‘La veranda’, o sul senso di fugacità della vita: il romanzo d’esordio di Salvatore Satta

In una visione alquanto cupa della vita, si accende una luce che la rischiara, sublimandola: la consapevolezza che nell’uomo c’è una scintilla divina che ha impastato anche il suo fango. Questa espressione fa riferimento alla figura di una strana donna, <<col viso di una strega>>, personaggio presente nel capolavoro del giurista Salvatore Satta, “La veranda”, romanzo composto tra il 1928 e il 1930, e che conobbe una vita travagliata, rimanendo non pubblicato per diversi anni e ricordando per certi versi, i “Canti Orfici” di Dino Campana.

Tale consapevolezza di cui è costituita la natura umana ribadisce, con evidente riferimento all’immagine biblica della creazione di Adamo, da un lato la concezione negativa dell’uomo, che è fango appunto, dall’altro la certezza che in mezzo a tanta miseria, materiale e morale, risplende il raggio illuminante di Dio, quel <<qualcosa di divino>>.

Nell’opera di Satta si narra delle vicende che si svolgono nella veranda di un sanatorio, dove sono ricoverati dei malati di tubercolosi, dal punto di vista di un avvocato alle prime armi, in cui è facile riconoscere lo stesso Satta, che si ammalò davvero di tisi nel 1926 e venne ricoverato nel sanatorio di Merano. Nel sanatorio la vita trascorre piatta, tra tante miserie umane, dove ogni uomo rappresenta ogni parte malata della società, e la malattia è la metafora e quasi la personalizzazione di quel male che toglie dignità e che <<sembra prospettare immagini di vita subumana>>.

Salvatore Satta ci fa entrare in un mondo simile a quello immaginato nelle commedie dell’assurdo di Perec, dove il nome dei malati è sostituito da anonimi numeri. La spersonalizzazione dei personaggi porta alla perdita della propria individualità, del proprio spessore. Nella “Veranda” non solo il personaggio ha ceduto il passo al tipo, ma il tipo è arrivato persino a spersonalizzare se stesso, che però non significa mancanza di profondità nel delineare i caratteri, ma risponde all’intima e letteraria volontà di fare del sanatorio lo specchio della perduta umanità.

Non desta meraviglia dunque l’aria di morte, musa ispiratrice del narratore, che si respira nel sanatorio, dove ognuno agisce nella piena rassegnata consapevolezza di essere ormai sul punto di venir tagliato con violenza dal prato della vita dall’inesorabile falce della morte, di cui la malattia è il triste messaggero, referente di terribili sventure.

Quella della “Veranda” è una scrittura certamente di un principiante, essendo questa la prima opera dello scrittore sardo, ma con una padronanza assoluta di quello che è il linguaggio narrativo di questo romanzo. Sono toccanti e pregevoli dal punto di vista stilistico le pagine in cui l’autore descrivi con echi saffici, le fasi dell’innamoramento nei riguardi di una malata del sanatorio o in cui si commuove al ricordo del suicidio di Baccalà o della madre lontana.

Il senso della fugacità della vita, personificato nel cupo tramonto dei vacui ideali perseguiti dal fascismo, come il De Profundiis, anima anche questo romanzo, insieme all’interrogativo che si pone il lettore riguardo al “demone” sattiano, che è istinto, quale componente divina, non materiale, una spinta interna, congenita ed immutabile ad agire e comportarsi in un certo modo, a prescindere dall’uso della ragione, di cui Satta condanna l’assolutizzazione, ricordando al lettore che esiste anche un altro strumento conoscitivo, che va oltre la ragione: l’istinto, appunto.

Salvatore Satta, il giurista scrittore, lirico ed evocativo, autore del capolavoro misconosciuto ‘Il giorno del giudizio’

Salvatore Satta è un nome noto ai più come autore di uno dei più grandi romanzi della letteratura del Novecento, il romanzo postumo Il giorno del giudizio del 1977, capolavoro misconosciuto, opera biblica, agrodolce, evocativa, dalla prosa scarna, nella quale dietro le storie asciutte e feroci, dietro la concretezza durissima dei fatti, sentiamo una continua febbre visionaria. Sospeso nel momento innaturale e veggente del giudizio, un intero mondo parla qui per la prima volta e si inabissa: ogni sua traccia ha in queste pagine un’intensità violenta, dolorosa e, a tratti, di disperata dolcezza. Alla fine sentiamo che davvero «il sogno galoppava in quelle brulle lande». Agli addetti ai lavori, invece, è noto come finissimo giurista. I suoi scritti giurisprudenziali sono raccolti nel monumentale volume Soliloqui e colloqui di un giurista nel quale si trovano, tra le varie barbosità destinate ai tecnici del diritto, riflessioni di filosofia politica e del diritto che per chiarezza concettuale e radicalità di indagine nulla hanno da invidiare ai testi di uno Schmitt o di un Mortati. Nuorese di nascita e di vocazione, studente del prestigioso Liceo Azuni di Sassari e della Facoltà di Giurisprudenza della stessa città, Satta è entrato postumo nell’olimpo dei letterati italiani, fornendo salda ispirazione a quella scuola di letteratura sarda formata da Sergio Atzeni, Salvatore Niffoi e altri apprezzatissimi autori. La sua confidenza con le lettere era evidente già nell’opera giovanile La veranda, paragonata da Marino Moretti a La montagna incantata di Thomas Mann, e pubblicata soltanto negli anni Ottanta.

Eppure, se mettiamo da parte Il giorno del giudizio“straordinario e lugubre affresco di un paese che non ha motivo di esistere”,  la destrezza lirica di Salvatore Satta si manifesta con luminosità nella scrittura privata, estemporanea, effimera quasi a raggiungere i livelli degli attuali messaggi di chat; ma a differenza di questi ultimi, deprecabili nella loro presuntuosa lapidarietà à la Twitter, o nella ostentata vacuità da gruppo gossipparo su Whatsapp, i messaggi di Satta istituiscono un genere letterario a sé, che richiama il poetare giocondo del Mallarmé dei Loisirs de la Poste. Perché prima che insigne giurista, raffinato pensatore e uomo di tormentata fede, Salvatore Satta è stato amorevole padre ed esemplare marito, e la raccolta dei Padrigali mattutini (Ilisso, 2015, pp. 123) ne è testimone. Nel periodo di docenza all’Università di Genova, nel secondo dopoguerra, egli dedicava i primi minuti della giornata alla stesura di brevi lettere in versi, senza l’intento di raggiungere lontani continenti, bensì con l’unico scopo di scavalcare il tempo e lasciare un avviso, una comunicazione, un saluto, una testimonianza di passaggio alla propria consorte, qui ricorrente sotto il nomignolo di Mucio, stretta ancora nel sonno della prima luce mattutina.

«7.VI.55

Cara Mucio,
ho scritto la lettera per Zizzi Bachisio,
e questo mi ha tarpato le ali. Non
posso risalire dai profondati abissi per
offrirti un verso mattutino. Ma sia come fatto.
[…]
State allegri, rinfrescatevi al bagno,
e pensate a un malinconico individuo
che stasera dovrete purtroppo rivedere.
Avete e favete.
BiBi»

Così Salvatore Satta, levatosi dal talamo all’aurora, si dedicava giocosamente a una poesia spensierata, talvolta firmando i propri versi come BiBi, Pater Bibus, Il viandato, Il penestrello, L’errante, talaltra non disdegnando la simulazione storica e letteraria, trasformandosi dunque in Ettore, in Ulisse, in Romeo, finanche in Pindaro, Dante, Bocaccio:

«Canto 7500 LA DIVINA COMMEDIA Gli oziosi

Come colui che lascia moglie e prole
e la placida casa in riva al mare
per pascersi di inutili parole,
tal mi vid’io, e vedermi ancor pare,
quando uscii per andare a quel congresso
di gente che non sa che cosa fare,
tra Jaeger porco e Enrico Tullio fesso.

Bibi Dante».

C’è in questi messaggi privati l’avversione nei confronti della vita accademica (i riferimenti portano ai giuristi Nicola Jaeger ed Enrico Tullio Liebman), ritmata dagli incontri di gente che non sa che cosa fare, così lontana dai piccoli ma determinanti problemi di una quotidianità angustiata tra un frigorifero rotto e il bisogno di un viaggio:

«Il frigorifero piange: non potresti dare un
“colpo” di telefono alla Fiat? Forse ci riesci.
Raccogli tutti i messaggi telefonici con
cura. Prepara una gita per domani».
O ancora, a indicare un’uscita frettolosa dalla casa:
«Impossibilitato lasciare
versi prego far sturare
lavandino

Pindaro».
«Non sono né Onorio né Arcadio
ma sono la tua metà.
Trasporta pure l’armadio
se questa è la tua voluttà.
Per la follia che ti invasa
staccarmi non so più da te.
Però le chiavi di casa,
cara, le porto con me».
Ma le preoccupazioni casalinghe («nel bagno dei frugoletti si è staccato / il galleggiante del wc. / Vedi di farlo riparare. / Tutta la notte è corsa l’acqua dentro il / mio confuso cervello. /Spero che possiate andare al bagno. / Vi seguirò col pensiero […]») costituiscono soltanto una parte della costellazione tanto lirica quanto ironica di Salvatore Satta. Concepiti per essere destinati privatamente alla moglie amata, la studiosa di letteratura russa Laura Boschian, i padrigali si danno al lettore in una veste esoterica, piena di riferimenti a colleghi, parenti e amici stretti, i quali compaiono sotto falso nome e ricostruiscono il quadro di rapporti che il giurista intratteneva nel suo periodo ligure. Si legge in una carta targata Università di Genova – Facoltà di Giurisprudenza:
«Lentamente migliora la mia panza
ma l’anima si strugge di dolore,
perché mi sveglia nelle male ore
il pensiero di Gano di Maganza.

Di te, di me egli si è preso a gabbo,
del complesso muciano, quel serpente.
Non resta che augurare un accidente
Al tristo sassarese impiccababbo».

Ogni pagina costituisce dunque una rivelazione della vita privata e, allo stesso tempo, un nuovo misterioso gradino da interpretare – sono in tal senso utilissimi l’introduzione di Valerio Magrelli e il repertorio fotografico che chiude il volume. Una paterna tenerezza e una profonda nostalgia della patria accompagnano i basicheddos a tottis, i pistoccos e i tormentati ricordi di una terra:

«Nell’alba mi volgo a ritroso
misuro tutto il passato
forse perché ho mangiato
un papassino schifoso.

Rivedo l’olio fetente
il vino che ha preso lo spunto
ripenso con disappunto
al sardo amico e al parente.

In questi tristi pensieri
muovo incontro al mio giorno
l’oggi mi si fa ieri
la sola speme è il ritorno».

Nessuna verbosità o loquela avvocatesca nei padrigali sattiani di Salvatore Satta, bensì l’entusiasmo un po’ fanciullesco per l’officina della parola che si fa divertissements, come tradisce un verso: «[…] ho scritto / così solo per la rima». E se l’improvvisato poeta si profonde in una scrittura aulica o anacronistica, eccolo già intendo ad aggiungere, come fosse giudice di se stesso, delle note esplicative che fanno il verso al commento critico. Ridefinendo i propri ruoli familiari e sociali, l’autore si ritaglia un angolo tra l’esclusione della vita casalinga, da cui si allontana e che saluta attraverso le rime, e l’uscita nel vasto, spaventoso e ostile mondo extra-domestico. Ecco dunque il distacco dal giaciglio diventare occasione di rielaborazione, non più troppo s-pensierata, della propria vita:

«Nella notte insonne ho fatto come Dighino
con l’Iliade: ho voltato in prosa la
poesia della mia vita. Ma ora sono in
piedi e rifaccio il lavoro inverso: ricompongo
in versi e in rime la prosa, e mi appresto
ad aggiungere un breve capitolo all’eterno
poema. Farò rimare Giussani con Torchiani,
Invernizzi con Bizzi, Delitala con Cicala.
Difficile sarà trovare una rima con Lichinchi».

Il gioco della parola, dove la leggiadria del verso e il sentimento di nostalgia si scontrano, sfocia nel congedo che mai è abbandono, ma sempre virile e paterna coscienza del proprio ruolo di sorvegliante e difensore. La superiorità dell’uomo in seno al focolare per Salvatore Satta, si fa forza protettrice, scudo domestico, riparo per chi, immerso nel sonno, non ha spada:

«Madre, suoceri, figli e canarini,
dormono tutti di un profondo sonno.
Solo colui che vi è maestro e donno
veglia sui vostri placidi destini».

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