‘Il carcere’ di Pavese: un paese come non-luogo dell’anima

Il 17 gennaio 1949, a poco meno di un anno dalla sua morte, Cesare  Pavese ammise che si era a lungo vergognato de Il carcere come una ricaduta nel solipsismo e disse di essersi reso conto che questo problema lo attanagliava ancora, anche quando scriveva “La casa in collina”.

“Il carcere” fu pubblicato solo nel 1948, essendo stato scritto però dieci anni prima: indubbiamente non si può non dare ragione a Pavese riguardo la ricaduta nel solipsismo. Con “Paesi tuoi”, il suo “solipsismo” era definitivamente svanito: ora invece nel 1948 ritorna preponderante con questo romanzo, uscito per altro in coppia con “La casa in collina”.

Tuttavia a una prima lettura può sembrare che “Il carcere” sia solo un esercizio intimo di sviluppo della solitudine, ma forse non è così. E’ la storia di Stefano (alter ego dello scrittore) che viene mandato al confino a Rossano Calabro per aver difeso la sua donna, militante del Pci.
Quella  di Stefano è una storia struggente, e lo capiamo sin dai primi righi: “Per qualche giorno Stefano studiò le siepi di fichidindia e lo scolorito orizzonte marino come strane realtà di cui, che fossero invisibili pareti di una cella, era il lato più naturale”.

Stefano dirà più volte, nel corso della storia, che il confino era libertà rispetto al carcere, ma questa affermazione sarà poi ben smentita dal decorso degli eventi. Sin dal primo momento, sin dal suo arrivo al paese in un pomeriggio assolato di agosto, a bordo di una auto polverosa, Stefano si rende conto che è stato catapultato in un mondo immobile, dove la gente è “costretta a restarci”.
Le descrizioni esterne sono affidate alle lunghe passeggiate che Stefano fa durante il giorno, in solitaria: sono passeggiate durante cui pensa e ripensa alla sua condizione precaria, al suo dipendere da un foglio. Stefano non vive con serenità la sua “libertà”: ogni volta che il maresciallo lo manda a chiamare, pensa sia arrivato il momento di partire, che gli avessero condonato il confino. Come accade nell’episodio in cui viene chiamato dal maresciallo e tutta una angoscia e una trepidazione tremenda lo eccitano: scoprirà poi che invece del tanto agognato foglio di via, si tratterà solo di una notifica giudiziaria.

Il racconto si consuma così, tra le angosce di una situazione precaria e indefinita, in un luogo in cui è costretto a vivere ma che è costretto a considerarlo come un “non luogo”: le lunghe descrizioni dello stato d’animo di Stefano e la profonda solitudine che si respira nel paese, dipingono lo stesso paese come un “non luogo dell’anima”. L’uomo lo vive esattamente così: “La gioia di riavere una porta da chiudere e aprire, degli oggetti da riordinare – che era tutta la gioia della sua libertà- gli era durata a lungo, come una umile convalescenza. Stefano ne sentì presto la precarietà, quando le scoperte ridivennero abitudini; ma vivendo quasi sempre fuori, riservò per la sera e la notta il suo senso d’angoscia” .

Stefano è coinvolto nella vita di paese: gioca a carte all’osteria, va a caccia con Vincenzo, ma sente tutto come estraneo, precario, anche i discorsi con i paesani sono formali e distaccati, e sono sempre e solo loro a prendere l’iniziativa. Ben presto nella storia si fa strada forse una questione  che non ci saremmo aspettata da Pavese, o che per lo meno non la trattasse come la tratta ne Il carcere: il desiderio sessuale.
Per un uomo solo l’astinenza può essere un grande problema: sono molti le parti in cui Stefano sogna i fianchi di Elena, la ragazza che le fa le pulizie in stanza, ripensa alla bellezza di Concia, bella “serva” dell’osteria. Molti paesani, Gaetano, Giannino, Pierino molte volte gli chiederanno se avesse bisogno di una donna, ma Stefano rifuggerà sempre l’argomento: una donna infatti già ce l’ha. O meglio ha una vera e propria storia: Elena si è innamorata di lui. Molte volte i due consumano le gioie della carnalità e Stefano sente che non ne può fare a meno, che in quei momenti si sente meno solo. Gli piace sentirsi dire “ti voglio bene”: la storia con Elena, madre di Vincenzino,  dovrà rimanere segreta, per non destare scalpore in paese, ma  sarà una storia che avrà fine brusca. A lungo andare Stefano si innamora di Concia e quando viene a conoscenza che Gaetano non è interessato a lei, allora gli vengono molti scrupoli sul fatto che dovesse “tentare”.

Proprio con Gaetano Fenoaltea, Stefano si rende conto di essersi sbagliato sui conti del paese. Quel paese non era un eden immacolato: anche qui le persone si abbandonano a torbidi atti e passioni. Ad esempio di Gaetano si diceva di una sua tresca segreta, cosa nessuno avrebbe mai sospettato.
Da lì Stefano inizia a capire che quei paesani non sono diversi da lui: nella solitudine della vita di paese, molti si sono , diciamo cosi, attrezzati . Ci rendiamo conto di questa situazione quando, verso la fine del racconto, Gaetano aveva mantenuto “la promessa”: avevano preso una donna, Annetta, e la tenevano a casa del sarto. Quella donna era a disposizione loro e di altri due: Stefano passerà solo qualche minuto in stanza con Annetta, senza farci niente, solo per non far scontentare Gaetano.  Penserà poi, tra se e se, che il rispetto di quel corpo lo aveva fatto sentire libero davvero.

Anche Giannino, il suo primo nuovo amico in paese, viene arrestato perché anarchico e poi verrà spedito anche lui in un paese lontano, ma al nord. Da quel momento per Stefano inizia una solitudine più armoniosa: quando guarda il cielo dalla sua finestrella, si chiede se anche Giannino pensasse di tanto in tanto di fissare il cielo azzurro, pensava alle loro passeggiate sulla spiaggia e alle loro sigarette in giardino: questi atti ora Stefano li compiva da solo, ma con un sorriso interiore, quasi beffardo, perché ora non era più solo. Ora la “compagnia” di Giannino, che viveva la sua stessa condizione, era vera, sentita, percepita molto di più di quando gli era accanto in carne ed ossa. “Fantasticava il mondo intero come un carcere dove si è rinchiusi per le ragioni più diverse ma tutte vere, e in ciò trovava conforto”.

Quando il momento della partenza arriva, Stefano riordina in men che non si dica la sua valigia, cosa che non avrebbe mai pensato di riuscire a fare in breve tempo: c’è tempo un ultimo saluto a Elena, che lui ha allontanato, forse per paura, forse per proteggerla. “Le disse che le pagava la stanza, perché tornava a casa, e che il resto, nulla avrebbe potuto pagarlo. Elena con la sua voce roca balbettò imbarazzata: – Non si vuole bene per essere pagati.  “volevo dire la pulizia” – pensò Stefano, ma tacque e le prese la mano.”

Questo racconto amaro di intima solitudine pare non riguardare solo Stefano: Elena, Gaetano e tutti i personaggi, soffiata via l’apparente e falsa coltre da innocenti paesanotti, lasciano intravedere tutta la disperazione per una solitudine che forse non è tanto diversa da quella di Stefano.  “Son paesacci – dice il giovanotto che Stefano incontra nei primi righi – di quaggiù tutti scappano per luoghi più civili. Che volete! A noi tocca restarci.”


‘La casa in collina’: la guerra mondiale e intima descritta da Pavese

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“Pensai incredulo alle colline e alle vigne di quassù. Che anche qui si sparasse, si tendessero imboscate, che le case bruciassero e che la gente morisse, mi parve incredibile, assurdo.” Il Pavese de “La casa in collina” è un Pavese forse inedito: i toni solipsistici di una solitudine quasi “fine a se stessa” di altre sue opere come “Feria d’agosto”, “La bella estate”, appaiono qui come abbandonati.

Il Pavese che fa pronunciare a Corrado quelle parole è forse un autore già all’apice della sua maturità letteraria, senza neanche che, come la maggior parte della critica scrive, occorra aspettare “La luna e i falò”.
Composto nell’immediato dopoguerra, “La casa in collina” è un racconto “diverso” della resistenza, della guerra: diverso perché il protagonista Corrado non partecipa alla resistenza, ma ne avverte il disagio. Detto così, però, l’intento che Pavese vuole trasmetterci con quest’opera, appare disatteso: in realtà possiamo benissimo dire che Corrado partecipi alla resistenza e alla guerra, ma vi partecipa in maniera “intima”. In questo caso il luogo della guerra  e della resistenza non è il campo di battaglia, ma è l’anima del protagonista. Allo stesso modo è interessante vedere come, durante il racconto, si rincorra una certa similitudine tra “le colline” e appunto l’anima tormentata del protagonista: le colline come luogo dell’anima, sembra una descrizione più che mai appropriata.

La casa in collina è proprio la casa delle due donne (Elvira e la madre) che Corrado raggiunge la sera, rincasando dall’osteria che si trova a valle, dove è solito intrattenersi con Cate (un suo vecchio amore), Dino (il figlio di Cate), il cane Belbo, Fonso (il partigiano). Dalla collina Corrado vedrà Torino in fiamme, vedrà risplendere i fuochi degli attacchi tedeschi che possono essere paragonati a quei film di fantascienza che parlano di sbarchi alieni, con le luci delle astronavi che illuminano il cielo, insomma come qualcosa di già soltanto visivamente spaventoso.

A sprazzi però il protagonista si lascia andare a delle speranze, come la similitudine tra l’avanzare della primavera e la fine della guerra: similitudine che però sarà disattesa.
La narrazione si fa più nervosa quando accade l’episodio chiave: i tedeschi catturano Cate e gli altri dell’osteria: Corrado è disperato, fugge tra le colline e capisce che i tedeschi di lui non sanno niente perché probabilmente nessuno tra Cate e gli altri, hanno parlato. Ma capisce che allo stesso tempo le colline non sono più un riparo per lui: “Non c’era su quelle colline un cantuccio, un porticato, un cortile donde almeno per quella notte guardare le stelle senza batticuore?”

“In sostanza chiedevo un letargo, un anestetico, una certezza di essere ben nascosto. Non chiedevo la pace del mondo, ma volevo la mia. Volevo essere buono per essere salvo”. Così Elvira trova per Corrado un buon rifugio, il collegio dei preti a Chieri: lì sarà al sicuro, tra le mura del collegio, tra i volti dei ragazzi, tra le parole dei preti. Ma anche lì il terrore non lo abbandonerà: le orecchie sempre tese, i sensi sempre accesi per cogliere qualche pericolo. E una sera il terrore si presenterà reale: qualcuno al collegio può fare la spia. Il sospetto cresce angosciosamente in Corrado che per alcune sere non esce dalla sua stanza: alla fine un frate gli dirà che sarà meglio che si allontani un po’ dal collegio, per sicurezza. E così incomincia un vagabondaggio misero che porterà Corrado a comportarsi come un agnello indifeso in mezzo agli oscuri boschi: giorno dopo giorno cercherà di raggiungere la piazza del paese, poi si nasconderà tra le strade, sempre con il sottofondo degli spari, delle bombe e degli autocarri.

Verrà il momento che Corrado tornerà al collegio, ma gli studenti non ci saranno più: neanche Dino, che lo aveva raggiunto, sarà al suo fianco. Allora la sua solitudine, oltre che essere interiore, si farà anche materiale: arrivano notizie inquietanti dal mondo al di fuori della mura del convento. Corrado si interroga su Cate, su Belbo, si sente in colpa, possiamo dire, per questo suo stato di rifiugiato, per essere scappato. Verrà anche il momento che Corrado deciderà di tornare a casa, di affrontare le colline.
E ora l’immagine di questa “barriera di colline” che il protagonista  deve attraversare è molto diversa dalle “verdi colline” all’inizio del racconto: inizierà così un cammino da fuggiasco, per tornare a casa, si informerà sugli spostamenti dei tedeschi dai paesani che incontra, sbaglia molte volte strade, torna indietro, si nasconde.

Incontra un posto di blocco dei partigiani, che, non senza diffidenza, lo faranno passare. Si imbatte, da spettatore insieme a un vecchio contadino, a una rappresaglia di partigiani contro i Tedeschi: ma la scena non è descritta, è descritto solo il modo in cui Corrado si nasconde insieme al vecchio contadino e con il quale avverte solo la raffica di spari e il rumore dei carri. Quando l’imboscata sarà finita, l’uomo  esce allo scoperto: cammina tra i morti non permettendosi minimamente di scavalcarli, quasi come una forma di bigotto rispetto, forse, peggio ancora, di imbarazzo. Alla fine riuscirà a tornare a casa, sano e salvo. Ma il peggio lo aspetta ancora. Corrado sta male, si sente in colpa, avverte un grande disagio per quello che è accaduto ma non riesce a trovare una spiegazione.

“Mi accorgo che ho vissuto solo un futile isolamento, una inutile vacanza, come un ragazzo che giocando a nascondersi entra in un cespuglio e ci sta bene, guarda il cielo da sotto le foglie, e si dimentica di uscirne mai più”. Corrado alla fine del racconto non si assolve, non assolve il suo comportamento, anzi, si dissocia dal suo “io” dei mesi precedenti.
Molti tra i critici parlano di “egoismo” del protagonista che poi si risolve nella presa di coscienza di non essere riuscito a salvarsi, in realtà, perché “ogni caduto somiglia a chi resta”, perché alla fine i morti che ha visto per le strade possono somigliargli, ogni morto sconosciuto potrebbe essere addirittura lui, in realtà.

Il termine “egoismo” porta però intrinsecamente una ombratura di colpevolezza, di peccato: ma possiamo davvero incolpare Corrado di aver agito da miserabile egoista durante la guerra? Corrado è stato davvero un pavido per non essersi unito ai partigiani? Possiamo certamente assolvere la figura di Corrado, perché alla fine della storia riesce a rendersi conto di una cosa ancora più banale, ma per questo ancora più difficile: “Solo per i morti la guerra è finita davvero”.

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