Oscars 2022. ‘Belfast’, l’omaggio di Kenneth Branagh alla sua città natale

Belfast, 1969. Buddy vive con la mamma e il fratello maggiore in un quartiere misto, abitato da protestanti e da cattolici. Sono vicini di casa, amici, compagni di scuola, ma c’è chi li vorrebbe nemici giurati e getta letteralmente benzina sul fuoco, aizzando il conflitto religioso, distruggendo le finestre delle case e la pace della comunità. La famiglia di Buddy, protestante, si tiene fuori dai troubles, non cede alle lusinghe dei violenti e attende con ansia il ritorno quindicinale del padre da Londra, dove lavora come carpentiere. Emigrare è una tentazione, ma come lasciare l’amata Belfast, i nonni coi loro preziosi consigli di vita e d’amore, la bionda Catherine del primo banco?

“Mi sento irlandese. Non penso che si possa togliere Belfast da un ragazzo”, così parlò Sir Kenneth Branagh a proposito della scelta di omaggiare la città natale con il film personale, un memoir in bianco e nero, che si è voluto regalare arrivato a sessantuno anni e diventato rispettato, osannato e invidiato nella ex nemica Inghilterra per i primati accumulati nel teatro scespiriano e i mega film d’intrattenimento.

“Belfast” opera lo stesso procedimento di auto-fiction di Sorrentino e non a caso i rispettivi film si ritrovano tra i nominati dei prossimi Oscar; se aggiungiamo, poi, che permane ancora l’eco del capolavoro autobiografico “Roma” di Cuaròn ed è annunciato in post produzione “The Fabelmans”, dedicato da Spielberg all’infanzia trascorsa con un amatissimo zio in Arizona, si capisce quanto il genere diaristico stia registrando presso i grandi autori un revival impetuoso.

A cominciare dalla scelta (parziale) del bianco e nero, il nuovo memoir rappresenta un ritorno semi-romanzato al periodo felice dell’infanzia trascorsa nel quartiere operaio Falls Road e protetta da genitori affettuosi e litigiosi e nonni spiritosi e saggi (i fantastici Dench e Hinds): Ken detto Buddy ovvero l’esordiente Hill interpreta, infatti, il novenne alter ego del regista che ama vedere “Star Trek” alla tv, leggere favole e fumetti, giocare a pallone con gli amici, fremere per la prima cotta e soprattutto andare al cinema.

Gli spezzoni di “Mezzogiorno di fuoco”, “L’uomo che uccise Liberty Valance” o “Citty Citty Bang Bang” diventano, così, il viatico consolatorio per potere affrontare la brutale irruzione della Storia che ad agosto del ‘69 devia il corso tranquillo della comunità con l’inizio del conflitto etnico-nazionalista noto come The Troubles (termine eufemisticamente traducibile come “I disordini”).

I sentimenti e i traumi filtrati dalla percezione di un bambino regalano sempre emozioni allo spettatore, tanto più se, come in questo caso, la firma e la confezione s’avvalgono del top di recitazioni, fotografia e musica. Proprio il sovraccarico di quest’ultima, però, determina la prima di non poche riserve: Morrison, la gloria cittadina, non poteva non collaborare (anche se lo fa con tutti i film ambientati in Irlanda del Nord), ma il troppo stroppia e sembra che il bottino di “Van the Man” costituito da otto brani classici, un inedito e qualche passaggio strumentale finisca col prevaricare lo stile e surrogare i fatti. Inoltre una diffusa leziosità con annesse overdosi di riprese via droni o al ralenti rivela, tra un sospiro nostalgico e l’altro, il didascalismo un po’ gramo che s’intrufola dovunque inficiando la genuinità dell’amarcord. Mentre “Roma” ed “È stata la mano di Dio”, insomma, sono stati scelti dagli Oscar, “Belfast” sembra programmato per farsi scegliere dagli Oscar con le sue didascalie.

Il troppo stroppia, come si dice.

 

Belfast

 

 

Dunkirk: il nuovo capolavoro di Nolan che aspira ad una verità sensoriale

Lo shock produce nei combattenti di Dunkirk quella che potremmo definire, rubando il termine a una delle protagoniste del best seller L’amica geniale, un’ininterrotta smarginatura. In questo modo il regista Christopher Nolan nel corso del suo viaggio nella profondità dell’orrore bellico aspira a una verità sensoriale, spersonalizzata che non ha niente di naturalistico e niente che assomigli alla routine del genere. La sua –ricorrendo a un ossimoro- è una brutale ricercatezza che permette agli spettatori d’immergersi in forme convulse, infrante, assordanti dove i punti cardinali si ribaltano e le prospettive sembrano impegnate a ingannare se stesse; il congegno narrativo del film, insomma, basato com’è su questa sorta di visione parcellizzata e asincrona, s’adatta perfettamente al significato letterale della categoria (blockbuster, ‘abbattitore d’ostacoli’) in cui lo si potrebbe sbrigativamente piazzare.

L’operazione Dynamo, ricostruita nella desueta audacia della pellicola 70mm, interessa del resto l’autore di Memento e Inception solo in quanto disfatta che porta in germe una futura vittoria: tanto è vero che le polemiche francesi sulla cancellazione pressoché totale del loro decisivo contributo alla titanica evacuazione dal 26 maggio al 4 giugno del 1940 da Dunkerque (perché così si chiama la località portuale dove erano rimasti intrappolati dall’avanzata nazista più di trecentomila soldati alleati) sono giustificate, ma ai fini del valore del film contano poco o nulla. Le contraddizioni di Nolan sono infatti il sale del suo concetto di cinema: il realismo più esasperato che sfocia nell’astrattezza; un’epopea grandiosa e nello stesso tempo intimista; una claustrofobica concentrazione celata nell’immensità dei piani di ripresa; lo spazio e il tempo di una settimana, un giorno e un’ora unificati dall’esibita contraffazione del montaggio; la cronaca di un massacro che esclude cascate d’emoglobina e vede i soldati abbattersi senza l’impatto delle pallottole; l’intento cerebrale e sperimentale camuffato dalle travolgenti ondate emotive.

Anche le tre ramificazioni narrative di Dunkirk, che fanno capo alla terra del soldato Tommy, al cielo del pilota dell’Air Force Farrier e al mare dell’eroico padre di famiglia Dawson servono a evocare un caos primordiale che tutto sommato prescinde dalle ragioni degli assaliti (degli assalitori, poi, non si ha quasi la percezione) e insiste sull’istinto di sopravvivenza umano che non ha bandiere o padroni. Parole poche; colori granulosi, talvolta fintamente sfocati; la musica che si modella sul diapason delle situazioni; retorica inglese presente, ma limitata al minimo indispensabile. Persino il celebre discorso di Churchill sull’indomabile volontà di resistenza del paese risulta imbevuto di tonalità dolenti e oscure e citato da un soldato qualunque che lo legge con tono stanco e distratto sul giornale.

 

Fonte:

Dunkirk

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