazione del personaggio principale, approfondendone il rapporto con il legame biologico, fondamentale per Kafka stesso. La metamorfosi corporea giunge a localizzare, nel percorso narrativo del racconto, la mutazione coscienziale del protagonista, e conseguentemente a porre chiaramente la propria funzione di ambivalenza.

Il proprio corpo esprime da un lato la materializzazione del principio di individuazione attraverso la costituzione di una propria dimensione spazio temporale; dall’altro lato rimarca la necessità della prospettiva di un alter ego che conduca all’estremo il processo del riconoscimento della non umanità del protagonista. Si può quindi affermare che la metamorfosi procede negativamente nella misura in cui le figure familiari definiscono Gregor per via negativa, giudicandolo via via come in difetto circa quelle che comunemente vengono considerate essere le proprietà normali di un essere umano.

Tuttavia essa viene a svolgersi anche in maniera positiva, poiché il personaggio, poggiante su una relazione negativa con il contesto familiare, spinge all’estremo la propria ipseità animale in una progressiva presa di coscienza circa la propria nuova corporeità. Il ritmo metamorfico è scandito lungo i tre paragrafi del racconto e implica una dialettica costante fra l’istanza negativa e quella positiva.

Come poteva dunque essere proprio una bestia se la musica lo afferrava a tal punto? Gli pareva che gli si mostrasse la via verso il nutrimento ignoto che egli agognava.

Gregor è il proprio corpo, o meglio, diviene insetto grazie al suo corpo: esso specifica l’individualità del protagonista nella propria animalità, conducendolo però al paradosso secondo il quale, nel momento di maggior distanza dalla condizione umanamente sociale,
trova una morte sancita dal suo essere irrimediabilmente troppo umano.

A fronte di ciò, non sarebbe opportuno vedere il processo metamorfico del protagonista come progressivo più che regressivo? Intendendolo dunque come processo costitutivamente positivo e catartico, più che negativo e dispiegato verso la totale alienazione? Al di là di ogni suggerimento, è bene lasciare l’interpretazione di questo racconto alla discrezione di ogni singolo lettore, tuttavia in un periodo storico come il nostro, in cui le ansie ‘estetiche’ di perfettibilità corporeo-ambientali – ma si potrebbe azzardare, sociali – strutturano una concezione di bello ossessivamente iper-reale tale da rilegarlo quasi totalmente nel virtuale e da condurlo alla soglia di una bruttezza malsana; leggere fra le righe di un classico come questo diviene intellettualmente significativo.

Kafka riesce, attraverso il coraggio della sua narrazione, a rendere attuale la necessità di cogliersi responsabili in prima persona della mostruosità umana tout court. Sapendo che in fin dei conti e nonostante i rischi, almeno l’onestà verso sé stessi è un atto pregnante che non dimentica la riconoscenza verso la bellezza del reale.

 

Carlo Guareschi

Terapia e Umanesimo. Psicologia, letteratura, mitologia

Non tutto ciò che è terapeutico diventa ufficialmente psicoterapico. Solo nel 1961 Boris Levinson definì il cane come “coterapeuta” ad esempio. Eppure i benefici degli animali domestici erano noti da millenni. Tuttavia solo con la pet therapy sono stati, per così dire, istituzionalizzati a livello psicologico.

Allo stesso modo non tutti i disturbi psichici dell’umanità sono classificati nel DSM. Ogni volta il manuale viene aggiornato e spuntano fuori nuove sindromi. D’altronde la natura umana è la stessa, ma l’ambiente, gli artefatti, il modo di ambientarsi ad essi sono sempre nuovi. Lo stesso disturbo psichico inoltre può essere diagnosticato in modi diversi a seconda della cultura di appartenenza dello psicologo.

A dirla tutta neanche tutto ciò che è psicoterapico ha proprietà terapeutica: talvolta per la scarsa ricettività del paziente, talvolta per la scarsa efficacia del curatore o della cura. Spesso le persone usano gli psicofarmaci perché come dicevano gli analisti un tempo almeno questi inibiscono il sintomo, anche se non eliminano il problema psicologico. Prima di continuare su questa falsariga espliciterò alcune mie convinzioni: tutti avremmo bisogno di uno psicologo, anche gli stessi terapeuti avrebbero tutti bisogno di un supervisore, per una buona salute mentale pubblica.

Per quanto riguarda i benefici interiori dell’umanesimo possiamo citare tre pratiche psicologiche abbastanza recenti: la biblioterapia, la psicosintesi di Assagioli, l’arteterapia. Per chi volesse approfondire la biblioterapia consiglio di leggere i due libri dello scrittore Miro Silvera, editi entrambi da Salani. In questo caso il terapeuta consiglia di leggere dei volumi per far acquisire una maggiore autoconsapevolezza ai pazienti.

Esiste catarsi e beneficio psichico sia nella fruizione di opere d’arte che nell’esprimersi artisticamente. Male che vada anche il più goffo tentativo di esprimersi artisticamente è un modo per conoscersi meglio, per una migliore esplorazione di sé. La psicosintesi di Assagioli prevede anche lo scrivere un diario interiore perché l’io raggiunga il Sé transpersonale. Scrivere per Assagioli è un modo efficace per conoscere le proprie sub-personalità, per approdare a ogni tipo di inconscio, anche quello individuale superiore, fatto di simboli, e anche quello collettivo, costituito da archetipi.

Secondo Assagioli esiste un inconscio inferiore, quello freudiano, un inconscio medio, costituito dalla razionalità, e uno superiore, sede della creatività. Secondo lo schema psichico o diagramma dell’ovoide di Assagioli tutte le istanze psichiche sono comunicanti, esiste un continuo interscambio tra conscio e inconscio:  ecco perché le linee che collegano i vari nuclei psichici sono tratteggiate nella figura. Il diagramma dell’ovoide è fondamentale perché l’individuo compia il suo percorso di individuazione. Ma ancor prima del geniale Assagioli, considerato dallo stesso Jung e ideatore di una delle più importanti scuole di psicoterapie italiane, era nota a molti la scrittura come autoterapia. Così come l’arteterapia era già nota agli antichi greci.

Le tragedie greche avevano un effetto catartico collettivo. Per quanto riguarda l’arteterapia si sono diffuse molto la musicoterapia e la teatroterapia. Fondamentale per questa scuola  è la figura carismatica dello psicoterapeuta, che dovrebbe essere anche un artista a tutti gli effetti. Invece molto spesso non lo è e conosce solo teoricamente senza averle sperimentate di persona le tappe del processo creativo. Ci sono tanti presunti professionisti che in realtà sono improvvisati.

Così facendo, i pazienti/discenti sono allo sbaraglio. Però sgombriamo il campo da ogni equivoco: i pazienti non devono avere aspettative troppo elevate e pensare di guarire completamente con queste pratiche psicologiche o di diventare artisti a tutti gli effetti. In definitiva l’arte non ha salvato tutti gli artisti. Molti hanno dovuto convivere malamente lo stesso con la loro nevrosi o psicosi. I suicidi tra gli artisti sono ricorrenti. Lo stesso psicodramma di Moreno può risultare davvero terapeutico e formativo perché è il cosiddetto teatro della spontaneità,  è un’occasione di incontro.

Con lo psicodramma avevano luogo molte trasformazioni e molte rivoluzioni interiori: questo spaventava i dittatori sudamericani che infatti lo proibirono. Anche i cosiddetti libri di filosofia pratica possono farci evolvere interiormente e aiutarci nel nostro cammino. La  consulenza filosofica può aiutare, tant’è che in America è diffusa. Un’ultima cosa: perché queste pratiche psicologiche facciano effetto bisogna che la persona creda veramente in chi la guida, in quello che sta facendo e nei benefici interiori dell’umanesimo. Una volta consigliai a un amico depresso, che era stato lasciato dalla ragazza, tre libri: Lettera alla madre sulla felicità di Alberto Bevilacqua, La conquista della felicità di Bertrand Russell, E liberaci dal male oscuro di Cassano.

I primi due libri erano umanistici. Il terzo era sulla depressione ed era scritto da uno psichiatra. Ebbene non li apprezzò.  Non stimava me né quegli autori e credeva, avendo una formazione scientifica, che l’umanesimo fosse un’enorme perdita di tempo. Invece anche i libri possono essere antidepressivi. Anche queste scuole psicoterapiche fanno parte della terapia della parola. Anche i libri possono cambiare e migliorare a lungo termine la nostra neurochimica. Per quanto riguarda esprimersi artisticamente allo stesso modo ogni sintomo può diventare un simbolo. Le recenti scuole psicoterapiche suddette comunque non hanno influenzato ancora la letteratura, come fece a suo tempo la psicoanalisi, con Virginia Woolf, Kafka, Joyce, Svevo, Moravia, Gadda.

In poesia in fondo gli automatismi psichici dei surrealisti e il paroliberismo dei futuristi scaturiscono dalle libere associazioni freudiane, così come i monologhi interiori e i flussi di coscienza di tanti scrittori derivano dalla scuola psicoanalitica. La psicosintesi, la biblioterapia, l’arteterapia non hanno fatto altro che confermare conoscenze già note agli umanisti, pur non sottovalutando l’apporto significativo di questi maestri di pensiero. Freud invece è stato un grande innovatore e grazie a lui gli artisti hanno iniziato a esplorare l’inconscio in modo mai così approfondito, anzi prima della psicoanalisi molti lo rimuovevano.

Perché un’opera sia veramente artistica, secondo il diagramma dell’ovoide di Assagioli, l’io deve approdare al Sé transpersonale, almeno in modo parziale e provvisorio, e anche all’incontro collettivo, anche esso in modo almeno parziale e provvisorio: un’opera artistica quindi si caratterizza prima di tutto per la sua universalità a livello psichico. Dispiace che la letteratura difficilmente sia mitopoietica,  ovvero non crei più miti, grazie a cui si potevano fissare degli archetipi nella psiche dei fruitori.

I greci avevano il nichilismo, ovvero la concezione secondo cui persone e cose sono nel niente, esistono nel divenire e poi ritornano nel niente, ma avevano anche una letteratura mitopoietica,  che trasmetteva dei valori perché in ogni mito c’era un principio etico e ogni favola aveva una sua morale. Questo era l’antidoto efficace al nichilismo.

Oggi solo il cinema in parte è mitopoietico, ma più che miti spesso lo show-business crea mode e idoli di cartapesta, che dopo qualche mese vengono sostituiti e fagocitati. Oltre ad avere un bombardamento pornografico e un bombardamento di notizie l’uomo contemporaneo è bombardato da miti di ogni genere di brevissima durata.

 

 

Pensieri sparsi su Borges, di Davide Morelli

Borges è stato senza dubbio uno dei più grandi scrittori del Novecento. La sua cultura è stata enciclopedica. La sua memoria è stata prodigiosa. Forse talvolta Borges ha avuto paura di essere come il suo Funes. Ricordo che per il Funes la memoria sprovvista di filtro ed incapace di oblio era diventata “un deposito di rifiuti” e aveva reso il personaggio sovraccarico di letture e di sensazioni al punto da non riuscire più a pensare. Forse questa era una sua ossessione.

Di sicuro sappiamo di altre sue ossessioni. Ad esempio odiava il calcio perché aveva paura delle folle. Aveva l’ossessione degli specchi perché moltiplicavano l’uomo e la copula. A qualcuno talvolta Borges potrebbe apparire come un reazionario. Ma se è vero che non si impegnò mai in politica, è altrettanto vero che fu cieco per buona parte della sua vita. Infatti perse la vista sia perché affetto da una grave forma di miopia, sia perché leggeva forsennatamente. Va ricordato anche che per Borges il miglior assetto politico e sociale era quello che conciliava il massimo della libertà individuale con un minimo di governo. Non un reazionario quindi, ma un intellettuale disincantato.

I suoi scritti sono colmi di miti, metafore, paradossi. La sua è una letteratura fantastica. D’altronde la letteratura nell’antichità era sempre fantastica: era innanzitutto cosmogonia e mitologia. I maestri di Borges sono stati Dante, Kafka, Pascal, Whitman, Cervantes, Keats, Valery.

Borges è stato anche un profondo conoscitore della letteratura orientale, tanto è vero che nei suoi saggi fa più volte riferimento alle “Mille e una notte”. È grazie alla vastità delle sue letture che creerà il racconto “La ricerca di Averroè”, in cui narra di questo medico arabo che chiuso nell’ambito dell’Islam cerca di tradurre le parole “commedia” e “tragedia” da uno scritto di Aristotele.

Lo scrittore argentino in poche pagine mette in evidenza magistralmente i limiti gnoseologici della traduzione perché Averroè lavora vanamente e non conosce minimamente il contesto storico e culturale dell’antica Grecia. Lo scrittore sudamericano non disdegna neanche la filosofia. Infatti da Berkeley prenderà a prestito l’idea di un Dio che sogna il mondo, mentre da Platone riprenderà la concezione del tempo come “immagine mobile dell’eternità”.

Inoltre nella sua raccolta di saggi “Discussioni” illustrerà in modo illuminante uno dei cardini della filosofia di Nietzsche: l’eterno ritorno. Si veda a questo proposito il tempo circolare, secondo il quale l’universo sarebbe composto da quanti d’energia illimitati per la mente umana ma non infiniti. Una volta esauritesi tutte le combinazioni tra i quanti di energia si ripeterebbero gli eventi. Questa idea è alla base dell’arte combinatoria di Borges. Una delle sue tematiche di fondo infatti è che la casistica del mondo è vasta ma limitata. Ecco spiegato perché nei suoi racconti fantastici esistono personaggi che a distanza di secoli commettono le stesse azioni o creano le stesse opere. Da qui deriva la concezione borgesiana secondo cui “nessuno è qualcuno e ciascuno è tutti”, espressa nel suo racconto “L’immortale” nell’ “Aleph”. Partendo quindi dal presupposto che siamo sempre gli stessi e viviamo svariate vite possiamo essere in tempi diversi santi e assassini, scrittori e analfabeti, guerrieri o codardi. Perderemmo quindi la nostra individualità. Perderemmo i meriti e i demeriti della singola esistenza.

La biblioteca, la sfera e il labirinto sono i simboli più importanti dell’opera narrativa di Borges.

Per quanto riguarda la produzione poetica i simboli che spiccano sono la rosa e la tigre. In “Finzioni” la biblioteca di Babele è “una sfera il cui centro esatto è qualsiasi esagono e la cui circonferenza è inaccessibile”. I bibliotecari che vivono tutta la vita in un angolo della biblioteca sono alla perenne ricerca del “libro totale”, ovvero dell’opera che può racchiudere il significato ultimo. Borges ci dice che i bibliotecari alla fine si scoraggiano perché nessuno riesce a trovarlo.

Trovare quel libro significherebbe carpire il segreto dell’esistenza. Ma lo scrittore ci fa sapere che probabilmente la razza umana si estinguerà e la biblioteca sopravviverà ai suoi lettori. La biblioteca è quindi il simbolo della conoscenza universale. Veniamo invece alla sfera, ovvero all’Aleph. Questo ultimo è “il luogo dove si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi della terra, visti da tutti gli angoli”. La sfera quindi è per Borges il luogo che permette all’uomo di travalicare gli angusti limiti della propria percezione visiva e della propria corporeità.

Se la biblioteca è simbolo della conoscenza, invece la sfera è simbolo dell’esperienza, a mio modesto avviso. Per Borges il libro è sempre stato un labirinto di simboli: un’opera aperta in cui il lettore può scegliere tra diverse alternative. Se il labirinto però sembra descrivere il groviglio inestricabile dell’esistenza umana dobbiamo riferire che è per Borges un simbolo di vita e non di morte. Infatti nell’ “Aleph”, più esattamente nel racconto “I due re e i due labirinti”, due sovrani si sfidano tra loro.

Il primo rinchiude il secondo nel labirinto, ma questo ultimo riesce a uscirvi. Il re fuggito dal labirinto invece fa prigioniero l’altro e lo mette nel deserto in cui morirà di fame. Borges in definitiva ci insegna che l’uomo senza l’attività simbolica sarebbe niente. In fondo per gli antropologi l’uomo è giunto alla civiltà quando è iniziato il culto dei morti: riti e pratiche che senza capacità simboliche non sarebbero esistite. Borges ci ricorda anche che la vita umana è una vita in profondità.

 

Di Davide Morelli

Biagio Iacovelli: ‘Antropozoologie’, viaggio intorno alla fallibilità umana

Nove racconti, un unico filo rosso che lega i loro protagonisti: la meravigliosa fallibilità dell’uomo. L’esordio editoriale di Biagio Iacovelli è un viaggio alla scoperta dell’animo umano e delle sue fragilità, all’interno di boschi narrativi popolati da perdenti. In Antropozoologie – Studio verosimile di una realtà grottesca prendono vita angeli biblici e mitologia greca, claustrofobiche distopie e mondi alieni, storie di piccole grandi donne e grandi piccoli dèi. Lo fanno in punta di piedi, con un narratore in bilico tra l’eleganza delle letture classiche di cui si è cibato e la cruda materia di un immaginario radicato negli stimoli delle storie contemporanee. Le illustrazioni dell’artista Eleonora Iacovelli arricchiscono le storie raccontante nell’antologia, senza mai rivelare il destino dei personaggi che (si) perdono all’interno delle 106 pagine di cui è composta.

Come si legge nella prefazione a cura di Moni Ovadia, il  fil rouge che intesse i luoghi e i personaggi del libro, sono una sorta di distopia declinata con difformità e deformità. Il suo scopo tuttavia, non è quello di condurci in un’altra realtà, in un mondo di fantasia, bensì quello dimostrare che la nostra realtà è distopica o, per meglio dire, è una distopia di sé stessa. La retorica che pervade e avvolge nelle sue spire le nostre società, ci impedisce di vedere gli aspetti grotteschi, mostruosi e deformi della vita che vi albergano. Iacovelli collocandosi in una prospettiva e in un angolo visuale fra la lezione di Kafka e quella di Jonathan Swift, smaschera le menzogne delle pseudo ideologie, le mezze verità delle narrazioni consolatorie e le sconce illusioni strumentali di un’umanità che per i propri interessi, la propria cecità e stupidità, si pencola e ci fa pencolare sull’orlo di più abissi.

Antropozoologie promette un’interessante riflessione sulla natura umana che coniuga parole ed immagine, al fine di svelarci, con oscura eleganza e chiarezza, la meschinità insita nell’uomo, facendosi scherno di concezioni, passioni, costumi e atteggiamenti comuni a tutta l’umanità.

 

Biagio Iacovelli, classe ’92, è un attore lucano. Ha lasciato la Basilicata per inseguire il sogno del palcoscenico. Dopo aver frequentato la prestigiosa Accademia Teatrale di Roma Sofia Amendolea, ha preso parte a numerosi film e spettacoli, ricevendo il plauso della critica e collaborando, tra gli altri, con Giorgio Albertazzi, Moni Ovadia, Remo Girone e Antonio Catania. Fa parte della compagnia teatrale capitolina I Canisciolti, in scena con “Bunker” e “Sotto il sole l’oscurità”.

I migliori incipit della letteratura del ‘900

Gli incipit di un’opera letteraria rappresentano l’ingresso di un labirinto, una vera e propria arte che attira i lettori, che li invoglia a proseguire con maggiore curiosità nella lettura. Non è detto che un bel romanzo abbia un incipit altrettanto valido, e chiaramente ci sono romanzi orribili con un meraviglioso inizio.

Varie sono poi le tecniche, tanto che l’esordio di un’opera può ridursi a una sola riga o dilatarsi a qualche frase o addirittura a intere pagine. Vari sono anche i modi di iniziare: una descrizione paesaggistica, una dedica, una notizia, una data, la presentazione di uno dei personaggi, un aforisma, un’anastrofe (ovvero cominciare descrivendo la fine).sono un tema sempre interessante. Perché, prendendo a prestito un verso di Ungaretti, “è sempre pieno di promesse il nascere”: così anche un romanzo ci porge il suo biglietto da visita in quelle prime frasi introduttive.

I 15 incipit più belli

«Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendìa si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio». Cent’anni di solitudine, di Gabriel García Márquez

«La prima volta che incontrai Dean fu poco tempo dopo che mia moglie e io ci separammo. Avevo appena superato una seria malattia della quale non mi prenderò la briga di parlare, sennonché ebbe qualcosa a che fare con la triste e penosa rottura e con la sensazione da parte mia che tutto fosse morto». Sulla strada, di Jack Kerouac

«Era una fresca limpida giornata d’aprile e gli orologi segnavano l’una. Winston Smith, col mento sprofondato nel bavero del cappotto per non esporlo al rigore del vento, scivolò lento fra i battenti di vetro dell’ingresso agli Appartamenti della Vittoria, ma non tanto lesto da impedire che una folata di polvere e sabbia entrasse con lui». 1984, di George Orwell

«Oggi la mamma è morta. O forse ieri, non so». Lo straniero, di Albert Camus

«Nei miei anni più giovani e vulnerabili mio padre mi diede un consiglio che non ho mai smesso di considerare. ‘Ogni volta che ti sentirai di criticare qualcuno’, mi disse, ‘ricordati che non tutti a questo mondo hanno avuto i tuoi stessi vantaggi». Il grande Gatsby, di Francis Scott Fitzgerald

«Lolita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi. Mio peccato, anima mia». Lolita, di Vladimir Vladimirovič Nabokov

«Solenne e paffuto, Buck Mulligan comparve dall’alto delle scale, portando un bacile di schiuma su cui erano posati in croce uno specchio e un rasoio». Ulisse, di James Joyce

«Soltanto i giovani hanno momenti del genere. Non dico i più giovani. No. Quando si è molto giovani, a dirla esatta, non vi sono momenti. È privilegio della prima gioventù vivere d’anticipo sul tempo a venire, in un flusso ininterrotto di belle speranze che non conosce soste o attimi di riflessione. Ci si chiude alla spalle il cancelletto dell’infanzia, e si entra in un giardino d’incanti». La linea d’ombra, di Conrad

«Era una gioia appiccare il fuoco». Fahrenheit 451, di Ray Bradbury

«È tutto accaduto, più o meno». Mattatoio n. 5, di Kurt Vonnegut

«Una mattina Gregorio Samsa, destandosi da sogni inquieti, si trovò mutato, nel suo letto, in un insetto mostruoso». La metamorfosi, di Franz Kafka

«Se sono matto per me va benissimo, pensò Moses Herzog». Herzog, di Saul Bellow

«Il sole splendeva, non avendo altra alternativa, sul niente di nuovo». Murphy, di Samuel Beckett

«Avevo vent’anni, non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita», Aden Arabia, di Paul Nizan

«Se davvero avete voglia di sentire questa storia, magari vorrete sapere prima di tutto dove sono nato e com’è stata la mia infanzia schifa e che cosa facevano i miei genitori e compagnia bella prima che arrivassi io, e tutte quelle baggianate alla David Copperfield, ma a me non va proprio di parlarne». Il giovane Holden, di J.D. Salinger

Fonte: https://cantosirene.blogspot.com/2009/04/gli-incipit.html

‘Lettera al padre’ di Kafka: uno scrittore schiacciato dalla figura paterna

Il rapporto claustrofobico e distruttivo che intercorre tra i due emerge chiaramente dalla lettera che Kafka scrive al padre nel 1919, quando la sua vita è oramai segnata inesorabilmente da una salute cagionevole, da fallimenti personali e da un senso di colpa perenne che lo spinge a chiudersi nella sua scrittura, isolandosi dal mondo esterno. Le quarantotto pagine che compongono questa lettera sono state pubblicate soltanto nel 1952 e non sono mai giunte tra le mani di Hermann Kafka. La lettera è il tentativo di esorcizzare una relazione poco sana, di ripercorrere nel tempo tutti gli avvenimenti, gli sguardi e le parole che lo hanno costretto a restringersi e ad abbassare il capo di fronte alla grandezza tirannica della figura paterna.

Il contenuto dello scritto è denso e sofferto: Kafka muove per la prima volta nella sua vita delle accuse al padre. Si dichiara grato di essere cresciuto in un ambiente agiato e apparentemente sereno, ma esprime la costante paura e il continuo senso di inferiorità fisica e psicologica nei confronti del padre. Descrive l’invalicabile distanza tra i due, presentando specifici eventi della sua infanzia: la vergogna provata a confrontare il proprio corpicino magro e sghembo con quello robusto e potente del padre, il trauma subìto ogni qualvolta il padre lo puniva per i pianti notturni, lasciandolo al freddo sul ballatoio. L’episodio del ballatoio infligge una ferita al carattere debole e pavido del giovane Kafka che faticherà a ricucirsi nel corso di tutta l’esistenza dell’autore. È proprio il ricordo di quel triste avvenimento a riportargli alla memoria quanto la relazione tra padre e figlio sia di natura gerarchica: il padre è il temibile tiranno che dà ordini severi al suo schiavo più timoroso.

È lo scrittore ad uscirne monco, schiacciato dal padre e dal suo stesso inesauribile senso di colpa che ha origine dal suo legame con chi lo ha generato. Accusa il padre di avergli sbarrato ogni strada che lui avrebbe voluto percorrere, di non averlo mai incoraggiato in quelle che erano le sue autentiche passioni ma di averlo spinto sempre verso ciò che più piaceva all’ego paterno. Continua l’arringa contro il padre, denunciando la sua totale indifferenza verso il dolore e la vergogna altrui. Lo accusa, inoltre, di avergli ostacolato ogni relazione umana, di aver sempre disprezzato le donne del figlio, rendendolo totalmente incapace di amare e facendogli persino disprezzare e temere il sesso.

“Carissimo padre, di recente mi hai domandato perché mai sostengo di avere paura di te. Come al solito, non ho saputo risponderti niente, in parte proprio per la paura che ho di te, in parte perché questa paura si fonda su una quantità tale di dettagli che parlando non saprei coordinarli neppure passabilmente. E se anche tento di risponderti per iscritto, il mio tentativo sarà necessariamente assai incompleto, sia perché anche nello scrivere mi sono d’ostacolo la paura che ho di te e le sue conseguenze, sia perché la vastità del materiale supera di gran lunga la mia memoria e il mio intelletto.”

Il sesso, il rapporto con le donne, il senso di colpa, l’alienazione sono topoi ricorrenti nelle opere di Franz Kafka. Si pensi soprattutto al racconto La Metamorfosi (1915) o al romanzo Il Processo (1925).

Ne La Metamorfosi Gregor Samsa, il protagonista, si sveglia una mattina trasformato in un orrido insetto. La vita insoddisfacente, un lavoro estenuante e relazioni umane schiaccianti lo hanno degradato da essere umano a disgustoso insetto che finirà per morire nell’indifferenza totale. Chiari riferimenti a La metamorfosi sono ravvisabili nella Lettera al Padre, dove Kafka descrive il conflitto con il padre come una “lotta del parassita”. Il parassita in questione è il padre, che punge e succhia il sangue della vittima per poter sopravvivere.

 

Fonte:

https://intellettualemoderno.com/2018/11/05/prova-2/

 

Elogio dell’attesa: da Silvio Raffo a Eliot passando per Elias Canetti

Partiamo da una suggestione poetica. Silvio Raffo, scrittore e traduttore romano, dedica recentemente un intero poemetto all’attesa. Il titolo è evocativo, En attendant, che non significa altro che “aspettando”, “nell’attesa”. E il proposito è di raccontare l’attesa dal punto di vista di chi sta attendendo: non da chi la osserva come un oggetto da analizzare esternamente, con occhio clinico, ma da chi ne partecipa, in un certo senso, incarnandola. D’altra parte Elias Canetti diceva che nessuno può comprendere l’attesa tranne l’atteso o chi è in attesa. Ora, l’attesa è uno degli stati più singolari che un essere umano possa provare. Lo stesso Canetti ci dice ancora: [l’attesa] è per intensità superiore a qualunque altro. Il poemetto di Raffo ci dice innanzitutto, prima di trasgredire questa idea, che l’attesa è sempre attesa di qualcosa. Questo qualcosa il poeta lo indica come una sorpresa, lo chiama evento, lo indica come un ospite angelico. La sua è un’attesa viscerale, totalizzante, assoluta:

Il maggior tempo della vita ho speso
attendendo qualcuno che doveva
venire e non veniva

Mai non saprò se si sapeva atteso
con tanto amore l’ospite, né credo
che l’opposto per me sia mai avvenuto.

La premura è interessante. Prima ancora di domandarsi perché l’atteso ospite non viene (e ogni ospite deve venire, per essere tale), ci si preoccupa del fatto che l’ospite potrebbe non sapere mai che era stato atteso con amore, ovvero con dedizione. La pena provocata dall’attesa non dipende dall’attesa in sé, che potrebbe risultare vana, ma dal far perdere il proprio statuto tanto all’ospite quanto a chi attende. Io l’aspetto, ma l’ospite sa che lo sto aspettando? Sa con quanta cura lo attendo? Ed io sono a mia volta atteso con la stessa cura?

È strano leggere o scrivere un poema sull’attesa oggi, quando l’attesa sembra ormai un gesto ripudiato, da evitare, obsoleto, buono per altri tempi, inutile e spaventosamente improduttivo. Oggigiorno più si attende, peggio è. Attendere troppo che il bus arrivi alla fermata, significa perdere ore di lavoro. Un ritardo può generare una catena di mancanze in grado di mandare all’aria una giornata. È impensabile che un messaggio non giunga a destinazione pochi secondi dopo la sua spedizione e ci si innervosisce per la lettura tardiva di una mail, mezzo già fin troppo lento e macchinoso (troppo tempo, troppa attesa…). Ma l’attesa, che nella sua stessa ossatura ha a che fare profondamente con il tempo, dilata il tempo o, nei casi più eclatanti, lo sospende, lo fa uscire dai cardini. Dice Raffo, addirittura:

Non ci son più lancette.

Quello dell’attesa ha tutta la dignità di essere, perciò, un tempo, il tempo dell’attesa, e non una banale perdita di tempo.
Se c’è un luogo in cui il tema dell’attesa assume una statura concettuale vera e propria, questo è il contemporaneo. In un lungo percorso costellato di rivoluzioni nella riflessione sul tempo, l’attesa sembra qualcosa con cui la contemporaneità non può evitare di fare i conti, tanto che questo percorso sembra essere culminato, oggi, con un diktat minaccioso: non c’è più tempo. L’attesa appare, ora più che mai, come un serio impedimento. Per tutti. Per chi produce, per chi vive una vita dinamica, per chi viaggia, per chi soffre di una malattia, per chi aspetta una risposta… Questo accade non solo perché ci si è spinti tanto da diminuire con ogni mezzo, se non annullare, i tempi di attesa, finendo col percepire chiaramente l’attesa come una falla del sistema in cui ci collochiamo; non solo perché i gesti che ci accompagnano sono aumentati esponenzialmente; non solo perché siamo sempre più stufi di aspettare. Ma perché il tempo stesso è cambiato. Ha allora ragione chi parla di essere senza tempo, facendo l’occhiolino a Heidegger, chi parla di filosofia (o nichilismo) della fretta, di modernità irrequieta. Questo perché il nostro occhio è talmente diventato futuro-centrico, da non permettere altra forma di tempo che quello dell’accelerazione: il passato richiede memoria, riflessione, quiete, il presente ha le forme di un tempo impaziente, nell’attesa spasmodica di un futuro che deve arrivare il prima possibile. D’altra parte, se la lezione di Marx è in grado di attribuire manifestamente le cause di quest’accelerazione a un progresso spastico delle forme del modo di produzione capitalistico, se insomma il nostro tempo è il tempo di un capitalismo vistosamente accelerato nei suoi modi di manifestazione, non dobbiamo dimenticarci di quanto il filosofo tedesco scrive nei Grundrisse:

economia di tempo, a questo si riduce in ultima istanza ogni economia.

Ma quanto è vicino il tempo in cui si riusciva ancora ad attendere? Anna Kölher, nel suo L’arte dell’attesa, fa notare tramite uno studio sulla lingua tedesca, che l’attesa come «dolore» e «impazienza» (parole di Goethe) è un concetto che emerge solo nel XIX secolo. Si pensi semplicemente al Sabato del villaggio del nostro Leopardi, dove il giorno che precede la noiosa domenica, giorno d’attesa per antonomasia per la donzelletta, è percepito dal poeta come più gioioso dell’ora che si attende. Si pensi a La voce umana di Cocteau, 1930, dove non viene inscenato nient’altro che il tentativo da parte di una donna innamorata e non corrisposta di telefonare al suo amato. Il telefono è indice di distanza, certo, di una distanza che vuole essere colmata tramite la tecnica, tuttavia l’attesa della telefonata diventa non più un tempo sprecato, ma il tempo dell’amore sincero. Anche in Kafka c’è questo tempo, legato proprio alla telefonia. Il tutto viene spesso accompagnato da un paragone omerico, ovvero alla celebre scena del canto delle sirene, nel libro XII dell’Odissea, dove Ulisse affronta uno dei più suggestivi ed enigmatici pericoli della sua avventura, già preannunciato da Circe. Le sirene, che in Kafka sono decostruite come sirene silenti, fungono da quesito per la modernità: perché nella modernità le sirene non cantano? È un’astuzia in più da utilizzare a discapito di Ulisse? È mancanza di devozione verso gli dèi? In ogni caso l’assenza di canto, suona davvero come il più nichilistico dei canti e come un preludio per una modernità senza eroismi omerici.

Bertolt Brecht rispose: le sirene sono silenti perché sono indifferenti (altra categoria letteraria osannata dal Novecento, pensiamo a Moravia) verso un uomo tanto meschino come Odisseo. Il «fa’ che risponda adesso» che prelude allo squillo-canto-delle-sirene del telefono, diventa «perché non ha risposto subito?» o il pericoloso e dis-umano «si prega di attendere» dei call-center. Ma tra i presagi novecenteschi, il secolo breve offre ancora la possibilità di comprendere il significato dell’attesa, che sia l’attesa della telefonata o di una lettera. Il tempo che il poeta Rilke dedica all’attesa della lettera del suo giovane ed appassionato allievo nelle Lettere a un giovane poeta è un tempo riflessivo e autoriflessivo, tanto per chi attende quanto per chi è atteso. Ebbene questo tempo dell’attesa, disatteso, non è nemmeno più il tempo del silenzio delle sirene. È il tempo del trambusto e del fermento, che Montale spezza nella sua Gloria del disteso mezzogiorno, in cui nella desolazione del giorno afoso, tipico dei luoghi montaliani, l’attesa del temporale non è nient’altro che una speranza di gioia futura. E viaggiando dall’attesa che riesce a durare un’intera vita del Buzzati del Deserto dei tartari fino a quella ben più celebre del Godot di Beckett, l’attesa di chi deve venire e mai arriva, raccontata dalla grande filosofia del Novecento (si pensi solo a Lèvinas e a Derrida), ecco la verità cantata da Raffo:

Attendere: la sola condizione / concessa all’uomo nell’impermanenza […] Meglio, forse, non approdare mai / all’isola bramata.

Ecco il secolo della simultaneità, del real time. La lettera spedita vuole risposta immediata, la comunicazione non è più il luogo del tempo disteso e rinviato. L’incontro atteso può essere disatteso dalla sua sostituzione immaginaria, virtuale, nell’unico luogo in cui il tempo non sussiste, la rete. Tutto questo, però, già lo sappiamo. È interessante notare, invece, come certa sociologia non spieghi l’accelerazione degli ultimi decenni solo nei termini della tecnica, ma della competizione. L’attesa come dimensione agonale. Risparmiare tempo è, nel grande gioco dell’Occidente, assicurarsi una vittoria. Prima si arriva, meglio è. Basta qualche passo nel mondo del finanzcapitalismo, come lo ha definito Gallino, per vedere come la dimensione temporale sia cruciale: un millesimo di secondo in più può significare, per un computer di Wall Street, una catastrofe che si misura in perdite milionarie. Aspettiamo, certo… Aspettiamo negli aeroporti, nelle stazioni, al supermercato, dal dentista, ma non aspettiamo come prima. Le nostre dita, nel frattempo, compiono dozzine di gesti, le nostre preoccupazioni aumentano, approfittiamo di questo lasso di tempo come se dovessimo riempirlo tanto da eliminarlo. Non l’attesa amorosa di Penelope o di Madama Butterfly, non quella delle protagoniste di Melville, ma il «nervosismo moderno» di Freud, che teorizzò addirittura una nevrosi da attesa. Non sopportiamo l’attesa. Dice Eliot in Quattro quartetti:

O come quando un treno della ferrovia sotterranea si ferma troppo a lungo tra due stazioni
E s’ode la conversazione, poi un po’ per volta svanisce nel silenzio
E si vede che dietro ogni faccia si spalanca il vuoto mentale
E non resta che il crescente terrore di non aver nulla a cui pensare.

Ma l’attesa (almeno la sua), dice Raffo, non è brama, non è smania quella di cui arde, non d’avido leopardo / che aspro digiuno affama. / Io sono l’eremita / che dal chiostro murato / chiede al cielo stellato / sorsi di eterna vita, non è un’attesa angosciosa. È forse, seguendo l’analogia spirituale evocata dal poeta, più simile a quella mistica di Ekchart, come ce la racconta in uno dei più meravigliosi tra i suoi sermoni, In omnibus requiem quaesivi (“in tutte le cose ho cercato la quiete”):

Tutte le creature cercano la quiete per loro naturale tendenza […] Alla pietra non viene tolto l’impulso a muoversi sempre verso il suolo, finché non giace sul suolo stesso. Similmente fa il fuoco: esso tende verso l’alto, ed ogni creatura cerca il proprio luogo naturale. Così le creature rivelano la somiglianza con la quiete divina, che Dio in tutte ha gettato.
Perché più che mai il tentativo di eliminare l’attesa è, in fondo, un desiderio di quiete.

 

Alessandro Montefameglio

Le domande che pone il romanzo ‘Il deserto dei Tartari’ di Buzzati in relazione al ‘Castello’ di Kafka

La forza e la grandezza di un’opera letteraria si misurano anche dalla sua capacità di porre domande. La domanda – il problema –, d’altra parte, per dirla con Deleuze, è tutto. Tutto sta nella domanda, c’è un primato della domanda. E se la domanda è una buona domanda difficilmente tace una volta data la risposta: essa sopravvive piuttosto ai suoi scioglimenti, rimette sempre in discussione chi ha ‘la risposta pronta’. Per ogni sfinge che interroga Edipo e ogni Ulisse che risponde nessuno, è la domanda a contare, perché c’è sempre un problema, un problema-Ulisse o un problema-Edipo. Chiediamo di fronte a chi pensa e chi scrive “qual è la domanda?” e forse avremo una carta geografica dell’anima di un’opera e del suo autore. Il deserto dei Tartari del bellunese Dino Buzzati molto probabilmente si è fatto, tra le altre, questa domanda: i barbari, arrivano o no? Tutto sta nel tentare di avvicinarsi a rispondere o nell’osservare con i propri occhi che la domanda non è suscettibile di risposta.

Il giovane sottotenente Giovanni Drogo lo sa bene: i Tartari non parlano né greco né latino né tantomeno italiano, non indossano casacche da ufficiale e, quando arriveranno, non avranno intenzioni quiete. Sono secoli e secoli che i Tartari li sappiamo, per sentito dire almeno, venire da lontano – dalla Siberia, dalla Mongolia… – e, almeno dagli anni di Genghiz khan, li conosciamo come violenti e spietati. Nessuno però, alla Fortezza Bastiani, che sorveglia il confine al di là del quale c’è il grande nord dei barbari, li ha mai visti arrivare. La Fortezza Bastiani non si trova in città: Drogo, raggiunta ormai l’età di un ragazzo adulto e maturo, è costretto a dimenticarsi della sua camera da letto e delle cure certosine e amorevoli che la madre gli rivolge, delle sottane e degli amici, e partire verso le colline, i pendii, le montagne, a settentrione, là dove si trova la fortezza e là dove il giovane Drogo è stato assegnato per un incarico pluriennale. Buzzati, capace come pochi di una narrazione tanto vivida e pulita, rende questo passaggio con molta suggestione. Drogo, a cavallo, cerca la sua destinazione, ma inevitabilmente si perde e trascorre, con una certa ironia, la sua prima notte da adulto all’addiaccio. Il paesaggio selvoso che incontra appare già talmente fuori dall’ordinario e distante dalle mura domestiche che sembra quasi che da lì in avanti si acceda a un luogo separato da quello in cui vivono le creature umane. Quella che si vede lontano spuntare, sui monti, è probabilmente proprio la fortezza, ma ogni passo per farcisi vicino la ritarda e già, nel buio di una specie di iniziazione notturna, delle luci della cittadina non c’è più traccia. È uno dei momenti più tesi e allargati dell’intero racconto e siamo solo alle pagine di esordio. Drogo, il giorno successivo, incontra la prima figura, un capitano della fortezza. Ne risulta una conversazione non poco inquietante, come se il giovane sottotenente stesse dialogando con un fantasma, quasi si fosse incappati in un personaggio lynchiano. Giovanni già teme la fortezza: le mura che nel corso degli anni hanno ridotto quell’uomo al suo strano mutismo, proprio non tanto di chi si è ammalato o di un prigioniero, ma di chi ha dentro una noia secolare, suonano già piene di brutti presagi.

Già qui le somiglianze con un altro grande capolavoro: Il castello kafkiano. Se c’è una differenza tra l’agrimensore K., così come si presenta nelle primissime pagine del Castello, e Drogo, è il temperamento che distingue i due: di Drogo osserviamo subito la linfa vitale, è un ragazzo capace di provare immediatamente rimpianti, nostalgia, speranza, dubbi, preoccupazioni, paura, sentimenti vivi e propri di chi è nel fiore degli anni, laddove K. è un uomo già adulto che appare come vitale, certo (in un’opera in cui la maggior parte dei personaggi sono attraversati da una stanchezza disumana), ma deciso, risoluto, persino arrogante. Tuttavia entrambe le mete – la fortezza e il castello – sembrano fin dal principio irraggiungibili. Per di più del castello, dove risiedono il conte Westwest o Klamm, sappiamo e sapremo pochissimo: le poche parole dell’oste, oltre che alle notizie che conosciamo dagli abitanti del villaggio, non fanno che creare confusione e scoraggiamento in K. e nel lettore.

C’è elusività nel parlare della fortezza e del castello e, tanto più, della sua burocrazia interna. La differenza è che nonostante tutto Drogo fa in qualche modo già parte della burocrazia della fortezza – è proprio questo che gli dà timore –, mentre K., non appena mette piede nel villaggio, ha già scritto nel volto che le porte del castello non le vedrà mai e che la sua stessa esistenza laggiù sarà priva di qualsivoglia significato. In conclusione in Buzzati il senso della vanità non sembra coniugato, qui, in senso individualistico: il problema non è tanto un vuoto che affligge Drogo. In K. sentiamo invece, già fin dalle primissime pagine, un vuoto non indifferente.

La vista della fortezza e di chi vi risiede non aggiunge alcune speranza a quelle riposte dal giovane Drogo nel trovare laggiù, perlomeno, un luogo confortevole e della buona compagnia offerta dal cameratismo e dalla solidarietà militare tra fratelli d’armi: questa sembra una prigione fatta di sabbia e i militari che la abitano, tanto quelli giovani quanto quelli vecchi, sono come visitati da lungo tempo dalla stessa ‘malattia’ del capitano incontrato nei boschi. La fortezza è squadrata, la sua architettura è assente, le mura sembrano fatte della stessa contestura di quel deserto che le sta davanti e che lei dovrebbe, nella sua pazienza secolare, sorvegliare e difendere da una possibile invasione straniera. Drogo si sente già sfinito e finito: cosa lo ha condotto in un luogo tanto lontano e inutile? C’è solo una parola che lo assilla: fuggire. Naturalmente fuggire legalmente, ma fuggire. L’occasione gli si presenta quando comprenderà, grazie alle gentili parole e ai consigli del suo stesso capo, che sarà per lui facilissimo ottenere dal vecchissimo dottore della fortezza la possibilità di un certificato medico che attesti un cattivo stato di salute e, quindi, le dimissioni. Dimissioni tra l’altro immediate! Drogo può partire già l’indomani o, come vuole la forma, aspettare solo qualche mese. Ci sono tre passaggi di una bellezza inaudita che scandiscono, qui, il destino di Drogo, che la fortezza, come possiamo immaginare, non la lascerà affatto.
Badiamo bene che la situazione, tutt’altro che kafkiana, avvantaggia il solo Drogo: il suo desiderio di fuga può essere esaudito immediatamente, senza rischiare di venire meno ai doveri militari, la sua appartenenza alla burocrazia della fortezza è talmente decisa da permettergli di sottrarvisi in tutta tranquillità, seguendo le norme di questa stessa burocrazia. Proprio questa serenità segnerà la condanna di Drogo. Drogo manifesta infatti una certa curiosità, nonostante tutto, nei confronti della fortezza, vuoi per uno scherzo psicologico causato dalla sua ritrovata serenità vuoi per qualche altra ragione: manifesta il desiderio, accontentato con non poca difficoltà, di vedere il famoso deserto che la fortezza sorveglia. Lo osserva da una feritoia, per qualche secondo, giusto il tempo di uno sguardo parziale ma oltremodo definitivo («Un’occhiata soltanto, signor maggiore», «Dove mai Drogo aveva già visto quel mondo? […] Echi profondissimi dell’animo suo si erano ridestati e lui non li sapeva capire»). Inoltre la scena della goccia d’acqua: di notte il ritmo incessante di alcune gocce d’acqua che cadono da qualche parte e che, tramite giochi d’eco, arrivano fino ai dormitori, assilla pesantemente Drogo: il pensiero di dormire tutte le notti a venire con quel rumore in testa lo perseguita e il giovane sottotenente si rivolta nella sua brandina, in un’insonnia quasi febbrile. Infine il vero giro di boa della narrazione, quando Drogo incontra l’anziano medico, una volta scaduti i termini mensili stabiliti per la sua partenza: Giovanni osserva una finestra con sguardo assente, apparentemente pensieroso, uno sguardo che vediamo sul suo volto per la primissima volta. Improvvisamente e incredibilmente il sottotenente accetta di rimanere e il medico è ben felice di disfare le sue pratiche.

Drogo ascoltava senza interesse [il medico], intento com’era a guardare dalla finestra. E allora gli parve di vedere le mura giallastre del cortile levarsi altissime verso il cielo di cristallo e, sopra di esse, al di là, ancora più alte, solitarie torri, muraglioni a sghembo coronati di neve, aerei spalti e fortini, che non aveva mai prima notato. Una luce chiara dall’occidente ancora li illuminava ed essi misteriosamente così splendevano di una impenetrabile vita. […] “Medico medico” disse Drogo quasi balbettando. “Io sto bene”. […] “Io sto bene” ripeté Drogo quasi non riconoscendo la propria voce. “Io sto bene e voglio restare”.

Quale meccanica ha chiuso definitivamente Giovanni Drogo tra le mura della Fortezza Bastiani? Cosa lo ha spinto ad accettare la monotonia di un luogo tanto pieno di tedio, sperduto, con poca compagnia, lontano dalle frivolezze mondane e da una carriera più gratificante? A perseguire una causa fatua, sorvegliare una piana (il ‘deserto’) da cui mai sono arrivati invasori? Cosa ha visto Drogo in quel deserto, da quella feritoia? L’opera diventa qua davvero il romanzo sul tempo di cui tutti parlano quando si discute del Deserto. Non solo perché il tempo della storia iniziale (teso, che rintraccia il senso dell’attesa, della monotonia, del nervosismo) cede a una accelerazione in ogni senso (i fatti si velocizzano, talvolta con ellissi anche piuttosto intense), ma perché quella che può sembrare una ‘canonica’ riflessione sulla fuga del tempo diventa qui una riflessione sulla fuga dal tempo. Come se, in un certo, senso, il problema di una fuga concreta da parte di Drogo dal suo incarico, cedesse a una fuga più astratta, fuga dal tempo che passa, lunghissimo e al contempo spaventosamente rapido, in attesa del grande evento, il barbaro che arriva.

Una volta che si è accettato questo l’attenzione del lettore è rivolta tutta alla domanda: arriveranno mai i Tartari? Drogo, d’altra parte, è un uomo cambiato. Non riconosciamo più il giovane spaventato e entusiasta, ma vediamo in lui una maturazione che sappiamo essere decisiva e seria, persino preoccupante. In un simile contesto di psicosi, chi rimane nella Fortezza ha tutto il volto della Fortezza e della ligia dedizione ai suoi rigidi rituali militari, chi va via sembra ancora avere preservato qualche tratto di umanità, di leggerezza, di vita. E tutti gli occhi sono puntati là, al deserto. L’unico evento che può smuovere la monotonia secolare degli anni che passano è un improvviso allarme: qualcuno ha visto qualcosa o qualcuno arrivare. Spunta una macchia mobile in fondo al deserto. Sono arrivati i Tartari? Per giorni la tensione sale, il tempo di nuovo si restringe, ma dei Tartari alla fine non c’è mai traccia e qualcuno, in questa devozione davvero alienata alla causa del luogo – dove niente accade, dove non c’è nemico da affrontare – perde addirittura, contro ogni aspettativa e in un gioco tragicamente ironico, la vita per mano altrui: si comincia perciò a riconoscere il Tartaro persino nel compagno che rientra nella Fortezza senza aver avvisato le guardie e a cui si spara senza pensarci più di tanto. La regola e la burocrazia hanno preso il sopravvento ma, in un contro-luce kafkiano (e Kafka è lo scrittore della burocrazia), non la osserviamo da parte di chi, fuori, cerca di parteciparvi senza successo, ma da dentro, da parte di chi la vive. L’esito è spaventosamente simile: il vuoto. Se infatti siamo stati scomodi nei panni di K. e sembrava di respirare quando osservavamo la rigida routine di Klamm (alienata certo, ma perlomeno sicura, stabilita, dotata di un qualsivoglia senso), non ci sentiamo più a proprio agio a seguire quella di Drogo: la sua esistenza così scandita e regolata sembra, tra quelle mura, avere sì una ragion d’essere, tuttavia tutto continua ad apparire pieno di un vuoto che non viene mai colmato e speriamo che da un momento all’altro la regola venga trasgredita e torni in lui il proposito di fuggire e tornare alla sua vecchia vita.

Per Drogo la domanda diventa la causa della sua vita: i barbari, arrivano o no? In un rovescio sensazionale Giovanni si ritroverà a fare carriera tra i ranghi della Fortezza, fino a riconoscersi, d’improvviso, dopo decine di anni, proprio in quel vecchio comandante che lo aveva accolto una volta arrivato dalla città, pronto a sua volta a ospitare il suo alter ego, una giovane recluta che è stata assegnata proprio alla Fortezza. Davvero sono passati tutti questi anni? Drogo è ormai vecchio, come lo era stato il suo capo, come lo era stato il medico, e come lo sono i compagni rimasti, e una nuova generazione si sostituisce alla sua. Proprio quando ormai malato dovrà lasciare forzatamente la Fortezza, con un cliché che non ci aspetteremmo mai ma che, nella sua banalità, è semplicemente geniale, qualcuno suona il definitivo allarme: ci sono degli invasori. In realtà i dubbi permangono. Drogo è risoluto, ma è in uno stato di semi-incoscienza. Ciò che è sogno e ciò che non lo è non sembra più chiaro. Drogo viene lasciato da parte, la sua decennale dedizione all’attesa del grande evento, non sembra servita a nulla. E adesso, una volta che i Tartari sono davvero arrivati, nella Fortezza Bastiani Drogo è meno di un fantasma per chi frettolosamente si prepara ad affrontare il nemico. Giovanni finisce i suoi giorni in una locanda, sulla strada di casa, moribondo. Il finale, di una forza inaudita, ricorda già il miglior Leone di C’era una volta in America, perché di fronte alla tragedia più totale, c’è un sorriso simile a quello, indecifrabile, di Noodles tra i fumi dell’oppio. «Poi nel buio, benché nessuno lo veda, sorride».
Sulle analogie kafkiane di questo romanzo, oltremodo studiate, Buzzati fu, giustamente, molto cauto e persino deciso: «Kafka è Kafka, io sono io. Basta con questa storia». Carlo Bo fu invece molto più chiaro e radicale:

Ebbene Kafka c’entrava poco con Buzzati, anzi non c’entrava affatto. Il riferimento non era che un nostro [degli studiosi, dei critici, dei lettori] infelice tentativo per spiegare un’opera insolita nel quadro della nostra letteratura e, casomai, ci dispensava dal continuare lo scandaglio e l’approfondimento. In effetti per spiegare Buzzati era sufficiente l’idea dell’attesa, del mistero, l’idea che tutta la nostra vita è legata a qualcosa che sfugge alla luce e ai calcoli della piccola economia delle prime reazioni.

Eppure congiunture di pensiero esistono, come esistettero per la poesia leopardiana e la filosofia di Schopenhauer, senza che i due sapessero della reciproca esistenza. Ma la congiuntura è dovuta al fatto che il Novecento è l’unico secolo che ha permesso simili, inaudite soglie di riflessione. Buzzati scrive il suo capolavoro nel pieno dei terrori della guerra, dove la questione dell’invasore era più concreta che mai. La vanità dell’esistenza, la fuga dal tempo, il problema della burocratizzazione della vita umana… esse sono riflessioni tutte intrise di Novecento, che solo perché troviamo in Kafka in una prima linea definitiva hanno finito per consegnare Buzzati ai tanti chiacchiericci (spesso motivati, altre volte meno) sulla sua kafkianità piuttosto che sul suo pensiero e sulla sua letteratura.

Anche in Buzzati c’è la vanità dell’esistenza e la riflessione che ne consegue, certo, e anche in Kafka c’è la riflessione sull’Altro che arriva (basti leggere quel meraviglioso racconto kafkiano che è La tana), se intendiamo questo Altro, magari, nella sua variante filosofica, così come tanto efficacemente la declinano grandi pensatori quali Camus, Lèvinas e Derrida. Ma d’altra parte, quando la letteratura non ha parlato dello straniero? Certo, non tanto radicalmente come nel secolo breve, ma è una riflessione che dà in un certo senso l’avvio stesso al gesto letterario: si pensi all’Odissea, si pensi alle Supplici di Eschilo, si pensi al racconto biblico… e quanta altra letteratura si potrebbe continuare a citare? Ma se la domanda – l’altro arriva? – è davvero una domanda più novecentesca che mai e se davvero questa domanda vada accompagnata alla riflessione filosofica, psicanalitica, storica, letteraria, sociologia (e chi più ne ha più ne metta) in un senso tutto novecentesco, Buzzati in questo rappresenta un nome da ricordare e da riscoprire. Più che con Kafka, forse è davvero con la filosofia contemporanea che Buzzati dovrebbe dialogare. I Tartari in Buzzati, forse, sono davvero arrivati, e non si potrebbe dire che certa filosofia (soprattutto francese) abbia dato la stessa risposta: rispondere a questo problema è già molto più interessante di altro. È poi alla fine possibile rispondere a una domanda del genere? Qui sta d’altra parte il cuore della questione: la domanda, ancora una volta, sembra sopravvivere alle sue risposte.

 

http://www.lintellettualedissidente.it/letteratura-2/dino-buzzati-deserto-dei-tartari/

 

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