‘La fine dell’era dei fiori’ di Giovanni Vanacore: un viaggio poetico e filosofico

La fine dell’era dei fiori, edito da Spring Edizioni, è la seconda silloge poetica di Giovanni Vanacore. Lo scrittore aversano ha esordito nel mondo dell’editoria nel 2017 con la raccolta Perle o poesie opache dalla forma incerta (MReditore), ed è fondatore del collettivo MalaTerra, gruppo di giovani che organizza eventi di stampo artistico-sociale nella terra dei fuochi ed anche uno sceneggiatore per lo studio di produzione audio-visiva Mindfool.

Nel 2019, in collaborazione con Mindfool, il suo scritto Aversa FS diventa un prodotto digitale e si aggiudica il primo premio Poesia visiva al concorso d’arte contemporanea “Artefici del nostro tempo” indetta dalla Biennale di Venezia.
La vita di Giovanni Vanacore, instancabile sperimentatore, oscilla tra il riempire pagine bianche con versi sparsi, fotografare la realtà con la sua fedele Instax e immergersi in esperienze sempre nuove come il teatro e la regia.

La fine dell’era dei fiori: la consapevolezza della miseria del mondo

Un libro è un teatro nella psiche -o nell’anima dove tra le finzioni di velluto ci sono squarci di un’oscena sincerità. Così si legge nella prima pagina della silloge poetica La fine dell’era dei fiori, un vero e proprio viaggio nell’animo del poeta campano. Già nell’introduzione si può percepire l’atmosfera cupa dai richiami esistenzialisti che pervade in tutto il libro.

Nacqui nel ventre della miseria del cemento […] Nacqui nella morale devastante, nell’etica più ipocrita […] Nacqui nell’epoca in cui il futuro è l’oblio dove gettiamo ciò che non vogliamo affrontare – con l’ansia ad opprimerci il cuore – aspettando che accada un qualcosa […]
Con queste parole si inaugura il percorso immersivo nei versi di Vanacore.

L’opera raccoglie 9999 parole, 99 poesie, divisa in 9 cieli. Ogni cielo è una sezione con un una propria tematica e un titolo. Ognuna è incorniciata da rappresentazioni in bianco e nero. La ripartizione è quella del cieli nel paradiso del sommo poeta. Alla beatitudine di Dante del nono cielo si oppone la mestizia dello scrittore Giovanni: l’addentrarsi nei cerchi diventa uno scavare sempre più profondo nelle dolorose pieghe del suo inconscio. Anche la parola fiori nel titolo è un significativo eco letterario: essa infatti richiama I fiori del male del simbolista Charles Baudelaire. Così come Baudelaire anche il giovane poeta impiega l’artificio della poesia per descrivere il degrado e il male.

Tutte le poesia trasudano un senso di disperazione e oblio di fronte ad un mondo contraffatto, disumano, privo di veridicità e di valori. Nel momento in cui vediamo la luce perdiamo la protezione del grembo materno e ci ritroviamo alla mercé di un mondo spietato in cui si fatica a trovare una propria individualità ed identità. Non c’è spettacolo più desolante nel percepire la morte quando si è ancora vivi: sembra essere questo lo stato d’animo di fondo del poeta che vuole trasmettere al lettore, evocando le nostre sfumature pessimistiche più nascoste. L’inesorabile aridità del mondo tratteggiata nei componimenti, richiama alla memoria i celebri versi di Eliot della Terra desolata: Città irreale:

Sotto la nebbia bruna di un’alba invernale,
Una folla fluiva sul London Bridge, tanti,
Ch’io non avrei creduto che morte tanti n’avessi disfatti.
Sospiri, brevi e radi, venivano esalati,
E ognuno fissava gli occhi davanti ai suoi piedi […]

Gli scritti appaiono crudi e intrisi di una tristezza devastante ma dietro celano un universo non tanto lontano noi. Giovanni Vanacore attraverso l’artificio poetico induce il lettore ad un profondo esercizio riflessivo su stessi e su ciò che circonda: abitiamo in un epoca di incertezze, dove presumiamo di vivere, in attesa di una svolta o una rivoluzione che non arriva mai.
Il lavoro di stesura delle poesie è molto accurato: la disposizione di ogni componimento è studiata per permettere al lettore, man mano che si addentra nei testi, a svelare il fulcro del libro stesso. Il linguaggio poetico appare a primo impatto ermetico, ma dopo una accurata lettura si percepisce uno stile fortemente simbolista. E’ il linguaggio simbolico dell’inconscio pronto a rivelare ciò che più recondito è nell’animo del poeta. Le parole disperazione, oblio, desolazione, il perenne limbo dell’essere e il non essere, sono costanti pedisseque della dicotomia vita-morte e inizio-fine, non ci può essere morte senza vita né inzio senza fine.

Le poesie contenute nel La fine dell’era dei fiori, sono appunto fiori che tentano di spaccare il cemento di questo mondo, creando spiragli vitali in cui poter esistere, un barlume di luce, un pezzetto di speranza che consentono di far vivere anche al più incallito dei materialisti e nichilisti, una propria dimensione con consapevolezza e serenità, in primis sfuggendo alle tristi verità rifugiandosi nelle buio, dove non sempre si commettono azioni negative.

Epilogo

E questa è la fine
Sia per chi è stato buono
Nelle sue convenzioni di lettore
Sia per chi ha visto in questi versi
Più miseria di me
Ma si ricordi il mondo
Che tutto ciò che è misero
È necessario
E non c’è creazione
Che non nasca
Da una delle mille forme
Della miseria
Non abbiate paura
Vivrete dopo aver voltato
Anche questa pagina
Ma un giorno saremo tutti
Concime per i fiori
E chissà cosa leggeranno
I figli dei figli
Tra i petali di quei fiori
La parola che manca
Novemilanovecentonovantanove

La poesia Epilogo è un’esortazione a non avere timore della fine, perché anche la misera è inevitabile e addirittura necessaria, all’interno della quale l’autore congeda il lettore, al quale la disperazione insita nel mondo e nell’essere umano, contenuta ne La fine dell’era dei fiori, non può essere estranea.

 

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