Mariagrazia Toto: dove tutto diventa di colore blu

L’artista Mariagrazia Toto nasce nel 1974 a Milazzo, piccola penisola protesa verso l’Arcipelago delle Isole Eolie. Si diploma presso L’Istituto statale D’Arte nella sezione di Architettura e Arredamento di Milazzo e nel 2003 consegue la laurea presso la Facoltà di Architettura di Reggio Calabria. Sin da bambina Toto frequenta la bottega d’Arte del maestro Rioma, dove acquisisce le prime competenze artistiche ed intraprende un percorso che nel 1997 le fa scoprire un originale modo di dipingere avvalendosi di uno stile surreale nel quale pare configurarsi un viaggio straordinario dentro la memoria di se stessa. L’artista siciliana propone potenti figure dell’inconscio in una dimensione senza tempo. L’uso del monocromato, solcato da fasci di luce bianca che scandisce le figure, si pone come chiaro simbolismo volto a suggerire un atteggiamento spirituale di fronte alla realtà.
Mariagrazia Toto dal mese di Settembre 2015 è rappresentata da Agora Gallery, New York.

Le opere di Mariagrazia Toto sono volte a dimostrare come il nostro inconscio sia un linguaggio, ovvero la genesi, per dirla alla Jacques Lacàn, delle strutture del pensiero. Un viaggio nelle forme del meta-pensiero quello di Toto, artista ideista, che ci dice che è il pensare che racchiude il germe di ogni metafisica. Siamo di fronte ad un universo surreale e simbolico dove le immagini oniriche, quelle più nascoste del nostro Io, prendono forma tra le mani di Mariagrazia Toto, ma non risultano inquietanti come quelli dei surrealisti francesi: sono figure quasi rilassanti, pacifiche rivelatrici di ciò che meno si conosce. Potremmo leggere l’arte di Mariagrazia Toto come un invito a conoscerci meglio, a non avere paura, se utilizziamo la chiave giusta o semplicemente pensiamo ad un colore che suscita in noi benessere e calma. Ma, come giustamente sostiene l’artista siciliana, il blu è anche il colore della paura.

Reduce dalla mostra Blue Sicily, tenutasi a Palazzo d’Amico di Milazzo, fino a qualche settimana fa, Mariagrazia Toto punta a far conoscere il blu, come simbolo stesso della sua isola in tutto il mondo.

Opera “I Pupi”

 

1) Secondo lei l’arte è un plagio o una rivoluzione?

L’arte è per me rivoluzione, come diceva Gauguin .L’artista è tale se produce opere innovative altrimenti sarebbe plagio di autori già esistenti.

2) Perché ha deciso di dipingere?

Io dipingo per necessità interiore. La vita mi ha portato a muovermi perché sospinta dalla mia inquietudine. Questa inquietudine prima mi ha decorata e dopo avermi fatto male mi ha obbligata a fare esperienza, a fare conoscenza. L’arte è per me un tramite di conoscenza del mio profondo.

3)  Secondo la psicologia del colore, il blu è affidabile e propone sicurezza interiore e fiducia. Ha scelto il blu nella sua arte perché si sente una persona idealista e questo colore innalza i pensieri?

La domanda più frequente che mi fanno è: perché blu! All’inizio faticavo a rispondere ,fin quando un giorno ho iniziato a fare questa domanda a me stessa .Ho scoperto nel tempo , e studiando il significato psicologico dei colori, che ciò che rappresentavo erano emozioni, in particolare quelle che io definisco le emozioni blu. Blu è il colore della contemplazione della sicurezza, dell’infinito che non si vede, ma è anche il colore dei lividi e della paura.

4) C’è una dimensione religiosa nella sua pittura?

La fede è un atto di certezza senza dimostrazione. Dentro il mio cuore, io ho avuto una conversione di vita che mi ha cambiata. Anche se non ho Cristo davanti so che opera nella mia vita. L’uomo è alla ricerca della conversione.

5) Cosa vorrebbe che pensassero e che provassero i visitatori di una sua esposizione?

Ciò che più volte ho sperimentato durante le mie esposizioni è stata l’emozione. Mi piace pensare che ognuno possa trovare, all’interno dei miei dipinti, il proprio messaggio.

6) Degas diceva che l’arte non è ciò che vedi, ma ciò che fai vedere agli altri. E’ d’accordo con questa affermazione?

Io ti faccio vedere ciò che vedo e che sento attraverso il mio essere. Se Degas si riferisce a questo, allora concordo con la sua affermazione.

7) La sua esposizione che le ha dato maggior emozione e adrenalina?

Ogni volta è un’ emozione nuova. Certo non posso nascondere che la mia esposizione a New York ha rappresentato un momento veramente importante nella mia carriera artistica. Ho avuto la possibilità di incontrare e di confrontarmi con il mondo. Adrenalina pura.

8) La sua arte è un viaggio nella mente, nei ricordi, nel nostro lato più nascosto e meno conosciuto. Cerca di tradurre in qualche modo l’inconscio?

Sì, il mio è uno straordinario viaggio all’ interno di me stessa. Io dipingo solo ciò che la mia mente ricorda. E i ricordi sono immagini imperfette, come la vita.

9) Un artista che apprezza particolarmente?

Turner il mio preferito.

10) Si sente un’artista ideista o sintetica, riducendo in essenza i simboli per evocarli meglio?

Mi sento più ideista che sintetica. Nelle mie opere è il colore stesso ad essere simbolo. Le forme all’interno del colore sono la parte che riconosciamo, quasi sempre sono immagini reali, scolpite nel blu mediante l’utilizzo del bianco. Io sono lì, sospesa tra il pelo dell’acqua e l’abisso. In quell’unico posto dove tutto diventa di colore blu, dove nel silenzio puoi trovare il senso di tutto.

 

L’amore è dialogo, preludio di una relazione stabile che cresce mentre si consuma, come ci suggerisce il dipinto di Friant ‘Les Amoureux’

Forse, da sempre, abbiamo dell’amore un’immagine incompleta e unilaterale. Confermata da secoli di letteratura e di storia dell’arte. È l’amore come passione incontenibile, come desiderio che non sa trattenersi e che si libera andando ad abbracciare e a baciare la persona amata. Tutta la storia dell’arte, in fondo, è costellata da raffigurazioni di questo tipo. E se l’amore fosse anche altro? È quanto ci suggerisce uno splendido quadro di Émile Friant (Dieuze, 16 aprile 1863 – Parigi, 9 giugno 1932), intitolato “Les Amoureux” (1888), “Coloro che si amano”. Sullo sfondo, un suggestivo paesaggio fluviale, con dolci colline verdi immortalate, verosimilmente, quando l’autunno inizia a sopraggiungere. In primo piano, i due innamorati: raffigurati – questo l’aspetto più interessante – in maniera diversa e non convenzionale rispetto a secoli di tradizione artistica. Non si baciano, né si abbracciano: non è l’elemento della passione amorosa a prevalere. Parlano tra loro, in dialogo. Che siano innamorati e non semplici interlocutori è rivelato, oltre che dal titolo, dallo sguardo con cui ciascuno contempla l’altro.

Il paesaggio, pur suggestivo, appare statico: il solo dinamismo del quadro è offerto dalla relazione dialogica tra i due innamorati, i cui sguardi, nonostante la bellezza del luogo, sono rivolti verso la persona amata, che per ciascuno è il centro del proprio mondo. Non ci è dato sapere che cosa, in concreto, i due innamorati si stiano dicendo e quale sia il contenuto o anche solo il tema generale del loro dialogo. Sappiamo solo che il loro rapporto amoroso è fondato sul dialogo, sulla parola, a tal punto che è nell’atto concreto del discorrere che Friant ha voluto eternarli. I due innamorati di Friant ci segnalano che, opposto al narcisismo, l’amore è un’esperienza duale di verità, che non annulla le differenze, ma le fa coesistere nell’unità amorosa, nella sintonia unitaria in cui l’amore stesso si risolve. In questo senso, l’amore apre un mondo, che è duale: fa vivere il nuovo nello stesso, poiché il medesimo mondo in cui eravamo come individui acquista ora, nella relazione amorosa, un nuovo significato. Che si dà nel dialogo, nella comunicazione tra i due soggetti ora esistenti come parti di un’esperienza duale di verità. La vita cessa di essere vissuta dal punto di vista dell’uno: è ora vissuta da una prospettiva duale, in cui le due parti non spariscono, ma aspirano all’unità. E quest’ultima – ci suggerisce Friant – è anzitutto dialogo, parola, esperienza vissuta e verbalizzata in forma duale.

Pensare che l’amore possa risolversi nella passione incandescente e nel desiderio incontenibile significa far valere una visione immatura, peraltro coerente con il nostro tempo dell’instabilità generalizzata e della precarietà che si fa precariato sentimentale. Significa fare dell’amore un’esperienza necessariamente a tempo determinato, destinata a “scadere” non appena la relazione assuma nuove figure e nuove forme che, lungi dal farlo eclissare, lo fanno esistere e lo stabilizzano. Il vero amore si stabilizza solo se v’è dialogo: e cresce mentre si consuma. Diceva Fromm che l’amore immaturo è quello che dice “ti amo perché non posso stare senza di te”, là dove quello maturo e consapevole afferma “non posso stare senza di te perché ti amo”. La sua formula magica – ce l’ha insegnato Lacan – è quell’encore in cui si condensa la fedeltà al medesimo. Che è, poi, anche fedeltà all’inizio, all’evento imprevedibile che ha portato all’incontro da cui l’amore ha tratto la sua esistenza. La persona amata diventa insostituibile, oggetto di un dialogo infinito con cui la propria esperienza del mondo è sempre di nuovo posta in forma duale. Se è così, diventa possibile sostenere che l’amore può dirsi finito, disseccato ed esaurito quando viene meno il dialogo, la capacità di condividere l’esperienza duale del mondo: quando ciascuno dei due – o almeno uno dei due – rientra in se stesso, abbandonando il dialogo e il progetto di vita duale e tornando a esistere in sé e per sé.

 

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Psicoanalisi e surrealismo, il romanzo psicoanalitico: Freud, Lacan, Breton, Allan Poe e Dalì

Uno dei primi surrealisti, Emile Malespine, affermava che per capire Freud occorreva inforcare dei testicoli come fossero occhiali.
Fatto sta, che il padre della psicoanalisi ha contribuito non poco ad alimentare la fantasia e stimolare il genio creativo di molti artisti, in particolar modo dei surrealisti, appunto. Nondimeno, la letteratura è sempre stata di grande ispirazione per Freud, tanto che per molti la psicoanalisi è essa stessa un’opera d’arte molto simile a un romanzo. Ma come si sono conosciuti psicoanalisi e surrealismo e com’è nata la reciproca attrazione? Attorno al 1915, Luis Aragon e André Breton, studenti in medicina, interessati alla neurologia e alla psichiatria, hanno fatto propri i lavori di Pierre Janet, professore al Collège de France e, all’epoca, figura di spicco della psicologia. Nel suo saggio “Automatisme psychologicque” del 1889, Janet sosteneva il ruolo fondamentale dei traumi psicologici sulla frammentazione dello spirito e anticipava di poco Freud nell’affermare l’importanza dei ricordi subconsci nella quotidianità.

Su questa scia intellettuale e culturale, nel 1924, Breton formula il ben noto manifesto del surrealismo, definendolo “un automatismo psichico puro per mezzo del quale ci si propone di esprimere, o verbalmente, o per iscritto, o in qualsiasi altro modo, il funzionamento reale del pensiero. Dettato dal pensiero, in assenza d’ogni controllo esercitato dalla ragione, al di fuori d’ogni preoccupazione estetica o morale … “

I surrealisti, quindi, hanno cominciato a considerare la creatività automatica come una forma di attività artistica superiore, l’unica in grado di raggiungere la fonte della creazione poetica suprema, svincolata dalla tirannia della ragione, appellandosi a quel nebuloso universo subconscio tanto proclamato da Freud. Breton, in realtà, aveva letto solo documenti di seconda mano riguardo Freud e le sue teorie, anche perché lui, così come la maggior parte dei suoi colleghi, non conosceva il tedesco. Nel 1921, decise di fare un viaggio a Vienna proprio per incontrare il mitico padre della psicoanalisi, il quale però pare lo ricevette piuttosto sbrigativamente, liquidandolo con una compassionevole pacca sulla spalla. Nonostante la sua delusione, Breton sostenne la psicoanalisi, sopportando anche le forti e continue tensioni ideologiche tra il movimento surrealista e quello psicoanalitico.

I surrealisti, infatti, non hanno mai sposato uno dei concetti fondamentali della psicoanalisi, quello del complesso d’Edipo, definendolo come una ridicola uniforme per un astratto manichino. Era il sogno l’anima del surrealismo. Così Freud, consapevole e forse un po’ invidioso del crescente riconoscimento che questi giovani sobillatori stavano conquistando anche in virtù di alcune sue teorie, cominciò a intrattenere una fitta corrispondenza con Breton. L’argomento fondamentale del loro epistolario era la relazione tra sogno e creazione artistica e, pare, che il tono tra i due fosse sempre piuttosto teso, reciprocamente sfidante come fossero due duellanti calamitati da sentimenti contrapposti d’amore e odio, sempre in bilico tra l’ironico e il pedante. Breton fu comunque fino all’ultimo un ammiratore di Freud, pur mantenendo una certa distanza dalle sue teorie, così come dal leninismo e dal marxismo, tanto che prese fermamente le sue difese durante la persecuzione nazista del 1938.

D’altro canto, anche la psicoanalisi è stata fortemente influenzata dal surrealismo. Jacques Lacan, che frequentò filosofi come Heidegger, Claude Levi-Strauss, dedicando molta attenzione anche alla teoria della comunicazione di un linguista come Jakobson e per il quale bisognava liberare l’Io dal proprio narcisismo per far venir fuori l’inconscio, entro della vita pulsionale del soggetto e condizionato dal linguaggio e che coincide con la totalità del soggetto stesso, mentre la cura cerca la Verità non la guarigione. Appare quindi evidente come il tema della contaminazione di saperi sia stato centrale nella vita di Lacan e non sia estraneo alla sua idea di formazione. Tema che è spesso al centro dei pensieri di Lacan e su cui combatte le principali battaglie della sua vita professionale. Inoltre, nel 1956, ne “Il seminario su La lettera rubata”, Lacan commentò al racconto di Edgar Allan Poe, elaborando la tesi che collega l’elaborazione di Freud sulla pulsione di morte alla presa dell’ordine simbolico, responsabile innaturalità dell’esistenza umana.

Battaglie che daranno origine a strappi che possiamo senza dubbio definire drammatici.  S’ispirò quasi certamente a Salvador Dalì nel suo famoso metodo della critica paranoica e gli stessi concetti di dialettica del desiderio, immaginario e inconscio strutturato sembrano ispirarsi in tutto e per tutto a due opere di Breton, L’Amour fou e Le message automaticque.
L’irriverenza e la licenza artistica dei surrealisti ha, infine, permesso loro di sopravvivere alla prepotenza della psicoanalisi, traendo il meglio di Freud per elaborare in maniera originale i metodi di esplorazione delle origini nascoste della metafora. Ogni opera surreale, infatti, può essere interpretata come metafora della realtà trasferendo così al fruitore un messaggio vivo, con una forza devastante, in maniera molto più eloquente e incisiva di qualsiasi opera dichiaratamente realista. In questo, lo scrittore surrealista somiglia un po’ a un astronauta ribelle che se ne va a zonzo nello spazio creativo per i fatti suoi, in un altrove letterario dove tutto è possibile, prendendo per mano il lettore e trasportandolo in un metauniverso colorato, onirico, senza confini, lasciandolo libero di pensare senza mai farlo prigioniero. Forse, Freud – ma questa è solo una mia fantasia – era persino invidioso di questo magico dono proprio degli artisti surrealisti, quello cioè di poter trasformare i sogni ad occhi chiusi in un prolungamento verso la realtà, traducendoli in sogni ad occhi aperti.

Si sa, i poeti, quelli veri, vedono sempre più lontano!
Anche Freud, comunque, ha avuto le sue soddisfazioni in campo letterario, realizzando forse un sogno ad occhi aperti, tanto da meritarsi il premio Goethe, conferitogli nel 1930 a Francoforte. Se tutta la psicoanalisi può essere considerata davvero come uno strabiliante romanzo, la sua più bella creazione è, infatti, Freud stesso, il suo romanziere. Nel bene e nel male. Sigmund, come il Sigfried di Wagner, ha saputo forgiarsi una spada invincibile, che i nani della sua epoca mai avrebbero saputo inventare. Una spada cesellata di ‘inconscio’ e ‘resistenze’, inattaccabile quindi dalla ragionevole sfida intellettuale, e affilata da una dialettica potente e suggestiva, da far invidia a qualsiasi narratore d’ogni tempo. Non per niente – forse non tutti lo sanno – Sigmund in tedesco significa ‘bocca trionfante’, e questo eroico nome, accanto al cognome Freud, che significa ‘gioia’, sembra incredibilmente predire il senso della vita di quest’uomo, che ha fatto della sua esistenza una leggenda.

Se Freud era ambivalente nei confronti degli scrittori surrealisti, amava molto, invece, leggere Conan Doyle. Apprezzava particolarmente il metodo d’indagine logica di Sherlock Holmes che, in fin dei conti, non è poi molto lontano da quello di Freud stesso, perché gioca attorno a continue interpretazioni che sembrano dedotte da osservazioni altamente scientifiche. E guarda caso, il personaggio inventato da Doyle ha finito per prendere corpo, diventare un fantasma in carne ed ossa, tanto che per parecchio tempo, la posta di Londra ha ricevuto lettere indirizzate a: Sherlock Holmes, Baker Street 221b. Allo stesso modo, al numero 19 della Bergasse di Vienna, Freud analizzava le sue e i suoi pazienti come un artista all’opera. Immaginava di vedere sfilare davanti a sé l’inconscio delle persone, così come un viaggiatore seduto in treno, dal suo vagone, osserva il paesaggio scorrere e fluire fuori del finestrino. E così facendo, affrontando i demoni della psiche, assorbendo sensazioni e annotando fiumi di interpretazioni, questo Sherlock Holmes dell’anima ha scritto non solo il suo personalissimo, intimo romanzo, tessuto di sogni, fantasie, pulsioni, paure, frustrazioni e desideri altrui ma ha scolpito anche l’immenso prologo dell’intera storia della psicoanalisi, trascendendo la storia stessa per entrare definitivamente nella leggenda.

Non capita spesso che il senso del proprio vissuto sia compreso durante la vita stessa, più facile è lasciare che siano gli altri, a posteriori, a darne interpretazioni e giudizi. Invece, Freud sembrava rendersi perfettamente conto dell’impronta indelebile che stava lasciando sul suo cammino, tanto che durante uno dei suoi dialoghi con gli amici pare abbia affermato: “Se le mie deduzioni dovessero far nascere l’opinione che io abbia scritto un romanzo psicanalitico, risponderei che io stesso non mi esagero la portata dei miei risultati.”

Questo conferma, infine, come Freud e la psicoanalisi siano intimamente affini al surrealismo, invischiati in un reciproco e fertile contagio tuttora vivo e palpitante. E alla famosa massima cartesiana Cogito ergo sum, ovvero Penso dunque sono, emblema del realismo, l’irriverente surrealismo bretoniano ribatterebbe con un ironico sorriso, parafrasando così: Penso dunque sogno. In parole più esplicite, se il realismo mira all’essenza dell’Essere, il surrealismo aspira al suo Mistero, esattamente come la psicoanalisi.

 

Fonti:

http://www.outsidernews.net/psicoanalisi-e-surrealismo-la-strana-coppia/

La nostra epoca senza padri né legge: dopo il complesso di Edipo quello di Telemaco

Come ricordava Lacan e come, più recentemente, ha adombrato Massimo Recalcati, viviamo nel tempo del “padre evaporato”: il padre è stato ucciso. Senza padre, prevale il godimento senza misura e senza interdizione. Tutto è possibile, purché ve ne sia sempre di più.

Se il padre – insegna Lacan – è colui che coniuga e non oppone Legge e Desiderio, l’odierna epoca del capitalismo assoluto è ab intrinseco edipica: ha ucciso il padre e lascia che a dominare sia il desiderio illimitato e senza legge.

Ne è scaturito il culto conformistico della sensibilità liberal-libertaria, il massimo che la nostra epoca sembra in grado di permettersi. Il comune denominatore dei moti del Sessantotto e del capitalismo odierno sta, infatti, nella distruzione della legge come limite e come barriera in grado di imporre quell’esperienza della misura che, pur in modo contraddittorio, la cultura borghese del padre era ancora in grado di far valere.

Senza misura, la merce e il suo principio dell’estensione illimitata, vuoi anche del godimento cieco e sempre risorgente, possono imporsi sovranamente. Senza legge, il desiderio degenera: diventa mortifero, dissipativo e autoreferenziale, nichilistico come lo è il capitalismo, incardinato sulla stolida e volgare esaltazione del materialistico cinismo della pulsione non più limitata, come è suffragato dalle patologie del nostro tempo, come la tossicodipendenza, l’alcolismo e la bulimia.

È stato detto che la nostra epoca è in preda al “complesso di Telemaco” (Recalcati). Il complesso di Telemaco rovescia quello di Edipo. Se l’atto edipico per antonomasia è il godimento incestuoso scaturente dal parricidio, quello telemacheo è la nostalgia per la figura paterna della legge e della misura, la sola in grado di porre fine alla lunga notte dei Proci, in cui godimento e trasgressione si ergono a unica legge.

Nella narrazione omerica, Telemaco trascorre larga parte delle sue giornate in riva al mare, assorto nei suoi pensieri e scrutando l’orizzonte, in attesa che le flotte gloriose salpate per Itaca facciano ritorno. “Se quello che desiderano i mortali potesse avverarsi, per prima cosa vorrei il ritorno del padre”, afferma Telemaco (Odissea, XVI, vv. 175-176). In assenza del padre Odisseo, simbolo della legge, a Itaca domina incontrastata l’anomia del godimento illimitato, incarnato dai Proci. È questo l’orizzonte di senso del nostro desolante presente.

http://www.fanpage.it/la-nostra-epoca-senza-padri-ne-legge-dopo-il-complesso-di-edipo-quello-di-telemaco/

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