La violenza morale e il rapporto verità-menzogna in Marcel Proust nelle considerazioni di Bataille e Simone Weil

È un Proust meno noto quello che emerge dal saggio La letteratura e il male di Bataille. Il tema della riflessione sembra essere l’urgenza della voce della moralità che si articola nell’approfondimento del rapporto non scontato fra verità e menzogna; in quest’angolazione è possibile fare un raffronto fra il pensiero di Bataille e le osservazioni di Simone Weil sulla moralità in letteratura. Nella lettera ai “Cahiers du Sud” sulla responsabilità della letteratura la scrittrice lamenta, oltre alla «facilità dei costumi letterari» e alla tolleranza della «bassezza», «la carenza del sentimento dei valori» negli scrittori del secolo. La psicologia che è alla base della letteratura contemporanea «consiste nel descrivere gli stati d’animo disponendoli sullo stesso piano senza discriminazioni di valore, come se il bene e il male fossero loro estranei, come se lo sforzo vero, il bene, potesse essere mai assente dal pensiero di un uomo». La letteratura, in altri termini, si muove su «stati d’animo non orientati». L’opera di Proust non sfugge secondo la Weil a questo orizzonte: «Il bene vi appare solo nei rari momenti in cui per effetto del ricordo o della bellezza, si riesce a presentire l’eternità attraverso il tempo». Dalla lettura di Bataille emerge invece l’immagine di un Proust che, con una passione che si spinge fino alle soglie della violenza, persegue verità e giustizia e quindi il Bene. I passi batailliani che sottolineano l’impegno morale del Jean Santeuil e il suo commento ad alcuni passi esemplari della Recherche hanno una singolare affinità di tono con alcuni passaggi della lettera di Simone Weil, ma anche dello scritto La personne et le sacré, pubblicato in Francia nel 1950. Afferma Bataille: «Il solo fatto di essere uomo comporta l’amore della verità e della giustizia. Questa passione è distribuita in modo ineguale fra le persone, ma essa indica in realtà la misura in cui ognuna di esse è umana, in cui ad ognuna di esse spetta la dignità di uomo» (LM, IX, 259; 119). Leggiamo in Simone Weil: «C’è nell’intimo di ogni essere umano, dalla prima infanzia sino alla tomba e nonostante tutta l’esperienza dei crimini commessi, sofferti e osservati, qualcosa che si aspetta invincibilmente che gli si faccia del bene e non del male. È questo prima di tutto che è sacro in ogni essere umano». Per il romanziere francese, come per Bataille e Simone Weil che del resto riconosce allo scrittore verità e bellezza, la verità e la giustizia umana che affonda le radici negli strati più profondi del cuore (o dell’anima secondo Simone Weil che possiede il senso del soprannaturale) sono altro dalla sfera del diritto, a cominciare dal diritto naturale. L’uomo non ha scolpito nel cuore il senso del diritto, ha invece il senso della giustizia e del bene che non sono stadi intermedi e relativi, ma assoluti.

Il Jean Santeuil e l’amore appassionato per la verità di Proust

Troviamo in Bataille un passo del Jean Santeuil: «Si odono sempre con una emozione gioiosa e virile proferire parole audaci e singolari da parte di uomini di scienza che vengono a dire la verità per una questione di onore professionale: una verità che li preoccupa soltanto perché è la verità e che devono prediligere nella professione senza timore di scontentare chi la vede in tutt’altro modo, in quanto è coordinata ad un insieme di considerazioni di cui essi non si preoccupano punto» (LM, IX, 259; 119). Jean Santeuil risale a Platone per esprimere l’amore appassionato per la verità: «È questo – afferma – che […] ci commuove nel Fedone quando, seguendo il ragionamento di Socrate, abbiamo all’improvviso la straordinaria sensazione di ascoltare un ragionamento la cui straordinaria purezza non è stata alterata da alcuna passione personale come se la verità fosse superiore ad ogni cosa: perché in realtà non ci accorgiamo che la conclusione, che Socrate ricaverà da questo ragionamento è quella di dover morire» (LM, IX, 259260; 119-120). Jean è il Proust trentenne abitato da una grande passione per la politica. Il Proust della Recherche non è indifferente alla giustizia ma i suoi sentimenti «avevano ormai perduto questa semplicità aggressiva» (LM, IX, 260;120). Se nel Jean Santeuil Proust trova accenti lirici per esprimere la sua identificazione con «la voce della giustizia palpitante e pronta a sciogliersi in canto», la scrittura successiva non registra più tale ispirazione. Anzi, secondo Bataille, senza il Jean Santeuil non sapremmo che la giovinezza di Proust fu contrassegnata da sentimenti socialisti. L’indifferenza della maturità aveva essenzialmente motivi di carattere psicologico ma anche di classe: Proust apparteneva al ceto borghese di cui le agitazioni operaie tendevano ad abolire i privilegi, ma soprattutto, agli occhi di Bataille «la sua lucidità influì vivamente sulla sua ansia di generosità rivoluzionaria» (LM, IX, 260; 121). Un movimento di esitazione di fronte all’azione socialista non mancava del resto nemmeno nell’opera giovanile. Bataille ci invita a leggere un passo esemplare a questo proposito: «Soltanto quando riflette Jean si stupisce che (Jaurès) tolleri nei suoi giornali, o scagli nelle sue interruzioni, attacchi tanto violenti e forse calunniosi, quasi crudeli contro certi membri della maggioranza» (LM, IX, 261; 121). Lo stesso Proust si dà la spiegazione con quella che Bataille definisce «una ingenua goffaggine». Queste le conclusioni del giovane Jean: «La vita e soprattutto la politica sono una lotta, e poiché i malvagi sono armati in ogni modo possibile, è dovere anche dei giusti esserlo, almeno per non lasciar perire la giustizia […] Se i grandi rivoluzionari avessero troppo badato al modo, la giustizia non avrebbe mai conseguito la vittoria»

Gli stati d’animo tortuosi di Proust

L’intento di Bataille è comunque quello di dimostrare che «Proust ebbe fino alla morte la passione per la verità» (LM, IX, 263; 124), nonostante frequenti siano i momenti della sua vita in cui il principio viene trasgredito. In altre parole, i suoi stati d’animo furono tortuosi, i suoi comportamenti spesso discutibili o riprovevoli, ma egli ebbe scrupoli e rimorsi. Solo che Bataille sembra non rendersi conto come la sua critica oscilli dal piano psicologico al piano di più generali categorie antropologiche quando afferma, ripetendo per altro concetti già espressi, che non esiste legge senza trasgressione e che nella dialettica di entrambe risiede la loro umanità. Un passo soprattutto rivela questo atteggiamento: «Noi ironizziamo sulla contraddizione tra la guerra e l’universale interdetto che condanna l’omicidio, ma la guerra è universale tanto quanto l’interdetto […] Accade lo stesso della menzogna e dell’ingiustizia. È vero che in certi luoghi furono rigorosamente osservate delle interdizioni, ma il timoroso che non osa mai infrangere la legge, che rivolge altrove lo sguardo, è ovunque disprezzato. Nel concetto di virilità vi è sempre l’immagine dell’uomo che, pur entro i propri limiti, con piena consapevolezza e senza pensarci troppo, sa mettersi al di sopra delle leggi» (LM, IX, 263; 124). In realtà, la guerra e l’interdizione dell’omicidio sono ben altro rispetto alla fantasmagoria amorosa, che affonda in stati dell’interiorità per i quali è inadeguato ricorrere a categorie così ampie che investono la totalità dell’essere. Lo stesso Bataille si richiama al personaggio di Jaurès per il quale era in gioco non il possesso di un amore passeggero, ma lo scontro inevitabile fra giustizia assoluta e verità da un lato e la prassi politica dall’altro lato. «Se – scrive Bataille – Jaurès avesse ceduto alla giustizia, non avrebbe soltanto nuociuto ai suoi partigiani: questi lo avrebbero anche considerato incapace. Un aspetto oscuro della virilità costringe a non rispondere mai, a rifiutare una spiegazione. Noi dobbiamo essere leali, scrupolosi, disinteressati; ma al di là di questi scrupoli, di questa lealtà e di questo disinteresse dobbiamo essere sovrani. La necessità di infrangere una volta l’interdetto, fosse pure sacrale, è ben lontana dal ridurre a nulla il suo principio».

Nel Jean Santeuil, in ultima analisi, la passione per verità e giustizia emergono attraverso lo schieramento del giovane Proust dalla parte dei socialisti. E anche se questo sentimento non sfocerà mai, come Bataille sottolinea, in una piena adesione politica tuttavia egli mantiene fino alla fine «la sua ansia di generosità rivoluzionaria» (LM, IX, 260; 121), cui si adatta perfettamente il nome di rivolta senza fine e che accompagna o forse è alla base del registro altamente trasgressivo della Recherche.

Il cinismo presente nella Recherche e le critiche di Simone Weil alla letteratura di Proust in quanto letteratura psicologica

Nella Recherche, come Bataille sostiene, «gli episodi di cinismo si moltiplicano», episodi vissuti cinicamente mentre accadono, ma condannati nel racconto. In questo senso la memoria proustiana è veramente capace di mutare il passato nel trasformare il senso dei fatti, ai quali la riflessione che inevitabilmente si accompagna alla memoria aggiunge dolcezza e nostalgia, assoluzione o condanna. Bataille riprende i concetti già precedentemente espressi sul rapporto fra il rigore del principio e la possibilità della trasgressione, per ribadire che la morale autentica è quella che continuamente mette in gioco se stessa e quindi «il vero odio della menzogna ammette, non senza il superamento dell’orrore, che si corra il rischio di una data menzogna» (LM, IX, 264;125). L’insegnamento tradizionale che si pone al riparo dalla trasgressione «gira le spalle allo spirito di rigore» (LM, IX, 264; 125). Siamo nell’ambito dell’ipermorale alla quale fa da pendant l’eccesso. In particolare «Proust, facendoci conoscere la sua esperienza della vita erotica, ci ha offerto un aspetto intelligibile di un tale avvincente gioco di opposizioni» (LM, IX, 264; 126). I passi proustiani più significativi a questo proposito sono individuati da Bataille nell’episodio della profanazione da parte della figlia di Vinteuil della fotografia del padre ormai morto. Seguendo quella che considera una identificazione ormai stabilita, Bataille afferma: «la figlia di Vinteuil personifica Marcel, e Vinteuil è la madre di Marcel» (LM, IX, 265; 126). È in questa chiave che Bataille rilegge il brano proustiano che suona così: «Non c’è forse persona, per quanto grande sia la sua virtù, che non possa essere indotta dalla complessità delle circostanze a vivere un giorno di familiarità col vizio che ella condanna nel modo più aperto – senza che ella del resto lo riconosca completamente nel travestimento di fatti particolari che questo assume per entrare in contatto con lei e farla soffrire: parole bizzarre, atteggiamenti inesplicabili, una certa sera in un certo essere che tuttavia ella ha tante ragioni di amare. Ma per (una donna) come (la madre di Marcel), doveva esserci molta più sofferenza che per (un’)altra nel rassegnarsi a una di quelle situazioni che a torto si pensano come esclusivamente tipiche del mondo bohémien: esse si producono ogni qual volta un vizio, che si sviluppa per natura in un bambino, ha bisogno di riservarsi il posto e la sicurezza necessari… Ma dal fatto che la (madre di Marcel) conosceva forse la condotta (di suo figlio), non consegue che il suo culto per (lui) ne risultasse diminuito. I fatti non penetrano nel mondo in cui vivono i nostri miti: non li hanno fatti nascere, non li distruggono…» (LM, IX, 266; 127-128). Quest’ultima frase costituisce il momento di contrapposizione fra l’atteggiamento della madre (di una madre) e quello del figlio colpevole. I fatti non toccano le fedi profonde che vivono al di là delle azioni malvagie dell’essere amato visto, al di sopra di esse, con gli occhi dell’anima. Diverso l’atteggiamento del sadico della specie di Marcel in cui il Male diventa un’arte nel contrasto consapevole fra l’inclinazione naturale alla virtù, in altri termini a quella che non costa nessuna fatica, e la consapevolezza che esiste un altro ambito nel quale ci si vuole cimentare. Il piacere che si gode nell’esercizio dell’intelligenza sa di allontanarsi dalla sfera del bene ma non trova in esso alcun godimento. Nella pagina proustiana letta da Bataille, al sadico si oppone non colui che gode normalmente, ma l’asceta. Proust non conosce vie di mezzo: o la virtù senza piacere sensuale o la rinuncia totale. Un atteggiamento simile naturalmente nasconde da un lato la convinzione che non il piacere sensuale in genere, ma il proprio piacere in particolare sia fuori regola, cioè fuori dal bene, e dall’altro lato che solo fuori dalle regole, fuori dal bene esista il vero piacere.

La trasgressione di Proust secondo Bataille

Il piacere proustiano è indubbiamente un piacere trasgressivo, ma forse agli occhi di Proust la colpa maggiore è di non saper scindere il piacere dal male. Proust è contemporaneamente la figlia di Vinteuil ma è anche Vinteuil: egli vede non da una sola angolazione, ma a tutto campo. Vinteuil convive col vizio senza volerlo vedere, ma capisce anche il punto di vista altrui. Leggiamo infatti nella Recherche: «Quando Vinteuil pensava alla figlia e a se stesso dal punto di vista degli altri e della buona reputazione, quando cercava di situarsi insieme con lei al posto che occupavano nella considerazione generale […] si vedeva insieme con la figlia nell’estrema abiezione». Non può sfuggire che qui il bene è perfettamente inserito all’interno dell’idea borghese di moralità che coincide con la rispettabilità. I miti non crollano di fronte ai fatti, così come nessuna ragionevole considerazione sul bene può mutare le individuali inclinazioni al piacere; è possibile rinunciare asceticamente ad esso, non però trovare per esso il modo di tutti; e non a caso Proust usa il termine inumano; la lucidità della ragione si schiera dalla parte della moralità comune e ne vede le ragioni. Il sadico non è uno spregiudicato qualunque: non gli sfuggono tutte le sottili implicazioni del male che compie e ha la sventura di poter godere solo nel male. Secondo Bataille nessuno più del sadico conosce il Bene. Quella che Bataille definisce «la scena più forte della Recherche» è la scena che ha anche una inusitata e originalissima connotazione estetico-esistenziale: «È più facile – scrive Proust – vedere sotto la luce delle scale dei teatri del boulevard che sotto la luce della lampada di una vera casa di campagna, una ragazza che fa sputare un’amica sul ritratto del padre il quale è vissuto solo per lei; e forse soltanto il sadismo è capace di dare un fondamento nella vita all’estetica del melodramma. Nella realtà al di fuori dei casi di sadismo, una ragazza potrebbe avere degli atteggiamenti altrettanto crudeli verso la memoria e il desiderio del proprio padre morto, ma non li riassumerebbe espressamente in un atto di un simbolismo così rudimentale e ingenuo; quel che la sua condotta avrebbe di criminale sarebbe più voluto agli occhi degli altri e di lei stessa, e farebbe il male senza confessarselo». Proust definisce sadico l’atteggiamento di Mademoiselle de Vinteuil, Bataille parla di cinismo a proposito del Marcel della Recherche. La stessa conclusione di Proust, nel passo citato, subisce uno scarto. Il sadismo ha bisogno di rappresentare il reale in un simulacro e l’opera di Sade ne è la dimostrazione. Lo stesso Proust afferma: «Forse non avrebbe pensato che il male fosse uno stato tanto raro, tanto straordinario e conturbante, dove fosse tanto riposante emigrare, se fosse stata in grado di discernere in sé e in tutti gli uomini quell’indifferenza ai dolori che si provocano ad altri e che sotto qualsiasi nome è la forma terribile e permanente della crudeltà».

Qui Proust costruisce e demolisce un’estetica. Anch’egli appartiene, alla fine, alla tradizione dei moralisti, ma nella lettura di Bataille appare un essere profondamente morale nel suo schierarsi dalla parte della giustizia e della verità indipendentemente dalle sue azioni. Ha ragione Simone Weil nel definirlo scrittore di stati d’animo, non ha ragione quando lo vede «non orientato». Egli chiama col suo nome il vizio cui, non senza lacerazione, indulge, e nel brano citato assume su di sé non solo il punto di vista ma anche la sofferenza altrui. Scrive Simone Weil: «Non vi sono limiti ai nostri voleri se non la necessità della materia e l’esistenza degli altri esseri umani intorno a noi. Ogni estensione immaginaria di questi limiti è voluttuosa e così vi è voluttà in tutto ciò che fa dimenticare la realtà degli ostacoli. Ecco perché gli sconvolgimenti, quali la guerra e la guerra civile, che svuotano le esistenze umane della loro realtà, facendole simili a burattini, sono talmente inebrianti. È anche per questo che la schiavitù è così piacevole per i padroni» .

La lettura proustiana di Bataille suggerisce inoltre un ultimo raffronto con Simone Weil che nel testo già citato scrive: «Nulla più del Bene è bello, meraviglioso, perpetuamente nuovo, perpetuamente sorprendente, carico di una dolce e continua ebbrezza. Nulla più del male è desertico, triste, monotono, fastidioso. Tali sono il male e il bene autentici. Il bene e il male fittizi sono il contrario. Il bene fittizio è fastidioso e piatto. Il male fittizio è vario interessante, attraente, profondo, pieno di seduzioni». Il Bene in sé è piatto in quanto armonia e quiete, laddove l’arte è gioco di tensioni. La stessa Weil afferma ancora: «Se nella tela di un quadro raffiguro un uomo che sale in aria, ciò non ha nessun interesse: la cosa ha interesse solo in quanto esiste. L’irrealtà toglie ogni valore al bene». Naturalmente siamo con Simone Weil nella sfera dei valori morali che vengono distinti nettamente dalla valenza estetica, della quale la filosofa avverte il fascino ma che è pronta a sacrificare alla morale; quest’ultima sembra assumere nella sua riflessione un carattere incompatibile con la letteratura dalla quale «l’immoralità sembra inseparabile». E tuttavia ammette: «è certamente a torto che si rimprovera agli scrittori di essere immorali, a meno che non gli si rimproveri anche di essere scrittori, come si aveva il coraggio di fare nel XVII secolo. Quelli che aprono a un’alta moralità non sono affatto meno immorali degli altri, ma solo scrittori peggiori; in loro come negli altri qualunque cosa possano fare, loro malgrado, il bene è noioso e il male più o meno avvincente».

Simone Weil critica Proust in quanto esponente di una letteratura essenzialmente psicologica, e la psicologia porrebbe male e bene sullo stesso piano nella descrizione degli stati d’animo. Bataille dimostra che Proust sottopone a tensione critica gli stessi stati d’animo che appartengono all’uomo, allo sforzo di essere tale, e «il solo fatto di essere uomo comporta l’amore della verità e della giustizia» (LM, IX, 259; 119). Questa passione non è però distribuita allo stesso modo fra le persone, «essa indica, in realtà, la misura in cui ognuna di esse è umana, in cui ad ognuna di esse spetta la dignità di uomo» (LM, IX, 258; 119). Se verità e giustizia tendono al Bene, la letteratura non può essere che il territorio per eccellenza del male; i due piani, complementari in Bataille, sembrano nettamente separarsi nella Weil la quale tuttavia cerca una soluzione negli scrittori di genio: essi hanno «il potere di destarci alla verità», perché «sono fuori dalla finzione e ce ne portano fuori. Ci danno sotto forma di finzione qualcosa di equivalente allo spessore stesso della realtà, quello spessore che la vita ci presenta ogni giorno, ma che non sappiamo cogliere perché stiamo bene nella menzogna» La finzione del genio mette in luce la verità nascosta della menzogna e quindi perde il suo carattere di finzione, rispondendo alla verità ideale. Se per la Weil Proust appartiene alla schiera di coloro che, descrivendo stati d’animo, finiscono per porre sullo stesso piano Male e Bene, per Bataille la trasgressività letteraria ribadisce il principio del Bene.

 

Bibliografia: Georges Bataille e l’estetica del male, di Maria Barbara Ponti

La Recherche di Proust: una tragedia tra biancospini e cattedrali

Un’opera monumentale, classica e moderna allo stesso tempo, una cattedrale gotica, un capolavoro senza tempo, un’impresa per chi si accinge a leggerla. Stiamo parlando della Recherche, Alla ricerca del tempo perduto scritta tra il 1908 e il 1922 da Marcel Proust. Più di 3.700 pagine nelle quali il grande scrittore francese si propone di ricercare la verità, recuperando il tempo attraverso le celebri intermittenze del cuore, (Joyce parlerebbe di epifanie) ovvero quel risorgere di un ricordo attivato dalla memoria sia volontaria che involontaria, che ci riporta indietro nel tempo, a situazioni vissute.

Particolare importanza assume la vicenda editoriale dell’opera, a riprova della ponderosità del lavoro, della puntigliosità della composizione e delle difficoltà incontrate per la pubblicazione dell’opera.

Dal marzo 1909 i quaderni di appunti di Proust si infittiscono di episodi, abbozzi, ricordi, ritratti di personaggi. Tra l’estate e l’autunno stende le prime versioni di Combray e del Temps retrouvé, cioè dell’inizio e della fine dell’opera; nel 1910 insiste su quella che sarà la conclusione, mentre, il romanzo si espande in un dittico di romanzi, Le temps perdu e Le temps retrouvé, dal titolo complessivo Les intermittences du coeur.

Nel 1913 riesce a far accettare il lavoro all’editore Grasset, dopo la stroncatura di Gide, consulente di uno dei maggiori editori di Parigi, e pubblica a sue spese i primi due tomi dell’opera. Nel 1914 esce Du coté de chez Swann, primo volume dell’opera che avrà come titolo A la recherche du temps perdu. La morte del giovane autista Alfred Agostinelli (che amava) e la guerra costringono Proust a mutare nuovamente il progetto originario. Da Agostinelli nasce la figura di Albertine, introdotta nel secondo romanzo A l’ombre des jeunes filles en fleur.

Nel 1919 Proust, che è passato all’editore Gallimard, riceve il premio Goncourt mentre la malattia e l’ansia di concludere lo incalzano. Nel 1920 esce la prima parte di Le coté de Guermantes; la seconda, insieme alla prima di Sodome et Gomorre, compare l’anno seguente. Nel 1922 lavora alla Prisonnière, già dattiloscritta, ma il 18 novembre muore per una polmonite. Gli ultimi tre romanzi usciranno postumi: La prisonnière nel 1923, Albertine disparue, che Proust, Le temps retrouvé nel 1927.

La Récherche non è affato un romanzo autobiografico, (non si deve confondere il narratore con Proust), bensì la storia di una passione, di un amore, bello e struggente, per la letteratura; è la storia di Proust che riversa tutte le sue energie per scrivere il suo capolavoro, la sua tragedia, il suo inferno dantesco immerso tra biancospini, cattedrali e violette avente come sottofondo note di musica classica (efficace mezzo per esprimere l’ineffabile) che cela perversioni ed inquietudini. Proust interroga le parole, i gesti, le atmosfere, tortulandole, egli attua una violenza (che si esplica quando lo scrittore indugia lungamente sui dettagli, come le passeggiate, sui luoghi, la difficoltà nel prender sonno o quandonarra dell’amore delirante tra il geloso Swann e la mondana Odette) nel ricercare la verità che non sempre si nasconde tra le pieghe più sordide della vita. Leggendo Alla ricerca del tempo perduto si può percepire l’animo angosciato ed inquieto di Proust e a tal proposito ha ragione Alessandro Piperno quando sostiene che “la forza rabbiosa di uno scrittore che la tradizione ci consegna è come una sorta di simulacro di fragilità e deliquescenze morali. Invece il vigore muscolare di Proust annienta i suoi esegeti, anche quelli più scaltri, più cinici e nichilisti”.

L’opera presenta un ventaglio ricco di simboli, di analogie, di metafore e di segreti da ricercare, e si articola in sette parti. Come ha detto Proust stesso, la Recherche è “una costruzione dogmatica, cioè segue un piano rigoroso e conseguente”. Per poterla comprendere nella sua totalità, quindi, è necessario riassumere “per summa capita” il suo svolgimento, libro per libro.

1 – Du coté de chez Swann (Dalla parte di Swann). Il narratore ripensa, insonne, alla propria infanzia. Il ricordo più vivo è quello in cui, durante le vacanze in campagna a Combray, sua madre gli negava il bacio della buona notte, per trattenersi con un ospite, Charles Swann. La realtà di quel mondo, che egli si sforza inutilmente di rievocare, gli sembra perduta. Ma un giorno, assaggiando per caso un biscotto inzuppato nel tè, esso risorge: quel sapore, che da piccolo gli era familiare, gli restituisce le sensazioni, i ricordi, i racconti legati a Combray. La vita abitudinaria del paese era come quella della zia Léonie, ipocondriaca e reclusa volontaria, che dal suo appartamento spiava l’ordine immutabile delle cose. A lei badava Francoise, domestica ora mite e materna, ora spicciativa e crudele. In quella casa, i genitori del narratore accoglievano Swann, ricco israelita e raffinato intenditore d’arte, guardato con sospetto per aver sposato una cocotte (donna di facili costumi), Odette de Crécy. Alla sua tenuta portava una delle strade percorse dal narratore durante le sue passeggiate; l’altra, invece, conduceva al castello dei duchi di Guermantes, che il bambino immaginava circondati di gloria e di poesia.
A dispetto di quello che si credeva a Combray, Swann e i Guermantes facevano parte della stessa alta società parigina. Era stato allontanandosi da questa e frequentando i Verdurin, borghesi rampanti e animatori di un salotto, che Swann aveva conosciuto Odette e, tormentato dalla gelosia, aveva finito per sposarla. Dal matrimonio era nata Gilberte: il narratore ha giocato con lei agli Champs Elisées e, senza confessarglielo, se ne è innamorato.
2 –A l’ombre des jeunes filles en fleur (All’ombra delle fanciulle in fiore). Sono due le scoperte che reggono il “romanzo di formazione” del narratore adolescente: quella dell’arte da un lato, quella della vita mondana e dell’amore dall’altro. A Parigi egli assiste a una recita della celebre attrice Berma ed è presentato allo scrittore che più ammira, Bergotte; ma, in entrambi i casi, la realtà lo delude. A Balbec, sul mare della Normandia, conosce alcuni membri della famiglia Guermantes: la vecchia Madame de Villeparisis, che si lega a sua nonna, Robert de Saint Loup, che diventerà suo intimo amico, e l’altero e bizzarro Barone di Charlus. Ma lo affascina anche la piccola banda di ragazze che scorrazzano per Balbec e, tra queste, Albertine. È di lei che il narratore si innamora ed è lei ad introdurlo presso il pittore Elstir. Questi gli rivela l’esistenza di un’arte incentrata sulla metafora e che modifica la nostra percezione delle cose svelandone il significato segreto.
3 – Le coté de Guermantes (La parte di Guermantes) Tornato a Parigi, dove sua nonna, malata, muore, il narratore alloggia vicino al palazzo dei Guermantes. La corte che egli fa alla duchessa, tra il patetico e il ridicolo, cade nel vuoto; eppure, stringe sempre più i rapporti con la nobile famiglia. Prima è ospite di Saint Loup, poi è invitato ad un ricevimento di Madame de Villeparisis e subisce le strane attenzioni di Charlus, infine è accolto con benevolenza nella stessa cerchia dei duchi. Ma il loro mondo, visto da vicino, perde l’incanto della poesia; e persino la duchessa, ricevendo con incredula superficialità la notizia che Swann le dà di essere malato incurabilmente, svela l’inconsistenza della magia mondana.
4 – Sodoma et Gomorra (Sodoma e Gomorra). Il narratore sorprende Charlus in uno stupefacente dialogo, e ha così la chiave di comportamenti prima incomprensibili: virilismo e isteria nascondono la sua omosessualità. Tornato a Balbec, il narratore vive, a più di un anno di distanza, il dolore per la morte della nonna, che qui lo aveva accompagnato per la prima volta. Stringe la relazione con Albertine, ma ne scopre il lesbismo. Con irrazionale angoscia, decide di portarla a Parigi e di sposarla.
5 – La prisonnière (La prigioniera). La convivenza del narratore con Albertine è, più che amore, reciproca tortura. Ossessionato dalla gelosia, egli tenta di ricostruire il passato di lei, che continuamente gli sfugge. Intanto, dopo la morte di Swann e Bergotte, trova nella musica di Vinteuil un ideale estetico vicino a quello rivelatogli da Elstir. L’arte sembra dunque schiudere quella pacificazione che l’amore nega, e che nega ancor più, con l’improvvisa fuga di Albertine da Parigi.
6 – Albertine disparue (La fugitive) (Albertina sparita. La fuggitiva). Un telegramma informa il narratore che Albertine, caduta da cavallo, è morta. D’ora in poi non gli resterà che tormentarsi nell’impossibile tentativo di ricostruire definitivamente la verità su di lei e, alla fine, dimenticarla. L’oblio è sanzionato da un viaggio a Venezia, mentre il mondo parigino muta e si capovolge. Gilberte Swann sposa Robert de Saint Loup (che, si scoprirà, è segretamente omosessuale), Charlus si umilia per amore di un cinico violinista, Morel: le gerarchie sociali e i miti dell’epoca di Combray stanno crollando.
7 – Le temps retrouvé (Il tempo ritrovato). Siamo nel 1916. Dopo un lungo soggiorno in una clinica, il narratore torna in una Parigi esposta ai bombardamenti tedeschi. Qui ha la rivelazione intera della perversione di Charlus, presto colpito da paralisi. In un ricevimento dai Guermantes ricompare, come in una danza macabra, il mondo della giovinezza del narratore, su cui gravano le ombre della fine. Egli si crede, ormai, incapace di scrivere. Ma in una serie di folgorazioni simili a quelle che gli hanno restituito Combray, il narratore scopre la sua vocazione: fare delle esperienze della sua vita i materiali di un’opera d’arte, e vincere la morte.

Celebre è l’incipit della Rechèrche  <<A lungo mi sono coricato di buonora>>, frase che viene ripresa dal protagonista del capolavoro di Sergio Leone, C’era una volta in America. Restando nel campo della settima arte il regista Luchino Visconti avrebbe voluto realizzare un film sulla Récherche, ma di li a poco, mentre stava raccogliendo materiale per il suo lavoro, sarebbe morto.

Volendo attecchire alla psicoanalisi (tendenza abbastanza consolidata per la verità) si può considerare La Recherche come un’efficace risposta all’elaborazione di una grande sofferenza, la quale esige una sua giusta dimensione (in quanto malattia) nella psicoanalisi di Freud: stesso piacere nel ricordare all’interno di una logica ripartita, sia volontariamente che involontariamente.
Come afferma lo stesso Proust, <<Questa istintiva capacità di far resuscitare i ricordi e le sensazioni più antiche […] nella profondità organica, è divenuta traslucida delle viscere misteriosamente illuminate>>. Le azioni più comuni, i gesti più semplici, sono esaminati in ogni loro sfumatura con mirabile sensibilità e acutezza, e il narratore ci fa capire che tutto è misurato dagli anni e che va verso la morte, motivo per il quale aspiriamo all’eternità.
Ma, mentre Freud lotta contro il tempo per poter affermare il suo valore al mondo, a Proust non interessa il tempo; egli infatti si dedica alla vita mondana, ma anche lui riesce a trovare un modo per recuperarlo, per ritrovarlo, attraverso le intermittenze del cuore. Entrambi, dunque, vogliono vivere davvero il tempo, essendone consapevoli.
Specialmente in Sodoma e Gomorra e in La fuggitiva si percepiscono fortemente l’ineluttabilità dell’oblio e il suo perverso meccanismo che coinvolge non solo il destino dell’uomo ma la Storia stessa, la società e i suoi costumi. La soluzione, sia per il romanziere che per Freud è scrivere, sebbene con soluzioni differenti.

Tuttavia, non si può ridurre Proust a grande interprete dell’interiorità, o ad un scrittore della memoria; egli ha anche dato un grandioso affresco delle società francese tra l’Ottocento e il Novecento attraverso le vicende di due categorie sociali: l’aristocrazia e la borghesia. Come ha giustamente notato Giacomo Debenedetti, grandissimo estimatore di Proust, <<La Recherche è un’allegoria di quel vivere mondano tipico dei religiosi, ovvero il subire la cronaca e la storia come distruzione del tempo>>Debenedetti ha fatto da eco all’affermazione emblematica dello stesso Proust secondo il quale si entra in letteratura come si entra in religione.

E pensare che Un amore di Swann, alla sua uscita, fu snobbato in Francia e stroncato in Italia, indicato dalla critica come un romanzo d’appendice sulla scia de I misteri di Parigi (1843) di Eugene Sue.

Lo stile di Proust è caratterizzato da un periodare ampio, ricco di subordinazioni, con continui trapassi verbali, incisi, capace di evocare le sensazioni e gli stati d’animo più sottili, come se egli cercasse incessantemente di catturare la felicità e di dare un senso alla propria esistenza e alla letteratura stessa. Non vi è azione ne La Récherche, Proust è prolisso ma nessuno come lui al giorno d’oggi è in grado di descrivere la vita quotidiana con la stessa intensità e struggimento.

Dato il desiderio del narratore della Récherche di fare della propria vita un’opera d’arte per vincere la morte, si potrebbe essere portati a pensare, erroneamente, di accostare la figura di Proust a quella di un esteta, di un decadente, come ad esempio D’Annunzio, ma la “bellezza” di Proust si differenzia da quella degli altri “esteti” sia del suo tempo che della precedente generazione perché non è un modo di possedere, di affermare  una trionfale manomissione e manipolazione delle cose; è invece un modo di chiedere scusa alle cose, per svelarne il loro segreto.

E l’amore? Come intende l’amore il grande scrittore, anch’esso in maniera tragica? A tal proposito possono esserci ancora una volta d’aiuto le parole di Debenedetti, secondo il quale “Proust identifica subito nel tema dell’amore, la figura più plastica, riconoscibile, umana, di quell’impresa disperata e tormentosa contro l’inviolabile, di quel viaggio lungo itinerari ansiosi e sbagliati alla volta del segreto individuale delle cose e degli uomini, verso l’anima che si occulta e si annuncia dietro la facciata”.

<<Toccherà mai la superficie della mia piena coscienza quel ricordo, l’attimo antico che l’attrazione di un attimo identico è venuta così di lontano a richiamare, a commuovere, a sollevare, nel più profondo di me stesso?>> (Da Un amore di Swann)

 

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