‘La formica argentina’, un racconto giovanile di Calvino, cupo e lirico

La formica argentina è un racconto lungo di Italo Calvino pubblicato per la prima volta nel 1952, nel decimo numero della rivista di letteratura «Botteghe oscure», scritto tra l’agosto del 1949 e l’aprile del 1952, e precede la stesura del Visconte dimezzato. Calvino scrive:

Ho scritto un racconto piuttosto abile ma un po’ gratuito, perciò non sono molto contento, uscirà su Botteghe Oscure.

Oggi fa parte de I racconti e si trova nel secondo volume, libro quarto, La vita difficile, insieme a La speculazione edilizia e a La nuvola di smog.

Scritto in prima persona, è il primo testo narrativo in cui Calvino abbandona i temi della Resistenza e della vita nel dopoguerra. La trama è semplice: il protagonista, disoccupato, insieme alla moglie e al figlioletto si trasferisce in un paesino della Riviera ligure, dietro suggerimento dello zio Augusto.

Il protagonista prende in affitto una piccola casa con giardino, che versa in stato di abbandono, senza sapere che la zona è infestata dalle formiche argentine, piccolissime e che arrivano dappertutto. I vicini le combattono in modo diverso: i Reginaudo con una quantità sproporzionata di insetticidi e veleni, il capitano Brauni le tortura e le uccide con le trappole, la signora Mauro, orgogliosa e rigida, nella sua grande e buia villa, finge che non ci siano, infine il signor Baudino, impiegato all’Ente per la lotta contro la formica argentina, le nutre con una melassa avvelenata. Il protagonista, dopo aver fatto visita ai vicini, a cui chiede consigli e dopo un sopralluogo nel giardino, si rende conto che non è possibile eliminare quella specie di formica e che l’unica soluzione è una rassegnata convivenza.

Il racconto è da subito pieno di angoscia di fronte a un nemico che si insinua ovunque: nel cibo, nel letto, nella canestra e persino nell’orecchio del bambino. La moglie appare sin dall’inizio ossessionata dalla marea di formiche, diffidente contro tutto e tutti, l’angoscia si trasforma in psicosi tanto che la donna finisce per aggredire il signor Baudino, accusato di favorire la proliferazione delle formiche per non perdere il lavoro. Alla fine del racconto, il protagonista, la moglie e il bambino arrivano al porto e … c’era il mare.

C’era una fila di palme e delle panche di pietra: io e mia moglie sedemmo e il bambino era quieto. Mia moglie disse: -Qui non c’è formiche-. Io dissi: E c’è un bel fresco: si sta bene. (…) Io pensavo alle distanze d’acqua così, agli infiniti granelli di sabbia sottile giù nel fondo, dove la corrente posa gusci bianchi di conchiglie puliti dalle onde.

La cupa narrazione si chiude con un passo di grande lirismo, la visione del mare calmo e pulito regala ai protagonisti un momento di serenità pur nelle difficoltà della vita. Il mare è l’opposto delle formiche, lava tutto, leviga, assume un significato di rigenerazione, ma prima di giungervi, la famigliola attraversa la città vecchia, digradante, che mostra i segni del male: la pietra grigia e porosa; le donne che portano ceste sul capo con gli occhi bassi; le ragazze cucitrici, da un giardino di un convento, guardano un rospo in una vasca e pronunciano a quella vista la parola angoscia; delle giovinette vestite di bianco che fanno giocare con un pallone un cieco; un ragazzo con addosso i segni della miseria, raccoglie fichi d’India da una pianta piena di spine; i bambini di una casa ricca, nonostante giochino facendo bolle di sapone sono tristi; i vecchi del ricovero rientrando, salgono le scale con il bastone e ciascuno parla da solo.

Nella lettera a Cesare Cases, Calvino smentisce che si tratti di un’allegoria pura e semplice del capitalismo come aveva drasticamente affermato il saggista, ma non può fare a meno di chiarire che il tema affrontato nel racconto non è semplicemente la descrizione di un fastidioso fenomeno naturale; esso sottende la volontà dello scrittore di mettere in relazione natura e storia. In natura esistono realtà mostruose così come nella Storia; l’immagine delle formiche, con le suggestioni emotive che sa trasmettere, è da sola un veicolo che rimanda al male connaturato nella Storia.

Per chiarire il concetto è necessario ricorrere ai testi di saggistica di Calvino. In Visibilità, la quarta delle Lezioni americane, Calvino parte dalla ben nota immaginazione visiva di Dante nel Purgatorio, per poi citare il manuale degli esercizi spirituali di Sant’Ignazio de Loyola, il quale utilizza l’immagine visuale come via efficace per raggiungere la conoscenza dei significati profondi, per giungere a Dio. Nel sottolineare l’importanza dell’immagine, Calvino scrive:

Possiamo distinguere due tipi di processi immaginativi: quello che parte dalla parola e arriva all’immagine visiva e quello che parte dall’immagine visiva e arriva all’espressione verbale. Se il problema della priorità dell’immagine visuale sull’espressione verbale era valido nel periodo della Controriforma, lo è anche oggi, sottolinea l’autore, quando l’immagine risulta essere dominante sulla parola. Le immagini nella fantasia provengono, per Dante, da Dio, secondo il pensiero attuale dall’inconscio individuale e collettivo, tuttavia esse vanno oltre il controllo esercitato dalla nostra coscienza tanto da raggiungere una dimensione trascendente.

Il protagonista (narratore) della Formica argentina non ha nome né volto, si muove tra tanti personaggi minori, ognuno dei quali ha un suo modo di contrapporsi alle formiche senza ottenere nessun risultato. Il caos, il male di vivere si è oggettivato nella vita quotidiana del protagonista che non ha una casa, non ha un lavoro, ne va in cerca e non lo trova, è preoccupato per la salute del bambino e per finire è oppresso dalla lenta burocrazia rappresentata dal signor Baudino (somigliava a una formica), indifferente di fronte ai problemi della società. L’unico rimedio, al male di vivere, potrebbe essere la solidarietà tra gli individui, ma essa manca totalmente nel romanzo, lo si nota quando la moglie del protagonista si ribella e inizia una marcia di protesta contro il signor Baudino.

La Formica argentina descrive una realtà cupa, angosciante, dove nel protagonista non c’è nessuna speranza né di tipo religioso né civile, eppure è presente un sentimento virile, che consiste nell’accettazione del male quando esso non è eliminabile. Come afferma Alberto Asor Rosa, in un articolo apparso sul quotidiano «la Repubblica» l’1 dicembre 1985, dietro la forma elegante e raffinata, la chiarezza e l’esattezza del periodare in tutta la produzione di Calvino si avverte un “nocciolo duro”, che consiste nella Natura morale dell’ispirazione calviniana, e che in essa, forse, consiste

nella Natura morale, il vero fattore di continuità, la coerenza complessiva della sua ricerca (da Il sentiero dei nidi di ragno a Palomar), il macigno sotterraneo da cui spiccava il volo la sua fantasia o si dipanava il filo sottile del suo ragionamento. (…) Per scrittore morale non intendo affatto quello che suggerisce valori o addita obiettivi; lo scrittore morale non si pone il problema di dire qual è il bene e qual è il male. Chi fa questo è un moralista (in senso riduttivo) o, peggio, un propagandista. Per me lo scrittore morale è quello che si limita a suggerire dei comportamenti e ad additare una linea di condotta: ma, al tempo stesso, affianca alla natura apparentemente limitata del “messaggio” l’inflessibile convinzione che non si può rinunciare alle regole di comportamento né a perseguire con fedeltà e tenacia una linea di condotta, pena l’inabissamento nel magma dell’indistinto e dell’arbitrario.

 

 

Fonti:

Giuseppe Bonura, Invito alla lettura di Calvino, Mursia, Torino 1972.

Marco Belpoliti, L’occhio di Calvino, Nuova edizione ampliata, Piccola
Biblioteca Einaudi 2006

Alberto Asor Rosa, Il cuore duro di Calvino, «la Repubblica», 1 dicembre
1985.

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