Da Svevo ad oggi, l’uomo inetto attuale

Dal Novecento l’insoddisfazione contratta dall’uomo medio è rimasta inalterata. Ci si sente sempre più parte di un sistema che non si approva, impotenti, succubi di decisioni altrui, o, peggio ancora, delle proprie. Si tende sempre ad accontentarsi e la paura di sentirsi soli, la paura di non trovare lavoro, più semplicemente la paura di non farcela ci governano. Spesso la paura ci porta a scegliere un certo lavoro piuttosto che un altro, la paura ci porta a fare scelte che non vorremmo fare, a sacrificare i nostri interessi, spesso per quelli di qualcun altro. L’uomo comune di oggi si può definire un inetto (senza offesa). L’inetto è la figura letteraria introdotta da Italo Svevo nella sua trilogia di romanzi scritti tra il 1892 e il 1923. Probabilmente non è corretto definire l’inetto come una figura letteraria, ridurlo alla sfera della fantasia e dell’immaginazione dell’autore. Non scordiamoci che l’elemento autobiografico nei romanzi di Svevo è centrale. Prima di essere scrittore l’autore è un impiegato in un azienda, come ce ne sono stati molti il secolo scorso e come ce ne sono tuttora.

Svevo ha una particolarità, non gli basta quello che ha, si sente intrappolato e prova a scrivere ciò che prova immedesimandosi in una serie di alter ego quali Alfonso Nitti, Emilio Brentani e Zeno Cosini, i tre protagonisti dei romanzi. ‘Una vita’ è la prima opera di Italo Svevo ed è l’opera introduttiva dell’ ‘inetto’. In questo caso si tratta di un umile impiegato che non riesce e reggere il peso dei rapporti con i colleghi, le rivalità, le speranze e delusioni amorose. La realtà sociale opprime Alfonso, che oltre a Svevo rappresenta qualsiasi essere umano nella sua condizione. Si affaccia così nel quadro letterario italiano l’analisi psicologica dei personaggi. Le vicende narrative sono solo apparenti: le pagine del libro, che dimostrò pochissimo successo appena pubblicato, sono imbevute della natura del personaggio e dell’essere umano moderno.

Lo stesso discorso vale per ‘Senilità’, il secondo romanzo. Il protagonista Emilio è incapace di agire, non è in grado di gestire la propria situazione sentimentale ed è adombrato perennemente dalla sagoma dell’ amico-rivale Stefano Balli, il quale non ha di queste difficoltà. Emilio non riesce ad essere amato da Angiolina, che però si concede facilmente ad altri uomini, e questo invece di ripugnarlo fa in modo che il desiderio aumenti. Al momento della fuga della donna con un altro, il protagonista si accorge dell’inutilità dei suoi sforzi, e così, rassegnato, si incammina inesorabilmente verso un’esistenza priva di speranza o ambizione, facendosi bastare una continua e monotona tranquillità senile.

La terza e più complessa opera fu pubblicata nel 1923. Svevo incentra il romanzo sulla psicologia: uno psicologo pubblica per vendetta gli scritti personali di un paziente che improvvisamente sparisce. ‘La coscienza di Zeno’ è psicologia allo stato puro, è un continuo scavare nella mente di un uomo ormai inglobato nella società qualunquista. Le vicende più personali del protagonista ci vengono raccontate. Se non impegnassimo il nostro intelletto in un’attualizzazione delle trame narrative, non fermandoci all’apparenza di un racconto e cercando di coglierne il significato, le parole del libro rimarrebbero lì, immobili a fissare il lettore. Le parole di Svevo sono invitanti, invitano a distogliere lo sguardo dalla narrativa pura e a porci delle domande: Perché viviamo come viviamo? Perché ogni mattina ci rechiamo in un luogo che detestiamo per adempiere a un lavoro che non ci gratifica e per far crescere una società sempre più malata? Proprio così: la società è malata.

La malattia è l’incapacità di vivere degli individui. Pur disponendo di mezzi economici e culturali spesso l’individuo dei nostri tempi si abbandona a una vita che forse non è nemmeno degna di essere chiamata così. La chiamerei più un riempire il tempo che ci viene concesso. Una clessidra che, una volta finita la sabbia, non si rigira. L’inetto non è una figura di una particolare epoca storica, l’inetto c’è sempre stato, soprattutto c’è e molto probabilmente continuerà ad esserci.

La malattia della società si sta espandendo. Sempre più persone nominano come guida nella propria vita la paura, il pregiudizio, il ‘sentito dire’. Poco importa, si va avanti così. Sarebbe facile, se poi le persone non esplodessero. L’essere umano non nasce inetto, l’essere umano nasce vivo, ed essere vivo vuol dire lottare.

Le manifestazioni che oggi vediamo in televisione spesso non sono una lotta per dei diritti giusti, come si vorrebbe far credere, ma sono uno sfogo. Lo sfogo per la rabbia di una vita che non ci appartiene, che ci scivola addosso. L’uomo di oggi ha bisogno di reagire, di comprendere, di fare parte della società, non di subirne le decisioni. Tutt’altro che facile arrestare un processo di annientamento individuale come quello degli ultimi secoli, ma necessario. Per questo il lettore di Svevo deve addentrarsi nelle pagine, capire, aprire gli occhi, e distaccarsi dai protagonisti rassegnati. I tre romanzi si pongono come un avvertimento. Negli odierni intrecci sociali è sempre più facile perdersi, ma la rassegnazione appartiene all’inetto; all’essere umano appartiene la rivincita, la reazione, la voglia di vivere. Una volta conosciuti i propri limiti sono due le strade da percorrere: arrendersi e accontentarsi oppure riconoscerli per poterli superare, abbattere la barriera che c’è tra noi e la nostra vita.

Nicola Maiale

Italo Svevo ‘analizza’ il ministro dell’istruzione Valeria Fedeli dopo che è stata colpita in Parlamento

Svevo: Allora, come si sente?
Fedeli: Mi sembra di vedere cose non vere?
Svevo: Tipo la laurea?
Fedeli: Come scusi?
Svevo: Sa, è tipico, lei ha preso un pugno in faccia.
Fedeli: No, ma la laurea me la sono inventata prima del pungo, non c’entra nulla.
Svevo: Ah ok, quindi era consapevole di inventarsela?
Fedeli: Sì, sì, certo!

 

Svevo: Allora lei sta bene, al massimo soffre di falsità, ma niente di grave per il suo mestiere, la politica, anzi è ottimo.
Fedeli: Grazie, allora posso andare. Non mi prescrive nulla? Non devo prendere nulla?
Svevo: Ma, magari alla fine la laurea se la prenda.
Fedeli: Ah, che ridere dottore… a proposito ma lei è il dottor…?
Svevo: Svevo, Italo Svevo.
Fedeli: Quello che ha scritto… come no, la Coscienza di Svevo, è lei?
Svevo: La coscienza è di Zeno, Svevo sono io, l’autore.
Fedeli: Ah ho capito!
Svevo: Crede? In realtà mi chiamo Aron Hector Schmitz.
Fedeli: Tirolese?
Svevo: Di Trieste.
Fedeli: Si appunto, in Tirolo.

Svevo: “Mamma mia, neanche le elementari ha, altro che laurea”. Comunque qualcosa in realtà gliela prescrivo, un libro.
Fedeli: Sì, mi dica, ma, la prego, non mi faccia leggere quelli dal Fatto Quotidiano, tipo Freud, Marx, Schopenauer, Nietzsche, non li sopporto, sono faziosi.
Svevo: Del fatto quotidiano? Loro!?
Fedeli: Sì, non scrivono sul Fatto?
Svevo: Direi di no, loro mi hanno influenzato molto, più come metodologie che ideologie.
Fedeli: Forse mi confondo.
Svevo: No, non è confusione, mi creda, è ignoranza.
Fedeli: Reversibile dottore?

Svevo: Alla sua età è difficile, ma si legga questo: La coscienza di Zeno.
Fedeli: Lei si crede tanto normale? Tanto superiore a me dottore?
Svevo: Normale? Per nulla! Il diverso, l’ammalato, lo scrittore, sopravvivono al sistema, si ammalano pur di salvare se stessi dall’omologazione, resistono e si salvano, si rendono letterari, vivi. La letteratura è l’unico modo di vivere senza perdersi nella società alienante. Lei non è più diversa, ammalata, lei falsifica un curriculum per diventare senatrice e ministra e non la cacciano dopo che la scoprono, lei è il potere, il sistema, lei non è per nulla malata, per questo forse è perduta.
Fedeli: Sa che c’è dottore, il libro lo leggo, ma lei non mi vedrà più, visto che mi ha detto che sono normale in questo modo.
Svevo: Allora senza saperlo farà come Zeno, che si autoproclama guarito.
Fedeli: Addio!

E invece due giorni dopo…
Fedeli: Dottore, dottore, dottor Zeno!
Svevo: Svevo, ministra, Svevo.
Fedeli: Sì, sì, ho letto il libro.
Svevo: Come si sente?
Fedeli: Vorrei sapere, secondo lei come mai ho mentito nel curriculum?
Svevo: Perché aveva bisogno di sentirsi sana, come scrivo nel romanzo, convincersi di esserlo è l’unico modo per esserlo davvero.
Fedeli: Quindi fingevo con me stessa, ma non è grave!
Svevo: Beh, ha finto anche con milioni di cittadini, è più grave.
Fedeli: E il pugno? Perché mi è arrivato il pugno?
Svevo si avvicina e la colpisce con un pugno fortissimo in faccia.
Fedeli: Perché l’ha fatto?
Svevo: Ah – sospira soddisfatto – ora capisco perché gliel’hanno dato.

Al telefono con Eugenio montale, autore di Un omaggio a Svevo…
Svevo: Eugenio, ciao.
Montale: Ciao Italo, come va?
Svevo: Ho dato un pugno alla Fedeli! Mi sento liberato!
Montale: Sei il solito malato.
Svevo ride: E’ quello che volevo sentirmi dire.

 

 

Svevo e i suoi ultimi anni: un nuovo atteggiamento morale

Nel 1927, licenziando la seconda edizione di Senilità, Italo Svevo scriveva: <<Anch’io, che so ormai che cosa sia una vera senilità, sorrido di aver attribuito ad essa un eccesso in amore>>. Forse, con questo me aculpa, Italo Svevo voleva solo scusarsi di aver mantenuto, anche nella ristampa, un titolo censuratogli dall’amico Larbaud, come fortuito e restiamo stupiti se si pensa che proprio un anno prima, nel 1926, era stata composta la Novella del buon vecchio e della bella fanciulla dove si misura tutto lo scarto la senilità dal punto di vista dello stato morale e quella dell’atto di nascita.

Considerando nell’insieme del loro patetico terzetto, i tre maggiori protagonisti di Svevo, la senilità si può specificare in uno di essi, Emilio Brentani, come un eccesso d’amore, ma si tratta di un eccesso della libidine di vita, contraddetto dall’incapacità di vivere. Tali slanci rientrati, in un uomo ancora giovane portano all’annichilimento sul piano dell’azione, al rimorso su quello morale. Ma nel vecchio le rinunce sono frutti di stagione, in accordo con la natura e alla natura non si vince se non obbedendole e questa obbedienza è qualcosa di molto più attivo della rassegnazione, comporta molto più energia, e restituisce a chi la esercita, una confortante vena di ottimismo. L’ottimismo che Svevo non nascose durante i suoi ultimi anni: ancora un po’ scettico ma sicuramente meno ironico e insidioso rispetto a quello di Zeno.

La vera “senilità” di Svevo

La vera senilità ci offre un nuovo atteggiamento morale di Svevo. A prima vista si stenta a ravvisare nel “buon vecchio” della Novella, il solito protagonista dello scrittore triestino. L’autore stavolta ha confuso l’antico ospite della sua fantasia sotto una pioggia di punti di forza, elargendogli tutti i connotati della felicità: ricco, capace di contentezza e molto disponibile. Risorto dalle cenere di Alfonso Nitti e di Emilio Brentani, l’uomo di Sveva sembra  che sia approdato finalmente a una canuta serenità; è diventato un adattabile e lo si vede anche dal suo aspetto esteriore: veste con accuratezza, è signorile e gradevole, portando con serietà i suoi anni.

La penna di Svevo è diventata più indulgente, e registra gli incanti di quel benessere egoistico ed epicureo che spesso si addice ad un buon vecchio. Adesso Svevo sente venir meno il bisogno di far soffrire il suo personaggio, anzi gli concede molti compensi; il segreto di questo suo buon vecchio sta nel saper alternare la buona regola con le piacevoli infrazioni, cedendo a queste ultime con disincanto. Quando infatti riesce ad invitare in casa sua la bella fanciulla che conduceva la tramvia, con la scusa di aiutarla a trovarsi un impiego più conveniente, il buon vecchio crede al pretesto filantropico nello stesso modo in cui crede ai suoi fragili proponimenti di rispettare la ragazza e inganna il tempo riempendolo di considerazioni morali.

Sembra proprio che questo vecchio protagonista di Svevo sisia dimenticato di essere stato, un tempo, il protagonista di Una vita, Senilità e della Coscienza di Zeno. Ma come giudica l’autore il suo personaggio? C’è indubbiamente una venatura d’ironia nella sua bonarietà; il suo giudizio morale è implicita nell’intelligenza che ha di lui: Svevo giudica il vecchio, rappresentando come naturali e inevitabili tutti i suoi moti ed è ovvio che patisca lacune somiglianti a quelle di Zeno ma bisogna far attenzione all’ultima svolta che riserba la novella. Il giorno in cui un attacco di cuore gli toglie il piacere di amare, finiscono col tornargli utili anche quei dilemmi e considerazoni morali che prima aveva tenuto poco in considerazione. Alla luce di questi principi, il vecchio mette mano ad un trattato sui rapporti ideali tra vecchi e giovani; si mette a scrivere. Ma il trattato si ferma alla parte negativa, infatti nel momento in cui si dovrebbe affrontare la parte positiva, ecco che il buon vecchio è trovato stecchito “con la penna in bocca sulla quale era passato l’ultimo anelito suo”.

In questa novella, Svevo rovescia l’ordne della forze in gioco, capovolgendo l’effetto dinamico: il vecchio ora dventa scrittore solo dopo la crisi, la letteratura è la sua banchina di approdo ela morale un conforto. Dentro il semplice disegno di novelle come quella del Buon vecchio o del Vino generoso, Svevo trova un argine per riordinare una folta materia di resipiscenze fisiche e morali, nausee, terrori e presagi di morte, meditazioni.

Svevo e il conforto della morale: Una burla riuscita e Il Vecchione

Persino Una burla riuscita accusa una scissura tra la prima e la seconda parte. In quest’ultima la beffa atroce giocata alle superstiti ambizioni letterarie del povero Mario Samigli, impronta il suo moto al moto delle vicende, dei casi e dei personaggi che gesticolano nei loro indaffarati andirivieni. Mario riflette sulla vita e trova i pretesti delle constatazioni morali. Messa a contatto con la favola Una Madre, l’introduzione della Burla si illumina e finisce con l’apparire anch’essa un frammento di diario nel quale Svevo, attraverso una terza persona poco meno trasparente del buon vecchio, descrive le intime vicende che l’hanno convinto a farsi scrittore di apologhi.

Del romanzo Il Vecchione, invece, iniziato da Svevo negli ultimi mesi della sua vita, con l’intento di proseguire la Coscienza di Zeno, ci è giunta solo l’introduzione. I motivi ideali che mozzano Il Vecchione sono gli stessi Svevo aveva divinati, quasi con la lucidità di un presentimento, quando aveva deciso che la morte “stecchisse” il buon vecchio alle soglie del suo utopistico trattato. Potremmo definire Il Vecchione il trattato del buon vecchio di Italo Svevo. All’apparire di una fanciulla che ha tagliato la strada alla sua automobile, il Vecchione si sente aggredito ancora una volta dagli stimoli della gioventù. Se non si ritrovasse affianco, che lo richama all’ordine e alla realtà, l’ironia della moglie, lui crederebbe a queste reviviscenze. Cercherà d risalire e fissare il tempo, descrivendolo, cercando, attraverso delle virtù, di rendere viva e cosciente l’inerzia della vecchiaia.

 

Bibliografia: G. Debenedetti, Saggi critici, Seconda Serie.

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