Salvatore Quasimodo: un viaggio poetico tra mito e realtà

Salvatore Quasimodo nasce a Modica, in Sicilia, nel 1901, ma la sua vita è un continuo viaggiare tra le varie città d’Italia, dapprima con tutta la famiglia al seguito del padre capostazione, poi per alcuni anni (1919-26) a causa di condizioni economiche precarie che lo vedono impegnarsi in diverse attività professionali, ed infine per dedicarsi all’attività letteraria. Tra i tanti trasferimenti compiuti durante gli anni dell’infanzia ricordiamo quello nel febbraio del 1909,quando il padre del poeta  viene incaricato di riorganizzare il traffico ferroviario nella stazione di Messina che nel dicembre del 1908 è colpita da una devastante calamità naturale. Sono anni, questi, che segnano profondamente  il poeta e che sono rievocati in versi nella poesia “Al Padre”, contenuta nella raccolta “La terra impareggiabile”.

Il tema della natura, in cui Quasimodo si immerge interrogandosi e identificandosi con essa, scavando a fondo nelle sue sfumature segrete e inafferrabili, che sembrano radicate in un indecifrabile passato arcaico, è fondante nella sua arte poetica, è proprio a Messina che consegue il diploma ed inizia a collaborare con il “Nuovo giornale letterario” dove pubblica le sue prime poesie.  Si trasferisce a Roma, e qui pensa di continuare gli studi di ingegneria, ma a causa di precarie condizioni economiche deve impiegarsi in più umili attività. Nello stesso periodo inizia lo studio del greco e del latino, che saranno per lui fonti di grande ispirazione e da questo studio dedito e attento nasceranno i suoi lavori di traduttore tra il 1940-45. A Firenze è in contatto con l’ambiente di Solaria per le cui edizioni pubblica nel 1930 la sua prima raccolta intitolata “Acque e terre”. L’ ambiente della rivista si propone di creare un’attività culturale drammatica e umana proprio mentre l’Europa del fascismo e del nazismo preparano la loro opera di distruzione cancellando dalla storia del periodo ogni traccia di umanità. E l’obiettivo culturale e artistico della rivista influenzano il Quasimodo che quella “umanizzazione” va ricreando col suo talento letterario nelle sue opere, dove nelle prime raccolte, contenute nel volume del 1942 di “Ed è subito sera”, che comprende anche la serie di” Nuove poesie”, emerge un io lirico che pensoso si interroga sul paesaggio, sente “vivere e morire” in sé il mondo, dove la “dolce collina d’Ardenno” gli porta all’orecchio un “fremere di passi umani” e al paesaggio, primo fra tutti quello della sua città natale, la Sicilia, si sovrappongono richiami al mito e alla sua sacralità, che non a caso è la culla dell’umanità.

Nelle raccolte successive “Giorno dopo giorno” del 1946e tre anni dopo  “La vita non è sogno” il poeta è volto ad un colloquio più aperto con gli uomini, ad una maggiore attenzione per la realtà sociale; sente l’impegno , attraverso il “potere” sacro ed eterno della parola poetica , di ricostruire la calpestata dignità umana e contribuire a “rifare” l’uomo.  Ma nonostante ciò Quasimodo non tradisce la sua vena essenzialmente ermetica, la quale, non ha bisogno di eclissarsi per potersi conciliare al meglio  con il nuovo orizzonte neorealistico. Di questo ermetismo Quasimodo rappresenta una delle colonne portanti e la scelta di uno stile difficile, immerso nella ricerca dell’ analogia, in un’inquieta e intima esperienza interiore, rappresenta una risposta “alternativa” alle difficoltà della situazione storico-sociale presente. Dall’ermetismo il poeta apprende la ricerca della parola essenziale e suggestiva che gli consente di superare un puro autobiografismo di stampo romantico per leggere nella sua pena quella comune degli uomini ed in questo non fatichiamo a riconoscere l’affinità con l’altro grande esponente dell’ermetismo, Giuseppe Ungaretti.                                                                         

Dal 1934 è a Milano dove insegna e svolge  una varia attività di pubblicista, molto fruttuosa nel periodo del dopoguerra, quando si accosta a posizioni democratiche e di sinistra. La sua fama cresce notevolmente fino ad ottenere il premio Nobel per la letteratura nel 1959. Muore a Napoli nel 1968 e l’ultima raccolta “Dare e avere”  del 1966 rappresenta un bilancio che il poeta fa della propria esperienza umana e poetica, toccando tra le varie riflessioni emergenti dalle disparate esperienze di viaggio effettuate, anche la tematica della morte, a cui si accosta con accenti di notevole intensità lirica.                                     

La migliore poesia di Quasimodo appare intessuta di ricordi fissati nel paesaggio siciliano, paesaggio d’infanzia, e insieme, mito di una primitiva innocenza e perduta comunione con le cose, sembra  infatti rifarsi ad un’altra grande corrente culturale che si sviluppa in Francia nel diciannovesimo secolo: il Simbolismo. L’elemento fondamentale dell’arte simbolista, che riflettiamo nella poesia quasimodiana è che sotto la realtà apparente, si nasconda una realtà più profonda e misteriosa a cui si può attingere solo attraverso l’intuizione poetica. La figura retorica maggiormente utilizzata diviene allora  l’analogia, proprio perché si elabora un linguaggio nuovo, non più logico ma analogico, in quanto la parola poetica assume la capacità del far emergere  quelle segrete, misteriose, intime, oscure corrispondenze tra le cose, tra la natura e le emozioni del poeta. Si guardi al lessico volutamente indeterminativo : sostantivi astratti, quelli generici capaci di ammettere diversi significati, altri che indicano situazioni imprecisate in termini di concretezza.

In queste analogie, dove viene sprigionata una musicalità avvolgente e insistente , in questa trasfigurazione della natura, si avverte la vicinanza ad un altro importante modello, quello dannunziano.  Ma nel Quasimodo la ricerca dell’armonia con la natura, l’identificazione con essa, la rappresentazione di questa come un Eden in cui si rimpiange una perduta innocenza umana, non ancora corrotta dal male di vivere, si fa più tenue,  scarnifica e riduce all’essenziale quella passionalità prorompente tipica  di Gabriele D’Annunzio.  

 

                                                                                                                                                                                                                             

Dalla raccolta “Acque e terre” leggiamo il componimento “Specchio”, di cui , qui di seguito un passo:

“Ed ecco sul tronco/ si rompono le gemme:/ un verde più nuovo dell’ erba/ che il cuore riposa:/ il tronco pareva già morto,/ piegato sul botro. / E tutto mi sa di miracolo;/ e sono quell’ acqua di nube/ che oggi rispecchia nei fossi/ più azzurro il suo pezzo di cielo,/ quel verde che spacca la scorza/ che pure stanotte non c’ era”.

Constatiamo dunque come in questo componimento il poeta senta vivere e respirare in sé la natura, si identifichi con essa, fino a sentirsi parte rinascente della natura che germoglia in Primavera. C’è un panismo dilagante che porta il poeta ad essere “acqua di nube che oggi rispecchia nei fossi”, a identificarsi come parte di un tutto che alla luce della nuova stagione, così come la flora e la fauna tornano alla vita abbandonando il torpore dell’Inverno, allo stesso modo l’anima  abbandona l’inaridimento dovuto alle disillusioni della vita umana e rifiorisce, tornando a vivere e a sperare. Il tronco che pareva morto e torna alla vita è metafora di quanto detto.

Da Oboe sommerso”  del 1932 ricaviamo invece l’esempio più efficace dell’ermetismo quasimodiano:

 

“…Un oboe gelido risillaba

foglie perenni,

non mie e smemora….! ”                  

Ad una prima lettura del componimento la sensazione che ne riceviamo è una sorta di messaggio nascosto, criptato, di difficile comprensione. Abbiamo una serie di successioni foniche delle quali è complesso scorgere il reale significato. Affidiamoci allora al titolo : l’oboe, uno strumento non comune, il cui suono è sommerso. L’oboe strumento, si identifica e materializza metaforicamente nell’oboe poesia il cui suono sommerso diviene significato sommerso e nascosto, da riportare a galla.

Della raccolta “Giorno dopo giorno” è invece la lirica “l’uomo del mio tempo”:

“…Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue                                                                                                                                                                           salite dalla terra, dimenticate i padri…”

Scorgiamo già solo attraverso la lettura di questi due brevi versi, l’invito del poeta a “riplasmare” l’umanità, devastata, corrotta, depravata, “stuprata” dalla violenza, dal sangue, dalle guerre. “Dimenticate..”, grida il poeta, dimenticate la storia per riscrivere la storia, distruggete l’uomo per ricreare l’uomo, ripudiate i padri per essere nuovi padri.

Leggere Salvatore Quasimodo è come compiere “un viaggio” poetico tra passato e presente, tra antico e moderno, tra mito e realtà, tra anima e mondo, tra il detto e il non detto,  che attraverso un animo poetico che palpita, pulsa, vive nel tutto a cui attinge ,ci dimostra che la letteratura è vita nella quale immergersi per ritrovare quell’intima, segreta,innocente comunione con le cose del mondo.

 

Di Elvira Fornito.

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