Protagonisti e contenuti del romanzo ‘Sulla strada’ di Kerouac

Non c’è niente di stantio in Sulla Strada di Kerouac. Niente di retorico, niente di superfluo, niente di invecchiato male. Se si torna al libro- lasciando perdere la sua abusata mitologia, l’esasperata devozione dei suoi cultori- si ritrova una vitalità intatta, splendida, seducente. È un libro che parla di oggi, perché, anche se all’epoca divenne di moda, non ha nessuna concessione alle cose più stereotipate della beat generation, alle cose che sono diventate più presto logore. Parla di cose eterne. Parla di amicizia, innanzitutto: ed anzi, prima ancora che di strada e di viaggio, mi sento di dire che questo libro sia innanzitutto l’enorme atto di amore che Jack Kerouac- Sal Paradise nel romanzo- tributò al suo amico fraterno Neal Cassady- reso immortale con l’ormai leggendario nome di Dean Moriarty.

Il beat di Kerouac

A ben vedere, Kerouac- così come si dipinge nel suo libro, almeno- non è del tutto addentro alla follia del beat, non sposa del tutto quella vita, ed anzi: in lui rimane sempre un’impostazione sostanzialmente borghese, una resistenza a rinunciare del tutto ad una certa idea di stabilità, di realizzazione personale, di compimento “classico” della propria vita. Più profondamente, in Sal Paradise (alter ego di Kerouac) resta, in tutto il libro, la nostalgia di un paradiso perduto- forse in questo senso il suo è un nome parlante- di un eden nel quale riposarsi, di una casa nella quale finalmente placare la propria irrequietezza, la propria ansia famelica di vita.

Probabilmente, è proprio questa posizione mediana tra salute mentale e follia, tra vita regolare e viaggi pieni di eccessi, tra aspirazione alla monogamia e promiscuità, tra una solida base letteraria (nel libro si mostra evidentemente che Kerouac conosce Dostoevskij, Hemingway, Melville) e concessioni allo slang e al linguaggio disarticolato e primitivo del beat, che Kerouac riesce a diventare il cantore più autentico di quella generazione, quello che abbia saputo trarre l’opera più longeva e capitale da quella stagione fatta di cose effimere e fugaci. È rimasto dentro il beat quanto bastava per poterlo raccontare- e raccontarlo come si racconta qualcosa che si ama, senza snobismo, alterigia, paternalistico distacco-, ma abbastanza a distanza da non farsene fagocitare, da non soccombere dentro di esso.

Dean Moriarty, un personaggio consapevolmente confuso

E questa devozione a quella stagione, a quegli autori, a quei viaggi, a quel tentativo folle e disperato di dettare una nuova visione al mondo, è anzitutto la devozione al suo amico, a Neal. Dean Moriarty è un personaggio tra i più riusciti della letteratura mondiale, e si vede che Kerouac descrive qualcuno che ha profondamente amato, il suo più fraterno amico, quello del destino. C’è qualcosa di commovente, tremendamente commovente e straziante in questa amicizia che sostiene tutto il romanzo, che anima tutti questi viaggi senza meta. Sal Paradise è un giovane di belle speranze, mantenuto dalla zia, che vuole fare le cose a modo, in fondo: fare l’università, diventare scrittore, mettere su famiglia, fare una buona carriera. I suoi sogni sono ancora sogni borghesi, sogni di una borghesia onesta, che sa cogliere la nobiltà di una certa quotidianità, senza farla precipitare in mediocrità, in spirito gregario, in acquiescenza.

Ma dentro questo ragazzo borghese alberga anche una confusa consapevolezza: e cioè che tutto ciò che il mondo gli sta lasciando in eredità è ripugnante e falso. Falsa la politica, falsa l’arte, falso il vivere civile, falso lo spettacolo e falso l’intrattenimento; falso anche tutto ciò che si dice sull’amore, sulla fedeltà e il matrimonio; falsa la scienza prona al potere e che in quegli anni raffinava la bomba atomica e faceva aleggiare sul mondo lo spettro dell’apocalisse imminente, falso lo stesso potere, falsa la religione nelle sue forme ingessate, piccolo-borghesi, istituzionalizzate, moribonde. Malgrado il suo temperamento e la sua formazione siano sempre nostalgiche dell’ordine, del senso e della direzione; Sal Paradise si trova spaesato in un mondo dove l’ordine ha lasciato spazio al caos, in cui nessuno sa più dove andare, cosa seguire, chi cercare, e dunque tutto diventa un folle e caleidoscopico viaggio senza direzione e senza requie.

Un viaggio tra bellezza e follia

Una sola cosa conforta, una sola cosa salva: la vita stessa, quella che si dispiega lungo il viaggio, i volti i nomi e le strade, l’America infinita e sterminata, l’ebbrezza del vento in faccia e la vertigine di voler arrivare ai confini del mondo, la folle libertà dei pionieri, lo spettacolo inesauribile dell’umanità malgrado tutto stupenda, la bellezza della strada, di una macchina, della velocità. Tutto questo sarebbe rimasto solo un confuso sogno di uno scrittore introverso e senza una particolare disposizione al viaggio- Sal Paradise, si apprende quasi a metà del romanzo, detesta guidare, ha una paura vera degli incidenti-, se Sal non avesse conosciuto Dean.

Dean è la personificazione della coscienza infelice di Sal, la follia incarnata, l’uomo che ha il coraggio di essere ciò che lui- con la sua attenzione malgrado tutto riservata alla sicurezza, al sogno di una moglie, alla propria rispettabilità, alla propria sopravvivenza- non avrebbe mai il coraggio di diventare. Abbandonato presto dal padre alcolizzato, cresciuto senza famiglia e allevato dalla strada, capace di perdere la verginità a dodici anni, di ingerire quantità abnormi di alcool e di guidare senza sosta da un capo all’altro dell’America, Dean non è solo un amico: è l’epifania della vita di Sal, l’illuminazione di ciò che deve fare, qualcosa che dà un nome e un volto alla sua perenne irrequietezza, alla sua insoddisfazione segreta e prorompente per la sua vita borghese.

Nulla ferma la pazzia di Dean: né le due mogli sperse in angoli sempre distanti dell’America, né la figlia, né l’incedere dell’età: la sua è un’esistenza da esteta, a cui Sal perdona tutto, la sua totale mancanza di affidabilità, il suo procedere verso zone di riflessione sempre più lontani dal senso comune e dalla comprensibilità, il suo essere essenzialmente avvitato su sé stesso, capace anche di grandi slanci di generosità ma in definitiva egoista, addirittura solipsista nel suo modo di vivere la vita ed i rapporti. Sal vede che Dean non è un amico: non gli dà, dell’amico, né le garanzie né il vero conforto affettivo. Ma gli dà la possibilità di viaggiare, l’ebbrezza delle notti, i versi dei poeti, il cemento della strada, le vaste e ineffabili prateria d’America.

Per lui- ma non solo per lui- la presenza di Dean va goduta per quello che è: uno spettacolo, una manifestazione inedita e esorbitante di energia, l’esplosione assurda e incessante di una vitalità estrema, insensata, che arde al punto di arrivare al parossismo. Nessuno è disposto a seguire Dean in questa folle corsa all’annientamento: ma tutti gli sono grati di essere così, di scuotere le esistenze degli altri altrimenti così grigie, monotone, ripetitive. Sal lo sa, come lo sanno tutti: ma lui è il solo e riconoscerlo, il solo a proclamare amore per quel grande e spettacolare matto. In lui Sal vede una scintilla che non ha niente di manieristico, di costruito, di artificioso- così diversa dalla finta pazzia di tanti artisti o sedicenti tali, che si atteggiano, magari proprio ispirandosi al beat, a folli solo come posa letteraria… Sal ama di Dean la sua genuinità, malgrado tutto conservata: la sua purezza.

“Lui era soltanto un ragazzo tremendamente eccitato dalla vita, un imbroglione, certo, ma solo perché aveva quest’ansia di vivere e di mescolarsi a gente che altrimenti non gli avrebbe prestato la minima attenzione”

I viaggi del libro di Kerouac sono quattro, uno per ogni parte del romanzo. La prima volta Sal parte da solo, in autostop e con i mezzi, da New York, raggiunge Dean a Denver, dove lo trova impegnato in folli dispute notturne con Carlo Marx- alter ego di Allen Ginsberg-, e allora se ne va nel West, dove trova impiego come poliziotto. Deve essere un fatto vero della vita di Kerouac questo, ma non crediamo sia casuale la scelta di inserirlo nel romanzo. Questo infatti mi sembra anche un grandissimo libro sulla lotta intestina che si svolge da sempre dentro l’America, la stessa lotta che oggi infuria e che minaccia di far saltare l’unità stessa di quella nazione.

All’epoca infatti gli Stati Uniti iniziavano a vivere quel paradosso di nazione nata sul concetto stesso di libertà ma, ad un tempo, sempre più obbligata dal peso internazionale di stato più potente del mondo a convertirsi silenziosamente in uno stato di polizia, e poi in poliziotto globale. C’è un’America che sogna la prateria, i lunghi viaggi sterminati, la natura, amare i propri fratelli che si trovano in fondo alla strada; e un’America che invece ha tutte le esigenze di uno stato sempre più accentratore, securitario, pervasivo.

L’America di Kerouac

C’è l’America libertaria e l’America della burocrazia. Sal Paradise che veste di malavoglia i vestiti da poliziotto è allegoria stupenda di questa America che esercita da anni ordini senza crederci più, vedendo in modo lampante la loro assenza di legittimità. Quando Sal torna, ogni volta è la stessa storia: proprio quando sta per accomodarsi nella sua vita borghese, nella placida tranquillità della sua vita ordinaria, Dean arriva alla sua porta e lo trascina in un nuovo viaggio verso l’Ovest. Troppe le cose raccontate, in quello stile nervoso e sincopato, in quella scrittura che si muove sempre più aderente alla vita, senza più mediazioni artificiose, sempre più attaccata alla pelle delle cose, per poterle citare tutte. Citiamo alcuni brani a campione, per dire la pazzesca maestria che aveva Kerouac nel mostrare non soltanto l’estasi del viaggio- del sesso, della strada, degli incontri- ma anche la malinconia sottile di questa vita fatta tutta di gente sfiorata e poi dimenticata, il senso di afflizione di non poter tenere tutto il mondo con sé, nella sua commovente vastità e varietà, di doversi rassegnare a perdere tanto di ciò che s’è visto.

“Cos’è quella sensazione che si prova quando ci si allontana in macchina dalle persone e le si vede recedere nella pianura fino a diventare macchioline e perdersi? – è il mondo troppo grande che ci sovrasta, è l’addio”.

<<Dissi a Terry che me ne andavo. Lei ci aveva pensato tutta la notte ed era rassegnata. Mi baciò senza emozione nel vigneto e si allontanò lungo il filare. Dopo una decina di passi ci girammo, perché l’amore è un duello, ci guardammo per l’ultima volta. “Ci vediamo a New York, Terry”, dissi. Terry aveva in programma di raggiungermi di lì ad un mese, in macchina con suo fratello. Sapevo entrambi che non ce l’avrebbe fatta. Dopo una trentina di metri mi girai a guardarla. Lei continuò a camminare verso la baracca con il piatto della colazione in mano. Chinai il capo senza smettere di guardarla. Ero di nuovo sulla strada, ahimè>>.

“Avrei voluto andare a prendere di nuovo Rita per dirle molte altre cose, e far veramente l’amore con lei, e calmare la sua paura degli uomini. Ragazzi e ragazze hanno rapporti così tristi in America; snobismo vuole che cedano immediatamente al sesso senza adeguate parole preliminari. Non parole di corteggiamento, ma sincera apertura dell’anima, perché la vita è sacra e ogni momento è prezioso.”

Alla fine questa folle corsa dove conduce? Strano a dirsi, in Messico, dove Sal e Dean sembrano trovare requie perché incontrano un popolo strano e gentile, dagli sguardi accoglienti, un modo di vivere sano e semplice, attaccato ai ritmi della terra, senza tutta quell’insensata diffidenza e quella morbosa paura che stava avvelenando l’America. Il segreto del mondo sembrano trovarlo dentro gli occhi degli indios, il popolo più negletto e mortificato della terra. Dice di loro Dean

“Non c’è sospetto, qui, niente del genere. Tutti sono rilassati, tutti ti guardano in faccia con i loro occhi scuri e non ti dicono niente, guardano soltanto, e nel loro sguardo ci sono ancora tutte le qualità umane più dolci e tenui. (…) gente onesta e gentile, che non fa scherzi.”

Tra viaggio e fuga

Forse tutta quest’ansia di viaggiare era solo una folle fuga, un’incapacità di riconciliarsi con la propria terra, i propri luoghi, i propri volti più famigliari. Lo stesso Dean Moriarty, forse, non fa che cercare per tutto il continente quel padre che non ha più rivisto, dal quale non si è mai sentito amato. Ma, sia come sia, questa psicologia non è interessante. Ciò che è bello e struggente è che Sal Paradise, anni dopo, quando ormai avrà raggiunto quell’agiatezza e quella realizzazione borghese di una vita in ordine, come antidoto contro l’incedere della vecchiaia e la ripetitività dei giorni non ha nient’altro che pensare a quell’amico, a quello che è stato il brandello della sua vita accanto a lui, che altri liquidano ormai come un periodo di perdizione giovanile ma che in realtà lui custodisce in sé come il momento più vero e autentico della sua vita. Il momento in cui tutto roteava attorno a loro come uno spettacolare caleidoscopio- le donne, i volti, i luoghi, l’America tutta- e dentro il cuore rovente del mondo c’erano solo lui e il suo amico, disposti a ogni cosa pur di cogliere fino in fondo il segreto della vita.

<<E così in America quando il sole tramonta e me ne sto seduto sul vecchio molo diroccato del fiume a guardare i lunghi cieli sopra il New Jersey e sento tutta questa terra nuda che si srotola in un’unica incredibile massa fino alla costa occidentale, e a tutta quella strada che corre, e a tutta quella gente che sogna nella sua immensità, e so che a quell’ora nello Iowa i bambini stanno piangendo nella terra in cui lasciano piangere i bambini, e che stanotte spunteranno le stelle, e non sapete che Dio è Winnie Pooh?, e che la stella della sera sta tramontando e spargendo le sue fioche scintille sulla prateria proprio prima dell’arrivo della notte fonda che benedice la terra, oscura tutti i fiumi, avvolge le vette e abbraccia le ultime spiagge, e che nessuno, nessuno sa cosa toccherà a nessun altro se non il desolato stillicidio della vecchiaia che avanza, allora penso a Dean Moriarty, penso perfino al vecchio Dean Moriarty padre che non abbiamo mai trovato, penso a Dean Moriarty>>.

‘Viaggiatore solitario’: il beat, sentimentalismo e il mito hollywoodiano secondo Tondelli

Viaggiatore solitario. Interviste e conversazioni 1980-1991 di Pier Vittorio Tondelli, pubblicato postumo nel 2021 dalla Bompiani, si apre con il “giovane scrittore” Tondelli. con la sua altezza di 1,93, timido, dinoccolato e miope, che si destreggia nelle interviste con la sua aria comica e dalla parlata ricercata, usando anche delle citazioni di Rilke e Botho Strauss, senza però, definirsi “intellettuale”.

Non è un intellettuale questo viaggiatore emiliano, semmai è “uno scrittore. punto e basta”. Il suo è un lavoro che lo porta a incubarsi nella sua solitudine, a stare con i suoi personaggi e la sua musica, non ci lavora tutti i giorni però, come Moravia. Conoscere Tondelli significa entrare nella sua sfera privata con la sua scrittura, del suo rapporto intimo con essa, l’unico oggetto che fa da scenografia durante la sua composizione, è la musica di Lou Reed, Leonard Cohen e gli Smiths.

Tondelli e l’omaggio a Kerouac

Il titolo del romanzo un caro omaggio all’On the road di Kerouac: il scrittore emiliano, autore di racconti e di romanzi, scabrosi e turbolenti, come Altri libertini, che gli è costato un sequestro per turpiloquio e poi assolto, un libro rivolto ai giovani degli anni sessanta, gli anni del sesso, rock and n’roll e dell’ omosessualità. Parla ai giovani, il neolaureato al DAMS di Bologna, entra nelle loro vite e li fa protagonisti di una vita spericolata con un linguaggio hard.

Il beat e il sound

Il linguaggio hard lo ritroviamo anche nel suo secondo romanzo, Pao Pao, incentrata sui giovani e il loro modo di adattarsi per 12 lunghi mesi alla vita militare: male o bene? Tondelli in questo romanzo sostiene che poteva andare peggio, ma anche bene, a seconda di come si prendeva la vita e in quel posto niente mutava, era sempre la tua vita precedente, con la differenza che non stavi fuori, ma all’interno di un cameratismo maschile, dove mancano le donne. L’evoluzione della sintassi e dello stile tondelliano, avviene pari passi con la sua crescita anagrafica e intellettuale, rispetto ai suoi primi due romanzi: Altri libertini (1980) e Pao Pao (1982), Rimini e Camere Separate, presentano un linguaggio più maturo e tematiche quali la solitudine e il lutto che fanno pensare ai romanzi polifonici alla Bachtin.

La scrittura di Tondelli è frenetica, movimentata, ma anche ritmata: il senso del ritmo, causato dalle parole rimate e il suo repertorio musicale, è onnipresente insieme ai suoi personaggi.

La Realtà e Finzione del ribelle emiliano sono concetti “antropologici”, lo scrittore indaga sui giovani, parla di loro, priva di quella spia dei genitori, che entrano senza bussare alla porta, (i genitori non sono mai presenti nei suoi libri) nell’epoca degli anni ’60, per poi stoppare, darci un taglio, agli albori degli anni ’80, per rivolgersi a un pubblico adulto, ai trentenni, sempre, trattando però, dell’amore, del sentimentalismo, vidimato in Rimini (1985) e Camere Separate (1989). La sua vita potrebbe sembrare cinematografica come i romanzi che ha scritto, ma non lo è. Tondelli infatti si trattiene dal farsi scoprire, ma allo stesso tempo esce fuori, si fa portatore delle sue generazioni, ci parla, rende possibile che nei suoi romanzi, i giovani, trovino sé stessi.

Questo è il viaggio secondo Tondelli: la ricerca sull’interiorità, trovare un proprio posto, che sia Rimini con le sue luci al neon alla Fitzgerald con il suo “The Great Gatsby”, dove si cerca con ossessione, il successo, il mito italiano, di quegli anni, la Rimini Hollywoodiana; o Camere separate, viaggiando per l’Europa, evitando però, di spostarsi più in là, a seguito di un lutto, simile al “ A Single Man” di Christopher Isherwood, la solitudine che prende sopravvento, che culmina con la morte.

Secondo Tondelli, bisogna trasferire il parlato nella scrittura, nella macchina da scrivere. L’estraniamento in Tondelli è possibile? È possibile vederlo attuato in Altri libertini, in una scena che lo trascinò al Tribunale, non solo per l’uso del turpiloquio, ma anche per quella scena, che poteva portare il lettore a masturbarsi o a distaccarsene, creando uno shock, proprio come nel film surrealista Chien Andalou (1929) di Luis Buñuel.

“Alla fine, uno dei due fa la dose sul pene dell’altro, perché non trova delle vene intatte. È molto violento, molto emozionale. Queste pagine hanno fatto sequestrare il libro ma ho vinto il processo e ne ho vendute ventimila copie”.

 

Fonti

Silenzio, si scrive, Marisa Rusconi

Tanto Rock’ n’Roll, Natalia Aspesi

I ragazzi di Tondelli, Olivier Mauraisin

Tondelli, il rifiuto di ogni ideologia

Pier Vittorio Tondelli muore di AIDS nel 1991 a soli 36 anni ed è stato scrittore prolifico e famoso, viaggiatore instancabile ed acuto osservatore delle mode e dei costumi degli anni ottanta. E’ ancora difficile fare un bilancio obiettivo sulla sua opera. Tondelli esordisce nel 1980 con “Altri libertini”, sequestrato per oscenità e poi assolto con formula ampia.

Il processo giudiziario e la straordinaria novità del libro lo portano al successo, vende 200000 copie. Tondelli diventa così, senza volerlo, lo scrittore di una generazione, quella del settantasette. Con il suo primo libro riesce a dare voce a gay, travestiti, drogati e studenti fuori sede.

Nel suo secondo libro “Pao Pao” invece tratta di una caserma di soldati, delle loro peripezie sotto la naia. Mette in luce sia il cameratismo tra commilitoni che il nonnismo. Infatti Tondelli stesso dichiarò che sotto naia vige “una giustizia tribale e assoluta, tollerata dalle gerarchie che fingono di non vedere, finché non scappa il morto”. In tutta l’opera si nota il contrasto tra l’istituzione (con le sue pratiche burocratiche e le sue norme rigide) e la spontaneità dei ragazzi.

Anche in un altro suo romanzo “Rimini” il punto di vista è collettivo, come nei precedenti. Tondelli vuole mettere in mostra “la carnevalata estiva” della riviera romagnola. Le storie dei ragazzi si intrecciano nella notte. Nonostante il continuo ribaltamento del giorno con la notte, le trasgressioni, il sesso nessuno di loro troverà quel qualcosa di cui è alla ricerca. Nel suo ultimo romanzo “Camere separate” non abbiamo il dinamismo dei precedenti. Si tratta infatti di un libro intimista, in cui prevalgono lo scoramento e la solitudine del trentenne Leo. Il protagonista cerca di rielaborare il lutto del suo compagno Thomas.

Un aspetto che contraddistingue Tondelli rispetto a molti altri della sua generazione è il rifiuto di ogni ideologia. Forse è per questo motivo che nonostante il successo editoriale e le opinioni benevole della critica più avanzata non gli è mai stato conferito un premio letterario. “Linea d’ombra” e il Gruppo 63 sottovalutarono sempre il suo talento. Diversi critici hanno esaminato l’opera omnia di Tondelli. Tra questi spicca il gesuita Antonio Spadaro, fondatore di Bomba Carta, che ha notato l’apertura alla trascendenza ed una spiccata sensibilità religiosa nella seconda produzione di Tondelli.

Già Bonura aveva intuito questo lato religioso dello scrittore di Correggio. Un dato di fatto incontestabile della religiosità di Tondelli è ad esempio l’intervista a Carlo Coccioli. Si può essere d’accordo o meno, ma il lavoro di Antonio Spadaro merita rispetto: ha passato sette anni della sua vita a leggere tutto quello che Tondelli aveva scritto. Ha letto anche tutti i suoi appunti, tutte le sue annotazioni diaristiche, tutti i libri che aveva letto Tondelli. Ha sentito tutti i suoi amici e conoscenti.

Un altro aspetto innovativo di Tondelli è la mancanza di ogni accademismo. Nella maggior parte dei suoi libri adotta il gergo giovanile. Tondelli non è libresco, il suo stile è antiletterario. Ma d’altronde- viene da chiedersi- in base a quali valori si giudica la letterarietà di un testo? In base forse ai canoni estetici, ormai antiquati, che furono ad esempio di Pascoli? Uno dei punti fermi di Tondelli è la narrativa di Silvio D’Arzo, che nella sua breve esistenza scrisse “Casa d’altri” e “L’aria della sera”. Silvio D’Arzo, anch’egli emiliano, negli anni’20 ha uno stile originale, antinaturalista e minimalista, agli antipodi rispetto al verismo piccolo-borghese tanto in voga all’epoca. Ma ritorniamo a Tondelli.

A questo aspetto si aggiunga lo stile postmoderno di Tondelli, per cui nelle sue pagine si trovano brani di canzoni rock, citazioni letterarie, esclamazioni dialettali, musica pop, cinema americano, beat generation. Ma non è tutto. Tondelli cerca il ritmo della frase, che deve possedere una sua musicalità. Tondelli è maestro di quella che lui chiama “la letteratura emotiva”. Tramite questo ritmo del linguaggio parlato riesce a catturare il lettore, a fargli leggere tutto d’un fiato la pagina scritta.

La tematica centrale dei libri di Tondelli è la fuga, l’emancipazione dalla provincia asfittica. Lo scrittore scrive che l’unico modo di uscire dalla Peyton Place della provincia è Kerouac. Infatti i protagonisti giovanili dei suoi racconti girano tutta l’Europa: Londra, Berlino, Amsterdam, Barcellona. Ma sono fughe a breve termine, una sorta di “mordi e fuggi” per poi ritornare alla tanto maledetta provincia. D’altronde a queste piccole evasioni c’è solo un’altra alternativa: quella del weekend postmoderno, che in fondo è una pseudo libertà.

Oltre alle opere letterarie abbiamo anche l’attività editoriale di Tondelli. Con il progetto “Under 25” seleziona i racconti della nuova generazione. Sceglie quelli che lui definisce gli scarti che si discostano dalla norma. Li riunisce in quattro categorie: testi intimisti, generazionali, di genere, sperimentali. Tra gli autori di questi racconti prescelti, Silvia Balestra. Un’ultima. brevissima, nota infine sul suo  “Weekend postmoderno”, un libro imprescindibile per chi voglia capire gli anni ottanta italiani.

 

Di Davide Morelli

Lawrence Ferlinghetti: l’ultimo sopravvissuto della Beat Generation

Mezzo secolo ci separa da fatti del ’68 e l’eco della loro epica è forse ben fioca per le giovani generazioni. Parrebbe infatti che i nati nel 2000 non riescano ad immaginare un mondo, una civiltà, differente da quella ereditata. Stupirebbe veramente una loro rivolta generazionale. Forse il dirlo è indice di paternalismo, affine a quello dei critici del ‘68, proprio di quell’epica che a parer loro è stata incubatrice di ogni pressappochismo, di ogni disordine e superficialità. Se i conservatori di destra guardano al mondo delle vecchie zie longanesiane o ad astratte aristocrazie tradizionaliste, esiste un conservatorismo di sinistra, come a smentire definitivamente uno dei significati della dicotomia politica. A cinquant’anni di distanza, dunque, è lecito voler conservare, tramandare qualcosa dello spirito che animò il ‘68? Ed è ovvio che in quello spirito dobbiamo metterci Marcuse e i Beatles in cielo con Lucy e diamanti, il Che e l’Esistenzialismo. Una voglia di migliorare il mondo, di godersi la vita, anche di meditarci su, permessa alla prima generazione non troppo coinvolta in guerre e con più denaro in tasca, libri in scaffale e tempo libero rispetto ai genitori. Sarà comunque fruttuoso interrogare i padri più o meno legittimi di quella rivolta giovanile, studiare le mosse di chi aprì la strada poi percorsa dai cortei e da erranti solitari. Fra questi forse meno noto ma assai influente vi è Lawrence Ferlinghetti, classe 1919, l’ultimo sopravvissuto della prima generazione beat, anche se lui stesso non si definisce tale, essendo ben più esteso il suo orizzonte.

Non tanto come poeta o romanziere Felinghetti fu seminale per i sessantottini statunitensi e poi, per conseguenza coloniale, europei, ma soprattutto come editore. Il marchio City Lights, dalla libreria omonima di San Francisco, ha pubblicato Howl di Allen Ginsberg nel 1956 condannato per oscenità, poi Gregory Corso, Kerouac e Burroghs e fuori dal giro beat Bukowski, Bataille, Pasolini, Breton, Artaud, Chomsky. Letture, insomma, che hanno contribuito a nascita e sviluppo della controcultura Usa. Il tutto parrebbe bene ordito se non si ha un’immagine di Felinghetti reale. Si tratta di un uomo, di un artista, di un osservatore più spregiudicato ed entusiasta e meno calcolatore di quanto potrebbero pensare i suoi avversari, o almeno così appare in Scrivendo sulla strada, un “diario di viaggio e di letteratura” tradotto da Giada Diano per Il Saggiatore. Il sottotitolo non rende piena dignità all’opera, che non è solo un diario di viaggio nello stile di Goethe e di D. H. Lawrence. È un’autobiografia in frammenti, scritta proprio on the road, talvolta tornando negli stessi posti dopo anni: dal 1944 che lo vede soldato ad Omaha Beach al 2010 in Belize dove novantunenne ancora scrive poesie accompagnato dal ritmo del mare.

Nel maggio del ‘68 è guarda caso a Parigi e copia i graffiti surrealisti che parlano dai muri. Vede la speranza in “una libertà totale dalle catene dello status quo”, ma saggio e serafico come un Buddha non si entusiasma troppo, conscio del potere repressivo dello “Stato solido”. L’estate prima, quella del ‘67, the Summer of Love, non lo trova in California ma fra le steppe della Siberia. Amico di Evtušenko e di altri dissidenti, viaggia per la Russia e ben prima di buona parte della sinistra europea capisce che da quelle parti c’è poco di buono. Anche durante il suo viaggio a Cuba nel 1960, con tanto di stretta di mano a Fidel, pare meno entusiasta di quanto ci si aspetterebbe. Da buon anarchico, Ferlinghetti sa che la rivoluzione è trasformazione continua, roba personale che si realizza nel rapporto col paesaggio intorno. Non è mai stasi, è movimento, lo stesso movimento che lo porta fra le povertà e le ancestralità del Messico, in Oceania con Ginsberg e col figlio neanche adolescente, nelle immersioni negli Usa profondi, nella provincia che è il vero centro di ciò che Henry Miller chiamava “l’incubo ad aria condizionata”.

Ferlinghetti vede brutture ovunque ma non è un idealista in cerca del modello perfetto, sa far tesoro di paesaggio e di persone intorno. Vede anche il bello ovunque. E alla fine si commuove più per le suggestioni letterarie, nel ripercorrere le orme dei suoi idoli, che per le uniformi dei Sandinisti. Si commuove veramente mentre Ezra Pound legge al festival di Spoleto del 1965 o a Lisbona sedendosi nel caffè preferito di Pessoa e sentendosi “uno dei suoi eteronimi”.

Di origini italiane e studi francesi, amante della spiritualità liberale e della natura, oltreché della socialdemocrazia scandinava, Ferlinghetti è il più europeo dei beat o il più statunitense dei poeti europei. Rappresenta una felice unione di contrari, compresa quella fra imprenditore e poeta. È però anche oltre la destra e la sinistra, il conservatorismo e l’innovazione acritica e in un certo senso oltre l’ideale e il reale, in una sana sintesi. Testimone della cenere di Nagasaki, della percezione della fine del mondo nella notte del deserto messicano e della resistenza della borghesia “uguale in tutto il mondo”, ci dona anche una capacità di vedere altro, di pensare altro, altri mondi, altri paesaggi e poesie da scrivere. Se quella capacità è stata un poco coltivata nel ‘68, andrebbe sì trasmessa ai giovani, ai nati nel 2000. Risulterà indispensabile per i viaggi nel tempo e nello spazio del futuro.

 

Fonte: L’intellettuale dissidente-letteratura

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