Clemente Rebora, la poetica della ricerca spirituale e la lirica agonizzante soffocata dalla società capitalista

Clemente Rebora nasce a Milano il 6 gennaio 1885 dal garibaldino e massone Enrico Rebora e dalla poetessa Teresa Rinaldi. Nel 1903 intraprende gli studi di medicina che presto abbandona per seguire i corsi di lettere presso l’Accademia Scientifico-letteraria di Milano, dove si laurea nel 1910.

Fin dalla giovane età l’anima di Rebora sembra intrisa da profonde crisi spirituali; nel suo percorso accademico supera difficili momenti di depressione che lo portano sull’orlo del suicidio. Completati gli studi, dapprima, intraprende la via dell’insegnamento in istituti tecnici e scuole serali non tralasciando la passione per la scrittura; in questo periodo, infatti, collabora con numerose riviste fra cui ‘’La Voce’’, ‘’Diana’’ e ‘’Rivisita D’Italia’’.  Nel 1913 avviene il debutto letterario  con la pubblicazione del volume di poesie Frammenti lirici. Nel 1914 conosce  pianista russa Lydia Natus, l’unica donna che il amerà nel corso della sua esistenza.

Intanto scoppia la Prima Guerra Mondiale: l’episodio storico influirà nella vita di Rebora sia a livello personale che professionale, segnando la sua poetica. Dopo aver subito un trauma cranico sul Monte Calvario, a causa di una violenta esplosione, e il fermo dovuto a uno  stato di shock, il poeta milanese si riprende e annota le atroci esperienze belliche nella raccolta Poesie sparse, composta negli anni della Prima Guerra Mondiale ma pubblicata nel 1947.  Nella lirica Leggiadro vien nell’onda della sera, Rebora racconta questa sua dolorosa esperienza dove la ferita causata dallo scoppio di una granata lo porta ad errare lo porta a errare per ospedali psichiatrici e diagnosi di crisi nervose e disturbi post-traumatici da stress:

Leggiadro vien nell’onda della sera
un solitario pàlpito di stella:
a poco a poco una nube leggera
le chiude sorridendo la pupilla;

e mentre passa con veli e con piume,
nel grande azzurro tremule faville
nascono a sciami, nascono a ghirlande,
son nate in cento, sono nate in mille:

ma più io non ti vedo, stella mia.

 

Leggiadro vien nell’onda della sera ( Poesie sparse, 1947)

 

Il poeta, affascinato dalle stelle che spuntano all’imbrunire, scorge nella sera che avanza come un’onda che sommerge tutto un delicato palpito di stella: metafora di un cuore umano. L’astro che colpisce l’animo liliale dell’autore sparisce subito poiché oscurato da una nube leggera che all’etere regala faville scintillanti ma che, per sempre, ha celato ai suoi occhi l’astro amato: il palpito solitario che lo aveva colpito, adesso, lo ha abbandonato a sé stesso per sempre.

Dopo aver vagabondato da un ospedale all’altro, e in seguito a una diagnosi di infermità mentale, Rebora riprende la sua attività ma soprattutto si configura quello che, a tutti gli effetti, diventerà il tratto distintivo della sua poesia.

Rebora: le tematiche risorgimentali e la folgorazione religiosa

Nel 1922 pubblica la racconta Canti anonimi in cui Rebora si pone al cospetto di una quasi illuminazione spirituale; è una poesia di ricerca che possiede, all’interno della ritmicità e della semantica del verso, un retaggio culturale ben delineato.

Il poeta propende verso idee risorgimentali, costrutti di pensiero appresi dal retaggio paterno, e nello specifico alla figura di Giuseppe Mazzini di cui Rebora ammira le idee, intravedendo nell’operato del patriota una sorta di evangelismo laico dedito ai bisogni del popolo e alla giustizia sociale. Ma oltre le alte idee risorgimentali, la poesia di Rebora si caratterizza soprattutto come ricerca di fede e attestazione di quest’ultima.

Nel 1928, a tal proposito, il poeta subisce una folgorazione convertendosi al Cattolicesimo. Nel 1929 prende i sacramenti, mentre nel 1930 entra come novizio al Collegio Rosmini. Nel 1936, pronunciando i voti perpetui, viene ordinato sacerdote. Dall’improvvisa illuminazione religiosa nascerà la silloge Poesie religiose, i cui componimenti risalgono al periodo fra il 1936 e il 1947. Nel 1955 compone il Curriculm Vitae in cui  l’autore ripercorre la sua storia autobiografica mentre nell’ultima raccolta, Canti dell’infermità (1956), esplora l’aggravarsi della malattia che lo aveva condotto alla paralisi.

La poetica della ricerca spirituale e la critica alla società capitalista e industriale: la lirica soffocata dalla modernità

La raccolta Frammenti lirici rappresenta l’opera più vasta di Clemente Rebora  ma, soprattutto,  è la silloge in cui emerge l’attenzione del poeta verso i problemi esistenziali dell’uomo. La buona volontà, intesa come parte positiva dell’esistenza, e la depressione come contesto di connotazione negativa sono le tematiche principali che dominano la raccolta.

Ma è soprattutto la trasformazione della città che si riversa nel moderno, e il conseguente stato d’animo  dovuto al primo conflitto mondiale che imperversa nel popolo italiano, a fare da sfondo all’immagine poetica qui descritta da Rebora.

Il poeta cerca un compromesso esistenziale nell’indifferenza della vita cittadina voltata, ormai, al progresso moderno; la società industriale e il capitalismo diventano ombra della poesia autentica che Rebora immagina fagocitata da una modernità che avanza. La poesia è agonizzante: sommersa dalla società industriale e dalle masse che si piegano a un consumismo sempre più dilagante. Nella visione di Rebora, in questo senso, il poeta è adesso solo con il proprio Io; mentre cerca di non annaspare nel mare dell’opportunismo si rivolge a una visione metafisica nel tentativo di un’amara consolazione che è, in realtà, un’illusione per sopravvivere.

 

O pioggia feroce che lavi ai selciati
lordure e menzogne
nell’anime impure,
scarnifichi ad essi le rughe
e ai morti viventi, le rogne!
Quando è sole, il pattume
e le pietre dei corsi
gemme sembrano e piume,
e fra genti e lavoro
scintilla il similoro
di tutti, e s’empiono i vuoti rimorsi;
ma in oscura meraviglia
fra un terror di profezia
tu, per la tenebra nuda
della cruda grondante tua striglia,
rodi chi visse di baratto e scoria:
annaspa egli nella memoria,
o si rimescola agli altri rifiuti,
o va stordito ai rìvoli di spurghi
che tu gli spazzi via.

Pioggia feroce ( Frammenti lirici, 1913)

 

Gli antichi valori sono ormai sparsi, mentre aleggia nell’anima del mondo una profonda vacuità. Peculiarità di questa raccolta è la massiccia presenza di rimandi danteschi. Le raccolte Canti anonimi (1920-1922), le Poesie sparse pubblicate nel 1947e le Prose liriche (1915-1917) sono uno sviluppo tematico della prima opera che risente non solo del periodo bellico e dell’ansia della guerra, ma anche della rottura del rapporto con la pianista Lydia Natus.

La visione del mondo, in queste sillogi, si fa cruda; Rebora descrive l’esistenza umana come composta da infinite pieghe di infelicità e smarrimento. L’uomo, secondo queste concezioni, è costretto a vivere non solo in una condizione di isolamento ma anche in un estremo contesto di violenza dovuto a un’umanità superficiale, vuota e futile. Solo la morte rimane come consolazione; morire, per Rebora, è l’unico modo che ha l’uomo  per sfuggire alla ferocia della guerra, nonché l’unico sollievo.

Il poeta, però, conferisce alla morte anche un altro significato tutto pedagogico; la morte è l’unico mezzo che hanno i soldati, protagonisti degli atti più efferati e criminosi che si possano compiere in guerra, di comprendere l’antico concetto di Pietas; una pietà che, in vita, non potrebbero mai comprendere in quanto assoggettati alle oscure dinamiche di un mondo che ha smarrito l’etica e gli alti valori.

La visione della poetica reboriana successiva alla conversione: Poesia e Fede come compagne di sventura

La folgorazione religiosa di Rebora diventa, per il poeta milanese, una speranza a cui aggrapparsi; la fede cattolica, secondo questo nuovo modo di interiorizzare il suo percorso letterario, è la chiave della speranza utile alle angherie del mondo moderno: avere fede significa, soprattutto, essere coscienti che nonostante la perdizione terrena uno spiraglio di redenzione dell’animo umano esiste ancora.

La ricerca spirituale che muove la poetica di Clemente Rebora sembra, in un certo senso, conclusa con la conquista della fede. Un concetto che, tuttavia, farà traballare lo spirito reboriano poco dopo l’illusa certezza di aver trovato una strada spianata per la ricerca del proprio Io. In Canti dell’infermità (1956), dove l’autore è già gravemente malato, traspare tutta la sua sofferenza: colpito da ictus e affetto da paralisi, Rebora attraverso questa silloge pone al centro una profonda sofferenza fisica che sconfina nella disperazione e  che fa appurare al poeta che sia la poesia che la fede non sono altro che due compagne nella vita di un uomo. Una concezione che unisce tutta la produzione reboriana, come confermano alcuni versi contenuti in Curriculum vitae (1955):

Quando morir mi parve unico scampo,
varco d’aria al respiro a me fu il canto:
a verità condusse poesia.

Curriculum vitae, 1955

 

Nel componimento La poesia è un miele, scritta il 15 ottobre 1955, Clemente Rebora sottolinea come l’ars poetica sia arte, appunto, qui in terra ma vita in cielo.

La poesia è un miele che il poeta,
in casta cera e cella di rinuncia,
per sé si fa e pei fratelli in via;
e senza tregua l’armonia annuncia
mentre discorde sputa amaro il mondo.
Da quanto andar in cerca d’ogni parte,
in quanti fiori sosta, e va profondo
come l’ape il poeta!
L’ultime cose accoglie perché sian prime;
nettare, dolorando, dolce esprime,
che al ciel sia vita mentre è quaggiù sol arte.
Così porta bontà verso le cime,
onde in bellezza ognun scorga la mèta
che il Signor serba a chi fallendo asseta.

La poesia è un miele ( Canti dell’infermità,1956)

 

Risulta chiara, in questi versi, la tematica della fratellanza e dell’importanza della solidarietà degli uomini con Dio. Poesia e fede sono state per Rebora non solo compagne tacite di vita  ma dolci sorelle che lo hanno accompagnato, attraverso la sofferenza, in un mondo sempre più proiettato verso un futuro veloce, poco dedito all’attenzione e all’approfondimento, per lasciar spazio a una modernità che si configura nella praticità come valore essenziale e risolutivo. In questo senso Rebora è stato lungimirante: la poesia, salvo poche eccezioni, è stata soffocata dalla concezione moderna dell’uomo che si piega all’edonismo del consumo a discapito dell’autenticità della sua essenza.

 

Ugo Tommei, proletario lacerbiano e futurista e gli scrittori di ‘Quaderno latino’

Contadino e lavoratore manuale, Ugo Tommei. Un vero e proprio autodidatta in un’epoca in cui la passione accesa e bruciante e il sacro fuoco del sapere e della conoscenza divampavano nelle menti e nei cuori dei proletari più coscienti e generosi. Visse a cavallo tra XIX e XX secolo, e fu una sorta di Lemmonio Boreo in carne ed ossa. Chissà se Ardengo Soffici nel redigere il suo giovanile, anticonvenzionale ed anarcoide romanzo del 1912 così intitolato, non si sia poi realmente ispirato ad un certo milieu da lui frequentato ed approfondito e nel quale alcuni personaggi come Tommei, così affini per l’appunto a Lemmonio Boreo, erano componenti preziose ma infine non così rare.

Ugo Tommei nacque a Firenze il 15 gennaio 1894 da Francesco e Teresa Linari. Tommei, pur da umilissime origini, si fece ben presto conoscere pubblicamente ed entrò in contatto con gran parte della cultura fiorentina dell’epoca, caratterizzata dalla straordinaria ed effimera “stagione delle riviste”. Strinse amicizia con i futuristi papiniani che in seguito partoriranno la rivista Lacerba (1913-1915) e con i vociani Soffici, Rosai, Meriano che lo apprezzarono e lo stimarono. Tra il Nostro e questi tre si realizzò una sincera osmosi culturale, uno scambio gratificante, costante e spiritualmente arricchente. Anarchico e futurista, Tommei decise di prendere una iniziativa personale fondando proprio nella sua città il quindicinale Quartiere Latino (1913-1914), sul quale scrisse anche il poeta Gian Pietro Lucini, e a cui collaborarono molti giovani autori, tra cui il siciliano Enrico Cardile, il pugliese Arcangelo Di Staso, l’abruzzese Giovanni Titta Rosa, il ligure Camillo Sbarbaro, il romagnolo Corrado Govoni, i triestini Giani Stuparich e Augusto Hermet.

La rivista fiorentina diede alla luce sette fascicoli, tutti di otto pagine in formato 22×32 cm, stampati presso la tipografia Vallecchi e usciti, due volte al mese, dal 24 ottobre 1913 al 28 febbraio 1914. Ugo Tommei era affiancato da Guido Pogni in qualità di gerente responsabile. La direzione era in via S. Antonino 5 a Firenze, il costo di ogni copia era di 10 centesimi. Il programma e i lavori ospitati sul periodico si orientarono immediatamente verso una sorta di nazionalismo popolare, sociale e neo-proletario molto rude ed indisciplinato, nonché politicamente scorretto. Come evidenzia lo studioso Ugo Piscopo nella post-fazione alla ristampa anastatica della rivista, il nome di Quartiere latino “si agganciava alle esperienze dei cenacoli dell’omonimo quartiere parigino, dove, a fine Ottocento, era circolata aria frizzante di etimo antiparlamentaristico, antidemocratico, antiriformistico, antilaicistico”. Dall’articolo programmatico apparso sul primo numero, si comprende che l’intitolazione della rivista di Tommei e dei suoi amici voleva essere inoltre un tributo alla latinità, intesa soprattutto come vigore, buona salute, certezza delle proprie origini, spirito indomito e ribelle. Punto di riferimento per tutto il gruppo che ruota attorno a “Quartiere latino” è indubbiamente il già ricordato Gian Pietro Lucini, precursore e insieme eversore dell’avanguardia, iniziatore e distruttore di “mode culturali”. Lucini in questa rivista esaltò il proprio anarchismo e la propria trasgressività, sottolineò la funzione civile assegnata alla poesia, il valore politico attribuito all’arte. Nello stesso tempo, si apprezzarono le sue audaci e rivoluzionarie sperimentazioni del verso libero, le originali interpretazioni delle tendenze simboliste, il suo gusto dissacratorio nei confronti dei valori e delle credenze ufficiali, la consapevolezza della crisi delle ideologie e della necessità del loro superamento attraverso una modalità attivistica, vitalistica, volontaristica di chiara origine soreliana. Grande fascino esercitò anche Corrado Govoni, scelto come secondo Nume Tutelare della rivista per la sua genuinità, la duttilità intellettuale e la libertà assoluta da ogni condizionamento, pur rispettando i supremi ed eterni valori letterari.

I giovani scrittori riuniti attorno a Tommei desideravano riportare la parola scritta alle sue funzioni peculiari, liberandola da contaminazioni e riconducendola al suo rigore tipografico. Da questo punto di vista è significativo il fatto che la rivista non conceda spazio alla grafica, alle illustrazioni, alle riproduzioni, diversamente da altri fogli contemporanei proiettati verso la modernità. Eccezione a questa “regola” fu fatta soltanto negli ultimi due numeri, in cui l’intitolazione acquistò più spazio e i caratteri si fecero più flessuosi. L’idea complessiva che accomunò tutti i collaboratori di “Quartiere latino” fu quella di accogliere le sollecitazioni allo svecchiamento del futurismo, ma senza sbilanciarsi troppo in avanti e prendendo le distanze dalle posizioni più estreme. La rivista volle essere moderna nell’attualità dei linguaggi e delle analisi, “fondandosi sulla concretezza e sulla specificità delle situazioni culturali e storiche presenti, ma non staticamente ferme”. Quest’idea, però, nella Firenze di quegli anni, dovette necessariamente fare i conti col papinianesimo, che esercitò un’intransigente egemonia sull’area futurista toscana. E infatti, per non restare tagliati fuori, Tommei, Di Staso, Titta Rosa si arruolarono come lacerbiani e futuristi, abbandonando tutte le riserve e le ambiguità precedentemente espresse in proposito e sospendendo le pubblicazioni di Quartiere latino col n. 8 del 28 febbraio 1914, ma garantendo in cambio agli abbonati la possibilità di ricevere i fascicoli di “Lacerba”, la rivista fondata e animata da Giovanni Papini tra il 1913 e il 1915, così importante nella storia letteraria italiana di cui Ugo Tommei divenne collaboratore piuttosto attivo.

Nelle prime settimane del 1915, Ugo Tommei, già impegnato nella propaganda “guerraiola”, scriveva a Giovanni Papini, rimasto l’unico direttore di Lacerba dopo il disimpegno di Ardengo Soffici all’inizio dell’anno, questa lettera:

“Caro Papini, come sta? Non le ho mai scritto sperando di vederla da un momento all’altro a Firenze, dove io dirigevo fino a pochi mesi fa il mio Quartiere Latino. Come correrei, se potessi, fra i francesi! Che brutta cosa è la famiglia! Mai come ora n’ho sentito il peso. Ma se non c’è dato di muoverci, perché non si fa qualcosa in altro campo? Perché tocca bene a noialtri giovani a scuotere i restii e a propugnare la guerra ai barbari. Ho visto Lacerba rossa: non le pare che dovrebbe essere il vero giornale della guerra? Dopo il suo bell’articolo sui fatti di Giugno tutti aspettano da lei un’esplicazione di gran genio – scusi l’espressione – al minuto. Un’indelebilità, un’opera duratura, resistente al tempo, ottenuta colla trattazione dell’attualità. Lei, poi, che sente così fortemente l’anima francese moderna, sono convinto che farebbe grandi cose. Se potessi persuaderlo! Lacerba dovrebbe diventare l’organo dei giovani intelligenti, svegli, ragionatori come sognatori – e liberi, soprattutto. La redazione dovrebbe essere un ufficio arruolamenti, la sua tipografia dovrebbe comporre da mattina a sera manifesti uso ’48! Tutti i quotidiani danno notizie incerte, stupide, tagliate; articoli balordi, gravi danze di regime, matrimoni degli Ulivi. Se no ci sono le cronachine illustrate da due soldi l’una. Occorrerebbe un vero diario-notizie importanti sintetiche, impressioni di amici partecipanti, inchieste, rivelazioni di dessous politici sporchi-articoletti personali e violenti. Lacerba dovrebbe essere il suo pamphlet. Un grande scrittore trova sempre la vita nell’attualità. Il giornalismo è un sudiciume perché i giornalisti italiani non costano un cazzo e c’entrano come in un rifugio. Ma lei m’insegna che proprio i francesi eccellono in questa letteratura del momento. Bisogna dare delle opinioni al pubblico. Non fare gli spettatori. Questa guerra è stata una rovina, è vero. Ma chi l’ha voluta? I tedeschi. E ormai addietro non si torna. Se tutti si fermassero sarebbe la vera rovina. Dunque buttiamoci anche noi. Non abbiamo mica paura. Del resto nessuno c’impedirebbe di dire le parole della nostra verità. Lacerba dovrebbe uscire anche straordinariamente ad ogni avvenimento straordinario. Come un quotidiano. Sarebbe un’anticipazione insperata del progetto cui stavamo dietro per l’anno nuovo. Si farebbero grandi tirature, da scaraventare fin dove la posta arriva. All’uscita si farebbero varare da una squadra di giovanotti strilloni: Lacerba! Lacerba! Lacerba! Papini capitano dei giovanotti coraggiosi! Papini non invecchia mai! Il suo amore per l’Italia e per l’Anarchia non è una bella frase da quindicinale artistico! È anche un pugno di ferro contro chi non vi acconsente! Viva la guerra: solo questo le dico io che pure non mi son sentito mai tanto anarchico come ora. Quella rivoluzione che da tanto si sollecita e si vitupera dovrebbe scoppiare proprio ora integrata ad una difesa dai nemici stranieri. Morte ai tiranni di dentro e a quelli di fuori. Lei crede che non ci sarebbero abbastanza persone da dedicare tempo a questo Rinnovamento Lacerbiano? Io mi offro fin d’ora a tutto quello che possa occorrere: articoli, correzioni di bozze, tazze di caffè, fatiche amministrative, sgobbamenti di tutti i generi; corse da una parte all’altra della città, riscossioni. Tutto purché non si restasse fermi a guardare in un momento così eroico. E quando ci fosse la necessità piglierei anche il fucile, benché ci veda poco e benché uno sparo mi rintontisca. E quando Lacerba fosse diventata davvero la parola vera del popolo italiano, dopo, alla fine della guerra, non se l’immagina lei la grande autorità e la grande importanza e considerazione delle nostre teorie artistiche? Se no questa Lacerba può morire. Pochi la comprano, nessuno ci si interessa. I vecchi piglieranno l’occasione per osservare che è morta per pacatezza d’idee. Porco giuda, non ci mancherebbe altro! Mi scriva, se non le dispiace, e faccia, faccia, faccia. Se dorme è un parricida. La saluto caramente”.

La lettera va datata con certezza al principio del 1915 sulla base dell’inequivocabile “ho visto Lacerba rossa”: e Lacerba cominciò infatti ad uscire col titolo in rosso il 3 gennaio di quell’anno. Questa era la fase più aspra della battaglia per l’intervento italiano, che vedeva impegnata la quasi totalità delle giovani avanguardie italiche. Ugo Tommei aveva dunque accolto il futurismo ma nella sua singolare accezione papiniana, in parte ostile al marinettismo. Affascinato dalla mistura antiborghese e antidemocratica lacerbiana, egli era il consapevole esponente di quella giovane generazione per cui inclinazione interventista e disposizione rivoluzionaria non furono affatto inconciliabili, ed anzi invocò proprio l’integrazione rivoluzione/guerra, anarchismo/interventismo: “morte ai tiranni di dentro e a quelli di fuori”, insomma.

Uno degli aspetti più rilevanti della lettera va individuato nella convinzione che Giovanni Papini potesse e dovesse assumere la leadership dell’intellettualità interventista e fare di Lacerba l’organo di una tale operazione politico-ideologica. Per Tommei, il carisma interventistico di Papini derivava direttamente dal suo carisma ribellistico. Il papinianesimo nel primo quindicennio del Ventesimo Secolo aveva fatto grazie ad esso numerosi proseliti nelle file anarchiche individualiste e questa realtà era confermata dalle abbondanti polemiche del “revisionista anarchico” Camillo Berneri contro l’individualismo libertario in rapporto a siffatto argomento. Carlo Molaschi parlò polemicamente di “lue futurista”; sempre quest’ultimo “per richiamare alla ragione gli sragionanti”, nel 1919 si scagliava retrospettivamente contro coloro che correvano “sulle orme di Papini per accettare i suoi scritti come Vangelo d’anarchismo”. Ma il sovversivismo individualista e antiborghese di “Lacerba”, a dispetto degli attacchi dei Sommi Pontefici dell’Anarchismo di scuola gradualista, era sincero: la rivista papiniana era giunta, ad esempio, al punto di offrire in omaggio ai suoi lettori i libri Cardi selvaggi e Aristocrazia operaia di Lorenzo Cenni, libertario, già direttore de La Blouse, singolare rivista di “letteratura operaia, compilata esclusivamente con scritti originali di autentici lavoratori del braccio” e stampata a Firenze, in pieno vocianesimo, tra il 1906 e il 1910.

L’anarchico interventista Ugo Tommei aveva già dimostrato quanto la sua ideologia fosse omologa a quella papiniana fin dai discorsi di quel personaggio-filo conduttore del “Quartiere Latino”, emblematico persino nel nome di “Maso il contadino”, cui Tommei stesso aveva affidato e delegato l’esposizione di talune proprie idee politiche e sociali. Maso – alter ego tommeiano – è infatti “contadino e poeta” e “nega partiti e padroni”, cosicché,  Antidemocratico, antiegualitario e panegotista, Maso il contadino detesta la borghesia ma anche le masse urbane – “il canagliume sbuccione” – pur amando vigorosamente il popolo, “che è ignorante, sì, crudo, testardo”: un amore per il popolo-campagna e un disprezzo per il popolo-città, dal sapore strapaesano, nel quale la borghesia e le masse operaie sono viste come componenti complementari, non conflittuali, della medesima civiltà produttiva. Né Maso-Tommei sopporta di venir classificato entro una linea politica determinata: anarchismo, per Tommei, vale rifiuto della Politica, anche se non nel senso dell’antipoliticità e del qualunquismo, quanto piuttosto in quello del superamento stesso della politica a vantaggio di una concezione artistico-totalizzante, una sorta di anarchismo radicale, socialista e patriottico. “Contadinità-arte-anarchismo” costituiscono insomma il tentativo di esplicarsi di una personalità contraddittoria ed ambivalente, naturale espressione di tutto un milieu minoritario ma ben visibile nei primi due decenni del Novecento Italiano.

Amico, come detto, di Ottone Rosai e a sua volta apologeta, come il pittore, del Teppismo, Tommei presenta dunque, in questa lettera a Papini appena riportata, proprio gli stati d’animo, le urgenze e i bisogni suoi, tipici ad un tempo di quella condizione generale esistenziale e di una ben determinata fase: ovvero, da un lato la domanda d’aggregazione, dall’altra la spinta all’eversione. Guerra e Rivoluzione si mescolano e si confondono, “Lacerba” viene trasformata da giornale d’arte in strumento di agglutinazione politica e Papini da scrittore d’assalto a capo ideologico: intervento bellico o Settimana Rossa, per Tommei si trattava sempre di realizzare i modi di una via estetico-politica all’eversione, di fomentare la tendenza allo spirito scissionistico come fenomeno di massa. In piena guerra, poco prima di morire al fronte, Tommei ribadirà sul maggior foglio del futurismo combattente, L’Italia Futurista, queste pulsioni, che avranno il loro culmine nella sua ultima visionaria proposta: quella per l’abolizione della Storia, una provocazione che in tempi ben diversi e più recenti verrà rilanciata da Carmelo Bene. In campo futurista, in seguito alla rottura fra la direzione di Lacerba e il gruppo fedele a Filippo Tommaso Marinetti, la scelta di Tommei per il lacerbismo fu operata senza alcuna remora e condivisa a Firenze da un nucleo di giovani intellettuali noti come “Cerebralisti” e capitanati da Mario Carli, successivo protagonista dell’Impresa di Fiume, ed Emilio Settimelli, che ritroveremo, anch’egli, con D’Annunzio nella Fiume “città di vita”.

Arte come sublimazione della politica, illogicità delle forme come provocazione sociale: il deflagrare bellico tanto auspicato prima, e celebrato poi, diventa per questi giovani rivoluzionari il terreno di prova e di preparazione per un anarchismo “intellettuale” scopertamente connotato dai segnali sovversivi e fiammeggianti della rossa bandiera e del fantastico fuoco. Per settori non indifferenti, soprattutto sul piano qualitativo, del sovversivismo, la Grande Guerra del 1914-1918 o Prima Guerra Mondiale fu l’occasione per esprimere una certa tendenza vitalistica, superomistica, energetica, attivistica, edonistica, estetizzante che si contrapponeva ad ogni Sinedrio, fosse pure rivoluzionario, e rifiutava ogni dogmatismo, giudicandoli come prodromici all’accettazione di un riformismo inerte, funzionale alle esigenze del capitalismo. I militi sovversivi aderirono a questa battaglia con l’impellente desiderio di mettersi alla prova, in discussione, in questione, di attuare nei fatti e non soltanto a parole il precetto nicciano “vivere pericolosamente”. Il caso personale di Tommei fu dunque emblematico di una intera generazione: egli cadde da eroe in guerra, sul Monte Asolone, presso Caporetto, a soli ventiquattro anni, il 18 gennaio 1918, sacrificando così la sua esistenza ai nobili ideali della Patria, del Socialismo e della Rivoluzione, coniugati peraltro in maniera personalissima e paradossale, in assoluta sintonia con i vissuti materialmente lontanissimi e al contempo spiritualmente contigui dei suoi commilitoni di provenienza sovversiva e di fede interventista.

 

Fonte: Ugo Tommei-L’intellettuale dissidente

Ardengo Soffici, frammentista e biografo plurilinguista

Ardengo Soffici (Rignano sull’Arno, 7 aprile 1879 – Vittoria Apuana, 19 agosto 1964) è stato più un pittore che uno scrittore, un pittore paesano che ha trasferito nelle sue opere quella limpidezza e naturale felicità tipiche del suo paesaggio nativo. Lo si potrebbe definire anche uno scrittore di frammenti ariosi e luminosi. Nato in una famiglia di agiati agricoltori, nel 1893 Ardengo Soffici si trasferisce con la famiglia a Firenze dove assiste al tracollo finanziario del padre; si dimostra interessato soprattutto verso l’arte piuttosto che sulla letteratura e infatti nel 1900, dopo la morte dei genitori si reca a Parigi dove comincia a lavorare come illustratore per importanti riviste. Nel 1907 torna in Italia dove stringe amicizia con Papini e Prezzolini con i quali collabora alla <<Voce>> e partecipa alle numerose polemiche che in quegli anni animavano il dibattito culturale allargando le sue conoscenze. Nel 1913 insieme a Palazzeschi e a Papini fonda la rivista futurista <<Lacerba>>.

Se prendiamo in esame il racconto Lemmonio Boreo vediamo emergere in tutta la sua chiarezza lo stile di Ardengo Soffici; il personaggio di Lemmonio ha un temperamento istintivo, dotato a volte di equilibrio che lo porta, per spontaneo sentimento, a difendere le persone più deboli che da soli nulla potrebbero contro sopraffazioni e ingiustizie. Lemmonio propone un compito serio: ricondurre l’ordine rotto dalla prepotenza e dalla malvagità dei forti; si mette dunque a girare per i paesi, si allea con un violento e con un furbo, ma a fin di bene. Insomma, Lemmonio è un don Chisciotte italiano, composta per tre quarti di ingenuità e per una parte di razionalità e se la caverà sempre bene perché in fondo Lemmonio, come tutti gli ottimisti crede nel suo programma e confida nel bene presente nel mondo.

Tuttavia ciò che interessa di più del Lemmonio Boreo non è il dato psicologico, ma quella qualità dello stile di Soffici di disporre dentro un disegno pulito e finito in ogni sua parte, il colore del paesaggio, gli aspetti, le figure che in esso circolano corpose; non a caso Lemmonio si sente appagato e sereno quando contempla solitariamente le campagne, quando ammira il sole mattutino e la pioggia cadere sulla strada. Dell’uomo, egli non sa quasi nulla, gli stessi suoi amici sono nelle sue mani come fantocci che egli muove a suo piacimento. In questo senso, tutto il romanzo è un susseguirsi di macchiette, tipi, e figurine. La campagna toscana è presente in maniera festosa ed è proprio su questo aspetto che Soffici differisce dagli altri scrittori toscani che invece puntano sulla malinconia e sulla nostalgia.

Più che un vero futurista Soffici può essere definito come ha detto il critico Mengaldo, «un Apollinaire italiano in formato ridotto». Egli infatti da Marinetti ha saputo cogliere la retorica e la tecnica dell’analogia, da Apollinaire l’assenza di punteggiatura, dalla pittura futurista gli accostamenti fantastici e dal nuovo cinema lo scorrere continuo delle immagini, avvalendosi con disinvoltura di un efficace plurilinguismo, che va dal toscanismo al francesismo.

Ardengo Soffici è stato anche un acuto ritrattista letterario che ha avuto grande solidità, fermezza e serietà, tipiche qualità del”campagnolo toscano” come dimostrano Ricordi di vita artistica e letteraria e soprattutto Rete mediterranea, in cui l’autore nel primo scritto, dichiara la sua fede letteraria e idee riguardanti il concetto di arte, la mortalità dello scrittore, il senso della storia, nel secondo rievoca e rivive iil suo periodo di giovinezza partendo da una visita allo studio del pittore macchiaiolo Giovanni Fattori. Questi ricordi ci consegnano un Soffici maturo, con il suo raggiunto equilibrio morale che, dal punto di vista letteraria, è tutto improntato di classicismo. A parte alcuni brevi immagini di scrittori italiani come Carducci, Verga e D’Annunzio, l’autore toscano si concentra sui profili dedicati a scrittori amici come Bellini, ancora alle prime armi letterarie ed è bene sottolineare come in quel periodo la letteratura italiana fosse scarsa di quel genere di testimonianze biografiche utili a dare rilievo ad un periodo letterario.

Nella produzione letteraria di Soffici, oltre ad altri scritti di narrativa e di prosa (Ignoto toscano, Arlecchino, Kobilek, La giostra dei sensi, Battaglia fra due vittorie, Ritratto delle cose di Francia), figurano anche poesie (Elegia dell’Ambra, Marsia e Apollo), e saggi anche di natura artistica (Cubismo e futurismo, Giovanni Fattori, Carlo Carrà, Periplo dell’arte, Serra e Croce)

Camillo Sbarbaro, una vita ad occhi chiusi

Camillo Sbarbaro (Santa Margherita Ligure, 12 gennaio 1888 – Savona, 31 ottobre 1967), nato in provincia di Genova, si trasferisce nel 1904 con la famiglia a Savona dove consegue il diploma di licenza. Nel 1910 trova lavoro in un’industria siderurgica. Il suo esordio poetico avviene un anno dopo con il volumetto di poesie dal titolo “Resine”, che sarà rifiutato dall’autore stesso.

Nel 1914 pubblica “Pianissimo” la sua raccolta più significativa. Nello stesso anno si trasferisce a Firenze dove conosce Papini, Campana e altri artisti che facevano parte della rivista “La voce”: proprio grazie a loro collaborerà con la rivista. Quando scoppia la grande guerra, Sbarbaro lascia l’impiego e si arruola come volontario nella Croce Rossa Italiana e nel febbraio del 1917 viene richiamato alle armi. A luglio parte per il fronte. Scrive in questo periodo le prose di “Trucioli” che verranno pubblicate nel 1920 a Firenze da Vallecchi. Lasciato il lavoro nell’industria siderurgica, si guadagna da vivere con le ripetizioni di greco e di latino, appassionandosi sempre di più alla botanica e dedicandosi alla raccolta e allo studio dei licheni, sua vera passione.

Camillo Sbarbaro ha condotto una vita appartata, sostentata dopo l’abbandono dell’industria con ripetizioni di latino e greco. Muore nel 1967. La sua poesia rientra nell’espressionismo più per i temi che per lo stile: le scelte formali sono lontane dalla tensione violenta degli espressionisti contemporanei. Il lessico è banale e quotidiano, e lo stile prosastico con l’influenza della metrica tradizionale. Anche se la materia è autobiografica Sbarbaro riesce a scrivere poesie che trattano con distacco la sua stessa vita, dovuta evidentemente da una scarsa vitalità. Il protagonista degli episodi narrati si presenta come un fantoccio o un sonnambulo che vive la vita alienante in condizione di oggetto e non di soggetto. Al poeta non resta altro che guardarsi dall’esterno diventando spettatore di sé: è questo il tema dello sdoppiamento che caratterizza tanto la poetica di Camillo Sbarbaro.

La freddezza della poesia di Sbarbaro è sicuramente un’auto repressione dovuta al contrasto del desiderio di una vita autentica e la sua impossibile realizzazione. Così come il protagonista è arido così il paesaggio in cui vive, la città è un deserto in cui è impossibile interagire con le persone e gli oggetti della civiltà moderna.

Negli anni 20 del ‘900 conosce Eugenio Montale che gli dedicherà un saggio nella raccolta “Auto da fè”: fu tale l’elogio che indusse Montale alla confessione di aver scelto il titolo della sua raccolta “Ossi di seppia”, proprio in onore di Sbarbaro e della sua poetica dello scarto. La poesia ormai è un residuo, è stata messa ai margini e ormai non può rispondere all’agonia del mondo. È questo il motivo che indusse i poeti al forte soggettivismo autobiografico. Camillo Sbarbaro diventa così un paradigma per Montale, poiché con la sua poetica rivive e fa rivivere la condizione di crisi del poeta nel 900.

I temi centrali della poetica sbarbariana sono quindi il doppio, lo scarto e la chiaroveggenza, intesa come la consapevolezza di un poeta sincero e onesto che ha imparato a conoscere sé, nel tentativo di risvegliare il distratto viandante che non si volta. È evidentemente una denuncia sociale nella quale egli non nega uno spiraglio di salvezza per l’uomo, ma neppure l’afferma.

Le due raccolte più importanti di Sbarbaro sono “Trucioli” e “Pianissimo”:

Pianissimo” è un canto cupo di sconforto per la condizione del poeta e dell’uomo in generale. è una poesia della disperazione e della sofferenza tutta personale. I motivi ricorrenti in questa raccolta sono dunque: lo sconforto universale e la condizione di sofferenza individuale. La critica che muoverà Montale alla raccolta, volta a riconoscerne il limite, è l’impossibilità e l’inadeguatezza di Sbarbaro di coniugare questi due aspetti: egli non riesce a farsi carico di una voce universale, tema tanto caro a Montale.

“Trucioli” sono pagine di diario, fogli volanti, in cui il tema centrale è lo scarto, visibile dal nome stesso della raccolta. Sbarbaro cammina “con un terrore da ubriaco” tra la gente che non comprende, in un luogo che non sente familiare. Egli galleggia come il sughero sull’acqua. Il poeta riesce a descrivere la condizione di sofferenza personale, soffermandosi anche sulla Natura che però è vista come mondo crudele. Per questo motivo è possibile rinvenire Leopardi e i poeti francesi del 900 per il tema della solitudine.

Dalla raccolta “Pianissimo” proponiamo “Taci, anima stanca di godere”:

Taci, anima stanca di godere

e di soffrire (all’uno e all’altro vai

rassegnata).

Nessuna voce tua odo se ascolto:

non di rimpianto per la miserabile

giovinezza, non d’ira o di speranza,

e neppure di tedio.

Giaci come

il corpo, ammutolita, tutta piena

d’una rassegnazione disperata.

 

Non ci stupiremmo,

non è vero, mia anima, se il cuore

si fermasse, sospeso se ci fosse

il fiato…

Invece camminiamo,

camminiamo io e te come sonnambuli.

E gli alberi son alberi, le case

sono case, le donne

che passano son donne, e tutto è quello

che è, soltanto quel che è.

 

La vicenda di gioia e di dolore

non ci tocca. Perduto ha la voce

la sirena del mondo, e il mondo è un grande

deserto.

Nel deserto

io guardo con asciutti occhi me stesso.

 

È evidente in questa poesia la principale aspirazione anti-dannunziana che ha come obiettivo la sliricizzazione del verso. Già i crepuscolari e Gozzano aprono la via per questa strada, ma Camillo Sbarbaro è il poeta che forse ha raggiunto i risultati più mirabili. Come afferma Mengaldo, Sbarbaro è “il primo vero esempio in Italia di poesia che torcesse radicalmente il collo all’ eloquenza tradizionale”. La lingua è assai vicina a quella del parlato quotidiano, con assenza di fenomeni polisemici e un uso parco di metafore. Queste scelte stilistiche sono il simbolo di un pacato colloquio con se stesso, che rappresentano la pietrificazione e inaridimento interiore, che fanno di Sbarbaro l’esempio calzante della crisi della coscienza moderna.

 

Renato Serra, il critico umanista

Poco riconosciuto dalla cultura italiana fortemente influenzata dall‘ estetica crociana, Renato Serra (Cesena, 5 dicembre 1884 – Monte Podgora, 20 luglio 1915) durante la sua breve esistenza (mori’ a soli 31 anni, colpito a morte davanti al Podgora durante la prima guerra mondiale), ha anticipato la figura dell’intellettuale antifascista, che avrebbe preso il largo nei decenni successivi, distaccandosi dalle analisi di Benedetto Croce. Riconosciuto più come critico poetico che letterario, Serra, inizialmente convinto della superiorità dell’essere  un uomo di lettere  rispetto all’esistenza ordinaria, ha preso coscienza dei limiti che quella condizione offriva; consapevolezza maturata proprio con l’avvento della guerra, di fronte alla quale il letterato è solo un uomo illuso.

Nato da una famiglia benestante e di tradizione risorgimentale, Renato Serra si forma presso il Regio Liceo Ginnasio Vincenzo Monti di Cesena dove termina gli studi a  soli sedici anni, senza sostenere l’esame di maturità dati i voti altissimi. Si  iscrive  presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Bologna e segue le lezioni di insegnanti  celebri come  Carducci e Severino Ferrari, di quest’ultimo apprezza molto anche le idee socialiste. Si laurea  nel 1904 con una tesi sullo “Stile dei Trionfi del Petrarca”.

Qualche anno dopo Renato Serra torna a Cesena, dove svolge  il servizio militare di leva, l’anno successivo  si trasferisce a Torino, e collabora  con Luigi Ambrosini alla creazione di un dizionario Italiano-Latino e pubblica molti articoli per la rivista <<La Voce>> entrando in contatto anche con Croce. Diviene anche  direttore della Biblioteca Malatestiana di Cesena. Carducciano e tradizionalista, Serra dovrà fare ben presto i conti due eventi che lo sconvolgeranno, uno di portata mondiale, la prima guerra mondiale (come si è  già accennato), e l’altro, privato, ovvero il matrimonio della donna che amava con un altro uomo. Questi fatti incideranno fortemente anche sul pensiero critico di Serra.

Il critico  riflette ed espone le sue posizioni nella sua opera più importante, “Esame di coscienza di un letterato” del 1915; egli condanna la guerra e gli intellettuali di propaganda, difende il valore salvifico della letteratura e la letteratura stessa come fosse una fanciulla in pericolo e lo fa con tutta la passione che lo ha sempre contraddistinto; è convinto che si vada in guerra per dare un significato alla propria esistenza, non per la patria, e questa profonda motivazione inizialmente ha spinto anche lui ad arruolarsi abbandonando ogni razionalità, ogni ragione intellettuale. Come afferma egli stesso: << […] non ho distrutto quello che era nella mia carne mortale, che è più elementare e irriducibile, la forza che mi stringe il cuore. È la passione.>>

Esame di coscienza di un letterato

Renato Serra parte per il fronte ma dopo aver compiuto il suo esame di coscienza, dopo essersi confessato, dopo aver oscillato tra la voglia essere nella storia e di partecipare agli eventi e il desiderio, proprio degli intellettuali, di isolarsi dal mondo, contrapponendo alle barbarie del mondo la bellezza e la purezza della letteratura. Prevarrà la concezione ungarettiana della guerra come occasione per riscoprire il senso di umanità, la fratellanza tra gli uomini, un modo per rigenerarsi. Non c’è più alcuna superiorità intellettuale, nessun rifugio dalla storia (Serra ne rifiuta la concezione provvidenzialista-razionalista hegeliana), ma solo bisogno di sentirsi fratelli gli uni con gli altri, di condividere passioni (intese come pathos, sofferenza).

La poesia non può e non deve contemplare la bellezza ma  essere un mezzo per  promuovere un ‘esistenza  autentica e vera; con questo invito Serra preannuncia la stagione neorealista, la stagione dell’impegno sociale, strada che deve essere sempre percorsa da chi si dichiara uomo di cultura.  A differenza di Croce che pare non scandalizzarsi di fronte alle tragedie delle vita, non soffrire davanti alle sofferenze che la guerra porta, Serra è “umano”, come Carducci, il quale <<eleva l’arte all’uomo>>, e non è un caso  che il critico accosterà Croce a D’Annunzio.

Un critico da riscoprire e per molti da scoprire, da prendere come modello da tutti gli intellettualoidi odierni che si atteggiano a depositari della verità, sterili, imbrigliati nella retorica, senza aver compreso il valore rivoluzionario delle parole, il cui scopo è scrivere per convincere, estraneo al critico emiliano.

Se oggi fosse in vita, Renato Serra parlerebbe di “educazione al cambiamento”, e di “rivoluzione della coscienza” in un’epoca dove la critica letteraria “sembra” scomparsa.

 

 

Emilio Cecchi: l’assolutezza dell’arte

Il critico letterario e d’arte Emilio Cecchi (Firenze, 14 luglio 1884 – Roma, 5 settembre 1966) ha sempre riconosciuto il suo stato d’animo in immagini e figure, estraneo all’enfasi, propenso per un linguaggio colloquiale ed elegante come dimostrano i suoi saggi (specialmente “Saggi e viaggi”).

“I grandi romantici inglesi”

Il credo estetico di Cecchi  ha come obiettivo un’arte considerata bellezza assoluta,ma non puà formulare un giudizio, una critica definitiva a tal proposito, ma solo in maniera approssimativa. Influenzato sia da Carducci che da D’Annunzio, la ricerca sperimentale del critico toscano dissente dal pensiero di Benedetto Croce,  considerato fuori dal reale, solo l’arte per Cecchi ha valore assoluto, non c’è filosofia o verità che tengano. Appassionato di letteratura inglese, il critico traduce nel 1903  la “Defence of Poetry” di Shelley, ponendo la sua attenzione in particolar modo sulle questioni morali. Durante la sua permanenza presso la rivista “La Voce” scrive articoli sulla  letteratura russa, tedesca e inglese; quest’ultima oggetto di diversi interventi nel corso del 1906, in particolare quelli su Swinburne, controverso poeta nell’età vittoriana  dallo stile ampolloso ma grandioso nella tecnica versificatoria, e sull’ironico G. Meredith che nelle sue opere mette a nudo l’ipocrisia della società britannica.

Emilio Cecchi  probabilmente è stato il primo critico italiano a segnalare l“‘Ulisse” di Joyce,oltre che l’italiano Dino Campana, da lui considerato “il migliore poeta che abbiamo”. Nel 1918 collabora a “L’Astico” di Piero Jahier, conosce personaggi come  Michele Cascella, Riccardo Bacchelli, e Gaetano Salvemini. In missione a Londra, incontra Chesterton; collabora col Manchester Guardian e con lo Observer. Nel 1919  fonda insieme ad altri intellettuali  “La Ronda”, la rivista letteraria romana che auspicava un ritorno alla tradizione letteraria dopo gli eccessi delle avanguardie. Nel 1925 è tra i firmatari del “Manifesto degli intellettuali antifascisti”, redatto da Benedetto Croce.

Nel 1920 Cecchi esordisce su “Valori plastici“; dal dicembre 1923 fino al 1927 scrive su”La Stampa”; nel 1927  è stabilmente tra i collaboratori del “Corriere della Sera”. Infine diige la rivista “Vita Artistica”. C’è spazio anche per delle esperienze cinematografiche, Cecchi infatti lavora con i registi Camerini e Blasetti, Lattuada e Castellani; (Cecchi è anche il padre della celebre sceneggiatrice per il cinema Suso Cecchi D’Amico) negli anni Trenta collabora all'”Enciclopedia italiana” diretta da Gentile.

Dirige con Natalino Sapegno la “Storia della letteratura italiana”, pubblicata dell’editore Garzanti in 10 volumi negli anni 1965-1969.

Sostenitore di una discendenza della pittura moderna dagli impressionisti e dai macchiaioli, il critico fiorentino è stato tra i primi estimatori di Armando Spadini, tra i maggiori esponenti della cosiddetta “Scuola romana”, di tendenza espressionista, criticando ferocemente i “neoclassici”.

“Messico”

Si puònotare in Cecchi una certa nostalgia per un Umanesimo ormai perduto che lo ha portato ad un ritorno a Francesco De Sanctis e quindi ad autori come Foscolo, Leopardi e Manzoni oltre al già citato Carducci; il rimpianto è soprattutto verso quella religiosità che manca nella società moderna.

Senza dubbio il miglior scritto di Emilio Cecchi è rappresentato dal saggio “Messico” contenente preziosi appunti di viaggio con mirabili ritratti.


Dino Campana: tra follia e poesia

Nato a Marradi in provincia di Firenze, Dino Campana(Marradi, 20 agosto 1885- Scandicci, 1 marzo 1932), trascorre l’infanzia in modo apparentemente sereno ma, fin da giovane inizia a dare segni di squilibrio mentale, favoriti dalla religiosità bigotta della madre infelice che lo accusa di essere l’anticristo.

Dino Campana

La sua vita è un alternarsi di momenti di lucidità e di furore violento, per questo è a più riprese internato in un manicomio sino al ricovero definitivo del 1918. Destabilizzante e turbolenta  si è rivelata la sua relazione con la poetessa Sibilla Aleramo.

Le crisi nervose si acutizzano, come pure i frequenti sbalzi di umore, a causa dei difficili rapporti con la famiglia, soprattutto con la madre, e  della vita monotona del paese natio.

Dino Campana esprime il suo “male oscuro” con un irrefrenabile bisogno di fuggire e dedicarsi a una vita errabonda. La prima reazione della famiglia, e poi dell’autorità pubblica, è quella di considerare le stranezze del poeta come segni lampanti della sua pazzia. A ogni sua fuga, che si realizza con viaggi in paesi stranieri dove si dedica ai mestieri più disparati per sostentarsi, segue, da parte della polizia (in conformità con il sistema psichiatrico di quei tempi), il ricovero in manicomio.

Nel 1913 consegna ai direttori della rivista “Lacerba” il manoscritto di poesie “Il lungo giorno” ma questi lo smarriscono e il poeta riscriverà i versi a memoria, pubblicandoli poi sulle riviste “La Voce” e “Lacerba“. Muore in manicomio nel 1932 dopo 14 anni di internamento trascorsi a dettare al suo medico curante notizie autobiografiche e riflessioni.

Da molti considerato il “poeta visionario” italiano per eccellenza, da altri ridimensionato a semplice <<poeta visivo>> (Contini), Dino  Campana è un poeta discusso, coinvolgente e suggestivo. Nell’ambito della linea “vociana”, in cui può esser fatto rientrare almeno marginalmente, rappresenta una sintesi originale di simbolismo ed espressionismo. L’ansia di liberazione e realizzazione esistenziale, è uno dei tempi ricorrenti nella poesia di Campana.

Le sue opere sono  pervase da due tendenze apparentemente inconciliabili: da una parte l’immediatezza esistenziale nel rapporto con la realtà e dall’altra invece l’influenza di modelli importanti come Carducci e Nietzsche. Anche la follia di Campana è stata interpretata in due modi opposti ma che coesistono: essa rappresenta l’incapacità di compromessi sociali e l’adesione al modello culturale di poeta maledetto (rifacendosi a Rimbaud). Alla base della psicologia dell’arte del poeta c’è un sentimento lacerante di esclusione e disarmonia. In questo senso di disadattamento Campana esprime in modo personale l’instabile condizione dell’intellettuale novecentesco. La reazione dell’autore, però, è differente rispetto agli altri poeti contemporanei, per la sua tendenza a resistere disperatamente alla nuova condizione, negandola. e  tentando  disperatamente di reintegrare l’io nell’armonia generale delle cose.

La sua controversa collocazione critica e i giudizi non certo unanimi hanno contribuito a formare attorno a questa figura un alone di mistero, per cui, quando si parla di  Dino Campana, si tende sempre a dare credito all’immagine del “poeta maledetto”.

La follia però, per il poeta, non è un presupposto della sua produzione; semmai è considerabile un punto d’approdo la libertà sterminata, distruttiva e disgregatrice di ogni coerenza, figlia del tempo in cui Nietzsche aveva decretato “la morte di dio”.

Eugenio Montale fu tra i primi estimatori ufficiali, il più autorevole a oggi, delle composizioni di Dino Campana, tanto da dedicargli una poesia o meglio un omaggio a chi meglio di lui aveva saputo piegare le parole fino a renderle ancora più oscure.

La poesia di questo poeta visionario è una poesia nuova nella quale sono presenti i suoni, i colori e la musica in una trasfigurazione reale del simbolismo onirico. Il verso è indefinito e i valori classici e una grande modernità si compenetrano in una forma e purezza irripetibili.

Campana afferma di voler <<nel paesaggio collocare dei ricordi>> e sul paesaggio, fondamentale nella sua poesia, aleggia un alone di misteriosa lontananza. Nei suoi scritti sentiamo il fascino delle ore crepuscolari, della luna sui campi, del canto che si perde nelle strade solitarie, della finestra illuminata nel buio della notte mediterranea.

La partenza e il ritorno sono i temi fondamentali della poetica campaniana; un figliol prodigo che desidera la casa paterna, ma che odia al contempo; è possibile confrontarlo con la figura di Ulisse, nella misura in cui possiamo considerare che il poeta ha una reale volontà di ritornare a casa.

Un altro tema fondamentale della sua poetica è “l’oscurità tra il sogno e la veglia”, percepibile dal ripetersi degli aggettivi, che ritornano come se dettati durante un sogno.

Per comprendere meglio le qualità poetiche di Campana è utile servirci delle parole di Zanzotto, il quale afferma che <<una poesia come quella di Campana si configura come un flusso ininterrotto di armonie e di disarmonie, di serie melodiche e semantiche che si sovrappongono e s’intrecciano: proprio per questa ragione, la sua poesia risulta terribilmente difficile da cogliere. Il polverio delle discontinuità mentali di Campana giunge, in qualche oscuro modo, a fondersi al latteo suono, direi, dei suoi versi, a queste maree di armonie logiche e di armonie foniche che s’inseguono incessantemente, s’intersecano, si fondono e si differenziano per ricongiungersi ulteriormente, nelle sue poesie>>.

Canti Orfici

Dino Campana insegue una concezione alta e sublime della poesia come momento misterioso d’identificazione con la vita universale e dunque momento di assoluta verità. In questo senso va letto l’aggettivo orfico della prima e unica raccolta del poeta, “Canti Orfici” del 1914. Questo atteggiamento, sia nei riguardi dell’io che nei riguardai della poesia, è ben presente nella sua raccolta, che però cela un’altra verità: la condizione dell’emarginato. Il soggetto appare sulla scena nei panni di vagabondo e uomo sofferente tra la folla.  Sono riscontrabili  due tendenze prevalenti della sua poesia,  quello simbolistico. decadente e quello espressionistico.

Pensare nel languore
Catastrofi lontane
Mentre colle sue antenne
E le sue luci un grande
Cimitero il tuo porto
……………………….
Ne la città voluttuosa
Scuotevasi il mare profondo
Caldo ambiguo il silenzio sullo sfondo
Le navi inermi drizzavansi in balzi
Terrifici al cielo
Allucinate di aurora
Elettrica inumana,risplendente
A la poppa ne l’occhio incandescente.

 

In un momento
Sono sfiorite le rose
I petali caduti
Perché io non potevo dimenticare le rose

 

…………………………………………

Col nostro sangue e colle nostre lagrime facevamo le rose
Che brillavano un momento al sole del mattino.

 

Acqua di mare amaro
Che esali nella notte:
Verso le eterne rotte
Il mio destino prepara
Mare che batti come un cuore stanco
Violentato dalla voglia atroce
Di un Essere insaziato che si strugge…

(Poesie tratte dai “Canti Orfici”)

Altra tematica trattata da questa raccolta è la sessualità, rappresentata in termini sadici. La pulsione libica diventa il canale per esprimere la ribellione e la carica aggressiva del poeta.

AnchelLa ripetizione è una caratteristica fondamentale della poesia di Campana, il quale accuratamente studia le parole per ricavarne quella musicalità che tanto lo contraddistingue.

Tuttavia questae non crea ridondanza e monotonia, bensì contribuisce alla difficoltà e alla complessità del testo.Con  la sua instancabile ossessione a ripetere,  Dino Campana ha saputo rendere conto delle tensioni di un’epoca oltre che delle sue proprie, e insieme abbia dato voce ad una violenza psichica che fa parte in qualche misura di tutti noi.  La polisemia e l’ambiguità del testo mirano a produrre effetti musicali che, si fanno più intensi, proprio là dove il senso logico del discorso sembra rimanere sospeso. Se volessimo riferirci a Freud, è possibile affermare che l’oscuro significato delle parole, che porta alla sospensione del nesso logico, altro non è che l’effetto della rimozione che, per ubbidire al principio di realtà, trova nella sua espressione una formazione di compromesso tra l’impossibilità di esprime alcuni contenuti e la volontà di farlo.

La poesia, in questo senso, può essere dunque considerata un sintomo che esprime il disagio del poeta e di tutto un modello generazionale.

concludiamo  con il distico “Eterno” di Ungaretti che ci fa  comprendere a pieno la poesia di Campana:

Tra un fiore colto e l’altro donato

L’inesprimibile nulla.

Clemente Rebora, espressionista morale

Nato a Milano nel 1885Clemente Rebora abbandona gli studi di medicina per quelli letterari. Grazie alla laurea in lettere insegna in diverse scuole, sia pubbliche che private.

Clemente Rebora

Contemporaneamente collabora con la rivista <<la Voce>> sulla quale pubblica nel 1913 la raccolta “Frammenti lirici” , e alcuni articoli riguardanti il problema dell’educazione dei ragazzi di ceti più umili, e altri invece rivolti ai suoi amici letterati, ai quali rimprovera un eccessivo intellettualismo, indicando la necessità di un avvicinamento ai problemi reali e alla quotidianità.

Partecipa alla prima guerra mondiale, fino all’esplosione di una bomba che gli provoca uno shock nervoso per il quale è congedato.

Nel 1919 abbandona l’insegnamento istituzionale, per insegnare nelle scuole serali dei quartieri più poveri della città: fu la sua prima scelta vocazionale. Da quel momento Rebora si dedica alla carità, aiutando i barboni e le persone bisognose del quartiere in cui vive.

Pur non avendo un’educazione religiosa, i suoi continui interrogativi, che vanno dalla fiducia nell’opera dell’uomo al disgusto per il mondo, lo portano, ben preso, alla conversione, diventando sacerdote. Approdando così alla fede, egli riesce a trovare una via d’uscita ai suoi quesiti.

Clemente Rebora nutre una visione pessimistica della vita, scaturita dal comportamento degli uomini e dalla volontà di una classe intellettuale volta a propagandare dottrine, principi egoistici e immorali, capaci poi di allontanare la gente comune dalla morale cristiana.

La corruzione umana pertanto si esprime soprattutto nella città, <<affollata solitudine>>, sentita, in opposizione alla sana campagna. In Rebora la città non è un luogo del mito, ma del contemporaneo e della civiltà delle macchine. La reazione del poeta non è il recupero del mito, o di paradisi perduti simbolisti, ma si traduce in un’aggressione sarcastica nei confronti del mondo e una riflessione morale, sulla certezza di un trionfo finale della bontà. Per questo motivo la reazione di Clemente Rebora non fu quella di un isolamento, di un ripiegamento in se stesso, o di una rinuncia al colloquio con il mondo, bensì quella di una volontà d’intervento e di testimonianza della possibile via al bene.

Nell’ambito dei poeti vociani, Clemente Rebora rappresenta l’espressione più alta di quella tendenza espressionistica che, assieme a una forte coscienza morale, arriva alla concezione della poesia come manifestazione di un impegno esistenziale.

Frammenti lirici

Le scelte formali del poeta milanese sono forti e violente e colpiscono il lettore: il lessico è originale e selezionato in base alla durezza fonica, gli enjambement creano rotture brusche così come l’alternanza di versi brevi e lunghi. Le sue scelte sono riconducibili alla tradizione lombarda (da Dossi a Gadda) e a Dante dal quale riprende l’ansia religiosa di assoluto. Egli più di tutti ha trasformato in poesia esistenzialità e moralità, rappresentando il caos dell’esistenza nella sua contraddizione, cercando di riportare nella realtà ordine e razionalità.

Il poeta si sforza di attribuire ai suoi testi un significato proprio, tendendo all’allegoria: gli oggetti del mondo non hanno più valore in se stessi come per il simbolismo, ma sta al soggetto assegnarglielo. Per questo si può parlare del poetare di  Rebora come di un ” atletismo agonistico”, cioè una sfida solitaria nell’affrontare la vita cercando di darle un ordine e un significato.

E in rapporto a se stesso la poesia è un mezzo di salvazione.

Ci sono forti richiami  al  concetto di “corrispondenza” tipico dei poeti decadenti che, però, non è più la volontà di mettere in relazione le cose, gli oggetti, bensì l’umano e il divino.

Per intendere meglio il pensiero poetico di Rebora può venire utile un passo di una sua lettera ricordato da Mengaldo: << Vorrei giovare ed elevare tutto e tutti, smarrirmi come persona per rivivere nel meglio e nel desiderio di ciascuno; esser un dio che non si vede perché è negli occhi medesimi di chi contempla, essere un’energia che non si avverte perché è nel divenire stesso d’ogni cosa che esiste, perché si crea in ogni attimo>>. Questo passo è utile per illustrare una generale tendenza della poesia reboriana, in altre parole l’oggettivazione, l’annullamento quasi, dell’io nella realtà esterna. Egli abbatte i confini tra l’io interno e realtà esterna, rappresenta l’uno e l’altra quasi fossero fusi. Proietta l’io nella realtà esterna.

I “Frammenti lirici” costituiscono la sua prima opera. Usciti nel 1913, sono costituiti da 72 liriche, che contengono numerose descrizioni paesaggistiche, ricordi della sua famiglia, figure femminili, interrogativi sull’esistenza dell’uomo, ed elementi di poetica.  Scritti in pieno clima vociano, ci riconducono alla poetica del frammentismo. Essi sono la grande avventura di un giovane che vuole misurarsi con il mondo degli affetti, delle idee, delle parole e dei suoni. Egli fonde tutti questi aspetti per esprimere una verità percepibile ma non sempre rivelabile. Ciò è rinvenibile sin dal primo frammento: <<Qui nasce, qui muore il mio canto: / E parrà forse vano / Accordo solitario; / Ma tu che ascolti, rècalo / Al tuo bene e al tuo male: / E non ti sarà oscuro>>.

È bene specificare che la caratteristica principale delle descrizioni paesaggistiche di Rebora, è quella di essere umanizzate, senza che però avvenga una vera metamorfosi in stile dannunziano. Leggiamo da Frammenti lirici:

E quasi sento un caldo alito umano / sul viso e dietro il collo un far di baci / e tra’ capelli morbida la mano / d’amante donna in carezze fugaci

Qui, dunque, il poeta si sente immerso nella natura che lo accarezza e lo bacia come un’amante farebbe con il suo amato.

Altro elemento tipico dei Frammenti lirici” è la figura della madre, ritratta come colei <<che nel donare il sangue fu serena>>, protettrice nei confronti dei figli, amorevole e paziente; nei confronti di tale donna il poeta non poté che scrivere parole di ringraziamento.

I “Canti anonimi” del 1920, scritti dopo l’esperienza della prima guerra mondiale, costituiscono una denuncia a tutti gli orrori della guerra, con la volontà di opporsi alle posizioni dei futuristi e di tutti i guerrafondai. La guerra non poteva che rappresentare una conferma della prevalenza cieca del dolore e della morte. Il poeta, comunque, ci mostra la speranza della bontà dell’uomo, verso un’azione di fede nel mondo, come testimonianza e pegno di assoluzione. Anche in questa raccolta emerge la figura del poeta, desideroso di giovare agli altri. Egli osserva lo spettacolo della vita messo in scena da individui chiusi nelle loro solitudini e nei loro egoismi.

Il tema delle illusioni è affiancato da un sentimento nostalgico della campagna che, certamente sincero, mostra la via della salvezza.

Curriculum vitae

La caratterizza principale di questa raccolta è una certa tendenza all’allegoria e al simbolismo, che creano con costanti richiami la speranza nei confronti del bene.

I “Canti dell’infermità”del 1947, come già il titolo dice, appartengono al periodo della malattia del poeta, la quale ne costituisce poi il tema principale. Clemente Rebora accetta serenamente il disfarsi del suo corpo, e dal suo soffrire nasce uno slancio mistico, di desiderio e congiunzione con Dio. È il periodo più importante per il poeta, che ci mostra l’immagine del poeta come di un’ape, e della poesia come miele, che il poeta produce e distribuisce ai suoi fratelli. Il poetare è diventato ormai un modo concreto di amare Dio e i fratelli. È in questa raccolta che esprime per la prima volta l’essenza della poesia cattolica, rimodellando il concetto simbolista dei richiami e delle concordanze, ora possibili tra cielo e terra. Ovviamente non manca in questa raccolta il tema della morta sentita cristianamente, come passaggio e ingresso a una nuova vita.

La raccolta intitolata “Curriculum vitae”del 1955 è ormai poesia della memoria che nasce dalla riconsiderazione di tutta la sua vita. Clemente Rebora rivive idealmente le stagioni della sua vita e in ognuna scopre un evento, un segno del suo destino sacerdotale.  Tutto, gli appare come un disegno già scritto, verso il momento cruciale della vocazione e della scelta sacerdotale. La visione di un mondo crudele e nefando, trova consolazione nell’idea che la poesia sia stata la strada per la salvezza. E, infine, la parte conclusiva è dedicata alla vocazione che per sempre ha cambiato la sua vita.

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